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L’89 jugoslavo

29.06.2009    Da Belgrado, scrive Marco Abram
Mentre la maggior parte dei paesi dell’Est europeo attraversava rivoluzioni e violenze per cambiare il corso della storia, la Jugoslavia in qualche modo restava alla finestra. Una delle voci importanti di quel periodo fu l’Associazione per l’iniziativa democratica jugoslava
Nel corso del 1989 la Jugoslavia non conobbe i turbamenti che attraversarono il resto dell’Est Europa, non sperimentò le violenze della Romania né una rivoluzione “di velluto” come quella cecoslovacca. In quei mesi il paese che per primo aveva riformato il socialismo, allontanandosi dopo il 1948 dall’ortodossia sovietica, rimaneva in qualche modo alla finestra.

Come per tutte le realtà che affondavano le proprie radici nella Rivoluzione d’Ottobre, anche per la Jugoslavia il 1989 ebbe comunque effetti significativi: già l’anno successivo si giunse allo scioglimento della Lega dei Comunisti ed alle prime elezioni multipartitiche. Tuttavia, mentre per il resto del continente europeo quella stagione portava il crollo di muri e confini, in Jugoslava si andavano erigendo nuove frontiere, a cui avrebbero fatto seguito, con l’estremizzazione delle contrapposizioni nazionali, le violenze degli anni ‘90.












Le aspettative di allora, le delusioni, ma anche vent'anni di cambiamenti.
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Una delle prime voci alternative, in un 1989 di profonda crisi per la SFRJ, fu quella dell’Associazione per l’iniziativa democratica jugoslava (Udruženje za jugoslavensku demokratsku inicijativu – UJDI). La fondazione di questo gruppo, che per alcuni mesi fu protagonista rilevante della vita pubblica del paese, rispondeva ad una constatazione contestuale: “in Jugoslavia, oggi, non esiste un’iniziativa politica che sia allo stesso tempo democratica e jugoslava”. Il programma esprimeva quindi la volontà di lavorare alla “trasformazione della Jugoslavia in una comunità democratica e federale, cioè una comunità di cittadini e di unità federali”.

Con queste parole l’UJDI si presentava nel manifesto pubblicato nel marzo del 1989 sulle pagine della rivista indipendente Republika. L’associazione si componeva di membri provenienti da tutte le entità federali e da tutti i gruppi nazionali, in larga parte appartenenti all’élite culturale del paese. Tra di essi vi erano economisti come Branko Horvat, sociologi come Vesna Pešić e Nebojša Popov, intellettuali di vario genere, da Abdullah Sidran a Predrag Matvejević. Gran parte degli attivisti veniva inoltre da altre esperienze “alternative”: si trovavano protagonisti del ‘68, femministe, membri della Praxis, etc.

Nebojša Popov, figura di riferimento dell’UJDI a Belgrado e degli ambienti d’opposizione in Serbia, oggi redattore capo di Republika, spiega: “ Nel 1989 ci organizzammo tempo prima della caduta del muro di Berlino e degli altri avvenimenti nell’Est Europa, in Jugoslavia vi era già un’esperienza di critica al sistema che vedeva attivi certi ambienti e individui. Un momento significativo in tal senso fu proprio il 1968, che rappresentò una prima forte spinta al cambiamento. Fummo sensibili anche rispetto al contesto internazionale, dopo aver solidarizzato con la Primavera di Praga sostenemmo ad esempio Solidarność

Il primo nucleo dell’associazione venne fondato a Zagabria nel gennaio del 1989 mentre, a febbraio, si tenne il congresso inaugurale che ospitò circa 150 membri provenienti da diverse repubbliche. Nei mesi seguenti, secondo un modello federale, vennero aperte sezioni in numerosi importanti centri del paese come Sarajevo, Lubiana, Belgrado, Mostar, Skopje, Spalato, Rijeka e Pristina. Solo in dicembre, tuttavia, l’UJDI ebbe la possibilità di registrarsi ufficialmente a Titograd (oggi Podgorica). Le autorità avevano infatti respinto, a Zagabria come a Belgrado, le precedenti richieste per via dei contenuti politici del manifesto. All’interno dell’associazione, d’altra parte, non vi era l’intento di evolvere in partito politico. Dalle colonne di Republika Horvat spiegava: “Ogni partito politico è un’organizzazione di persone dal pensiero affine, il cui scopo è prendere il potere. Noi non siamo interessati al potere e non la pensiamo tutti allo stesso modo”. L’impegno dichiarato era di carattere più fondamentale: lavorare alla costruzione delle strutture democratiche necessarie alla transizione del paese.

