Attacco al DTP
23.04.2009
scrive Fazıla Mat
Proteste e mobilitazioni in Turchia dopo la vasta operazione di arresti condotta contro il partito filo curdo DTP. I commenti sulla stampa turca, le reazioni della società civile. Il caso di Pınar Selek
Il 14 aprile scorso la polizia turca ha avviato un’operazione contro il DTP (Partito democratico del popolo) su ordine della procura generale di Diyarbakır. Le incursioni delle forze dell’ordine nelle sedi del partito filo-curdo, in abitazioni e posti di lavoro, realizzate simultaneamente in 12 province del sud est, si sono estese successivamente anche in altre località e sono ancora in corso. Il bilancio attuale delle operazioni è di circa 300 fermi di cui 51 mutati in arresti. La maggior parte dei detenuti appartiene al quadro dirigenziale del partito. Figurano tra questi tre vicedirettori generali, diversi membri del consiglio amministrativo centrale e dell’assemblea legislativa del partito, diversi vicesindaci ed ex sindaci. Ma ci sono anche Ebru Günay e Şinasi Tur, due degli avvocati di Abdullah Öcalan, diversi attivisti, e il direttore della rete televisiva Gün di Diyarbakır. L’operazione si sarebbe basata su prove di intercettazioni telefoniche registrate negli ultimi quattro anni. L’accusa comune per tutti è di aver eseguito “azioni illegali” per conto del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan).
A meno di un mese dalle ultime elezioni amministrative, in cui il DTP ha raccolto un vasto consenso popolare nel sudest ottenendo la gestione di otto province, l’operazione appare come un tentativo di delegittimare il peso politico assunto da questo partito nel processo di risoluzione della questione curda. Il sistema adottato è quello di associare il DTP all’ “organizzazione terroristica” PKK, anche se non è mai stato un mistero che il DTP e il PKK siano tra essi legati. L’unico esito prevedibile di un tale intervento è quello di togliere alla popolazione curda la poca fiducia rimasta nei confronti delle “aperture” e garanzie offerte dal governo nei loro confronti.
Il DTP chiede al governo turco un terreno legislativo e politico affinché il PKK si metta in condizione di abbandonare le armi e chiede che quest’ultimo venga considerato, assieme al leader Öcalan, imprigionato a İmralı da dieci anni, quale interlocutore per affrontare e risolvere la questione curda. Chiede in particolare per il leader curdo una condizione carceraria accettabile, il riconoscimento con garanzia legale dell’identità curda e una vasta legge di amnistia. Il PKK sarebbe in questo caso disposto a deporre le armi. Quest’ultimo infatti aveva già dichiarato come segno di buona disposizione un cessate il fuoco unilaterale fino al prossimo primo giugno. In reazione all’operazione effettuata contro il DTP, il leader del PKK Murat Karayılan ha però annunciato che la tregua sarà interrotta.
Intanto, in attesa che a maggio si realizzi a Arbil in Iraq una conferenza internazionale con i rappresentanti curdi della Turchia, dell’Iraq, dell’Iran e della Siria, il co-leader del DTP Ahmet Türk si è recato a Londra per dar voce alle posizioni del proprio partito di fronte ai parlamentari britannici e ad alcune organizzazioni di società civile, mentre tra il 27 e il 30 aprile l’altra co-leader, Emine Ayna, sarà a Strasburgo e parlerà al Parlamento europeo. Entrambi chiedono che alla conferenza di Arbil partecipino anche dei deputati europei come osservatori.
Le proteste contro gli arresti non sono mancate. A Diyarbakır il 15 aprile sono scese in piazza un migliaio di persone. Il sindaco della città Osman Baydemir – che martedì è stato condannato a 10 mesi di carcere assieme al sindaco di Batman Nejdet Atalay per “aver fatto propaganda a favore dell’organizzazione terroristica PKK” chiamando i membri del PKK “guerriglieri” in un discorso tenuto nel 2008 – rivolgendosi alla folla ha detto: “Siate certi che ormai non temiamo più le stragi, la morte e la prigione. Molti dei nostri amici che sono stati fermati sono stati in carcere per 10, 20 anni. Appartiene al passato il tempo in cui temevamo il carcere. Ma le madri curde e turche continuano a seppellire i loro figli, ed è questo che ci spaventa. Noi a questo ormai diciamo basta”.