Nel corso del 1989, di fronte ai mutamenti internazionali, le richieste in senso democratico si fecero sempre più insistenti. L’UJDI continuò a denunciare il ritardo del paese, criticando la convinzione di una “differenza jugoslava”. Mentre le autorità tendevano a minimizzare ciò che accadeva all’estero - nel gennaio del ‘90 Milošević sottolineava come i vicini in realtà stessero creando “quel mondo che noi abbiamo già creato nel 1948” - su Republika si invocava la fine di un sistema di monopolio del potere “identico a quelli che si sfaldano da Berlino a Sofia”.

Popov sottolinea i limiti di quella “differenza jugoslava”: “Nel 1989 ci rendevamo conto che i mutamenti avvenuti nel paese erano stati insufficienti, di fatto avevano portato ad uno spostamento del sistema di controllo del partito dal livello federale a quello repubblicano. L’élite politica del paese era contraria ad un cambiamento sostanziale”.

Secondo i membri dell’associazione, l’unica risposta alla crisi della Federazione poteva essere la transizione verso una democrazia parlamentare moderna. In primo luogo erano necessarie nuove leggi sulla libera associazione dei cittadini, sul sistema elettorale, sui sindacati ed i partiti. Particolare accento veniva quindi posto sul problema del monopolio dell’informazione, il cui superamento era considerato imprescindibile per garantire delle elezioni realmente libere.

Nel corso del 1989, tuttavia, l’UJDI non rappresentava l’unico movimento, all’interno dei confini federali, che invocava l’introduzione di principi democratici. Il tratto specificatamente distintivo dell’associazione era il mantenimento di una prospettiva di carattere jugoslavo. Lo sviluppo democratico sarebbe stato, secondo i membri, la chiave della soluzione dei problemi di convivenza nel paese, mentre veniva considerato inevitabilmente fallimentare ogni tentativo di soluzione da parte del sistema di potere che aveva determinato la crisi.

Quest’approccio distingueva fortemente l’UJDI dagli altri partiti e movimenti di opposizione presenti nel paese, nei cui programmi la questione del futuro “status” delle diverse repubbliche occupava una posizione centrale. Il 1989, d’altra parte, vedeva aggravarsi i contrasti etnici nel paese: dai problemi nel Kosovo non più autonomo, dove Milošević teneva il celebre discorso sulla possibilità che il popolo serbo prendesse le armi, alla Slovenia sempre più insofferente all’interno della federazione, fino alla Croazia dove veniva fondato l’HDZ di Tuđman. L’UJDI si trovava quindi in aperto contrasto sia con il sistema di potere sia con gran parte delle nuove tendenze, rispetto alle quali intravedeva la possibile degenerazione dei nazionalismi. “All’epoca non parlavamo di guerra, tuttavia eravamo consci della possibilità che la crisi potesse arrivare a generare violenza, per questo cercavamo di proporre soluzioni alternative di carattere democratico”, ricorda Popov.

Era l’intero panorama socio-politico ad essere considerato malsano. In questo senso si evidenziava con preoccupazione come si stessero recuperando sempre più forme di estetizzazione e personalizzazione della vita politica, oltre ad una diffusa intolleranza nei confronti della pluralità delle opinioni. In una situazione in cui molti intellettuali si schieravano a sostegno della “nazione” i membri dell’UJDI venivano spesso considerati “traditori”. Dobica Čosić accusò gli attivisti belgradesi di sostenere la politica antiserba di Zagabria mentre quelli croati, dopo le elezioni del ’90, dovettero fronteggiare l’ostilità del nuovo sistema di potere di Tuđman.

Rispetto questa situazione Popov spiega: “Inizialmente vi furono tentativi di collaborazione con i partiti che si opponevano al monopolio del potere della Lega dei Comunisti. Tuttavia essi avevano impostazioni e obiettivi opposti ai nostri, spesso non vi era da parte loro un reale interesse allo sviluppo democratico, puntavano soprattutto alla presa del potere. Nel 1990 trovammo una convergenza di intenti solo con il Savez reformskih snaga di Ante Marković, dopodiché in Serbia chi raccolse l’eredità dell’UJDI, come il Građanski savez, continuò ad avere difficoltà nell’intesa con gli altri partiti di opposizione a Milošević per via del loro approccio nazionalista”.

Anche la battaglia per il pluralismo dell'informazione venne combattuta su due fronti: al monopolio della Lega dei Comunisti, infatti, succedette quello dei gruppi di potere nazionalisti. La rivista Republika rimaneva naturalmente il mezzo principale per partecipare al dibattito pubblico, tuttavia la sua distribuzione fu sempre problematica per via delle difficoltà finanziarie. Solamente nell’autunno del 1990 un nuovo appoggio venne dalla pubblicazione del settimanale Vreme, fondato da Srđa Popović, anch’egli membro dell’UJDI.