Più di venti organizzazioni civili, sindacali e alcuni partiti politici si sono radunati ad Ankara davanti alla sede centrale del DTP. A Istanbul trecento persone hanno manifestato a Beyoğlu. Oltre duecento accademici, artisti, scrittori, sindacalisti e attivisti per i diritti umani hanno firmato inoltre una dichiarazione congiunta definendo l’accaduto “un attacco antidemocratico contro un partito presente in parlamento” e “un segno di intolleranza e mancanza di rispetto nei confronti della volontà democratica manifestata nuovamente dalla popolazione curda in occasione delle elezioni amministrative”. I firmatari hanno chiesto il “rilascio immediato dei detenuti del DTP” invitando “chiunque voglia una soluzione pacifica e democratica alla questione curda a essere solidali con il DTP che presenta un’importante possibilità in questo senso”.
Alcune critiche sono arrivate anche dai quotidiani: Oral Çalışlar, analista di Radikal, critica le posizioni del capo di Stato maggiore İlker Başbuğ e del premier Erdoğan che non accettano “la legittimità di una politica basata sull’identità” e sottolinea che, nonostante le ultime affermazioni di Başbuğ per cui “La Repubblica turca” sarebbe stata “fondata dalla popolazione della Turchia” e non dai ”turchi”, la visione del generale non riesce a svincolarsi dall’idea che “le differenze etniche possano esistere solo come dimensione culturale”.
Ahmet Altan invece ha scritto su Taraf che “seppur il PKK dovesse essere costretto ad abbandonare le armi cedendo all’insistenza della comunirà internazionale, il ‘problema’ permarrebbe e domani si ripresenterebbe sotto un’altra forma. È necessario costruire una Turchia che accetti l’esistenza dei curdi, che arrivi a metabolizzare la loro uguaglianza con i turchi. Allora ci sarà la pace”.
L’impegno per la pace è stata la scelta anche di Pınar Selek, sociologa che da anni partecipa a progetti a favore degli emarginati, collaboratrice di diverse organizzazioni civili pacifiste e per i diritti umani. A 27 anni, nel 1998, assieme ad altri imputati, è stata incarcerata per due anni e mezzo con l’accusa di aver collocato nel mercato delle spezie a Istanbul una bomba, causando la morte di sette persone e un centinaio di feriti.
Durante gli anni di reclusione ha scritto un libro intitolato “Barışamadık” (“Non siamo riusciti a rappacificarci”) in cui tratta con acutezza delle iniziative contro la guerra in Turchia, delle radici e della storia del mancato raggiungimento della pace negli anni, evidenziando come prevalga anche tra alcuni pacifisti l’ideologia che “non riesce a rappacificarsi” con l’antimilitarismo. Precedentemente all’esplosione Pınar, per le sue ricerche, aveva anche intervistato i membri del PKK, cosa che l’ha portata a essere interrogata dalla polizia e anche in tribunale, già prima dell’esplosione. Successivamente i due eventi sarebbero stati fusi e Pınar è stata processata solo per l’esplosione.
Il tribunale l’ha assolta per due volte “per mancanza di prove” perché gli esperti hanno verificato che l’esplosione non poteva essere dovuta a una bomba, ma ad una fuga di gas.
Lo scorso marzo, tuttavia, la cassazione ha accolto l’appello della procura ed ha annullato l’ultima decisione di assoluzione, dando prova di un accanimento esclusivo nei suoi confronti.
Pınar sarà di nuovo processata con l’accusa di separatismo e di essere membro del PKK. La pena richiesta è di 36 anni di reclusione.
Molti amici le sono vicini e hanno dichiarato la loro solidarietà. Se nel futuro della Turchia ci sarà la pace dipenderà anche da come la giustizia deciderà su di lei.