In quei mesi, soprattutto a Zagabria e a Belgrado, l’associazione organizzava inoltre seminari, dibattiti e tavole rotonde. Erano occasioni di riflessione che potevano vedere la partecipazione di 200-300 persone e nelle quali venivano spesso coinvolte anche altre associazioni ed espressioni della società civile. I temi affrontati erano i più attuali, dai dibattiti sulla riforma costituzionale - si invocava una nuova assemblea costituente eletta democraticamente – alla riflessione per le leggi sul pluralismo politico.

Particolari sforzi vennero fatti per organizzare tavoli di confronto e di dialogo tra serbi ed albanesi sulla questione del Kosovo, i cui problemi venivano visti come paradigma di quelli dell’intera Federazione. Vi furono sedute a Mostar e poi a Pristina, ma Popov ricorda come “il problema nella storia del Kosovo era che vi è sempre stata una politica di dominazione di una parte sull’altra, credevamo nel dialogo democratico ma fin dal principio fu molto complesso avviare una discussione tra serbi e albanesi”.

Non mancavano tuttavia momenti di discussione più generali, su questioni legate ai diritti umani, al ruolo dei giovani e degli intellettuali, ai problemi sociali e perfino ambientali. Si intendeva in questo modo lavorare alla costruzione di una cultura politica del dialogo ed alla ristrutturazione in senso partecipativo della società.

Le capacità dell’UJDI di promuovere il proprio punto di vista e le proprie proposte nel dibattito pubblico furono in realtà limitate. Alla fine del 1989 l’associazione risultava presente in tredici città, contava all’incirca un migliaio di membri e diversi simpatizzanti. L’impostazione e i temi trattati avevano tuttavia una presa relativa sui cittadini, l’associazione si caratterizzava soprattutto come fenomeno urbano ed elitario, forse talvolta autoreferenziale. Il contesto era comunque, secondo Popov, particolarmente difficile: “All’epoca in Jugoslavia il grado di sviluppo della società civile era limitato, spesso la cultura politica era insufficiente per comprendere i discorsi che cercavamo di portare avanti. Inoltre in quella situazione di profonda crisi, anche economica, e di crescente contrapposizione nazionale la paura spinse molti ad optare per le soluzioni più semplici”.

Dopo le elezioni multipartitiche in Slovenia e Croazia, nella primavera del 1990, si continuarono a invocare votazioni a livello federale ma le diverse sezioni iniziarono a concentrarsi sempre più sulle proprie realtà repubblicane. L’associazione si sciolse quando nel ‘91 scoppiò il conflitto e la violenza chiuse ogni spazio per ogni tipo di discorso di carattere jugoslavo. Terminata quell’esperienza molti dei membri si diedero quindi all’attivismo nei rispettivi nuovi stati, in gruppi per diritti umani e civili, circoli femministi, media indipendenti e partiti.

L’UJDI fu il primo gruppo alternativo realmente impegnato nell’affrontare il monopolio del regime ed a invocare la democratizzazione del paese. In quel 1989 ciò sembrava una possibilità reale, si credeva che la Jugoslavia potesse intraprendere un percorso simile a quello degli altri paesi dell’Est, seguito da una rapida integrazione europea. Si trattava forse dell’ultima espressione storica dello jugoslavismo, ormai sempre più sbiadito, ma con la peculiarità di considerare lo sviluppo democratico come strumento per reintegrare la Federazione, in contrasto con chi osservava come la complessità jugoslava fosse sempre stata governata solo attraverso regimi autoritari. Si trattò in ogni caso di un’esperienza significativa, che cercò di porre l’accento sulle libertà ed i diritti individuali piuttosto che su quelli collettivi, spesso facilmente estremizzabili. Quel 1989, in questo senso, rappresentò inoltre un momento di coinvolgimento attivo per numerosi intellettuali, giovani e meno giovani, che in seguito continuarono a portare avanti il proprio impegno in altre sedi e realtà.

Popov sottolinea: “Esistono delle rivoluzioni a carattere circolare, che non portano direttamente al risultato, in questo caso ad un vero sistema costituzionale democratico. Nel 2000 in Serbia ci siamo nuovamente impegnati per la carta costituzionale del dopo-Milošević che veniva promessa dalle forze di opposizione, ma non si arrivò a nulla. Quando si iniziò a lavorare alla nuova Costituzione del 2006 vedemmo una speranza di chiudere con il passato, ma anche in questo caso il cambiamento è stato insufficiente. In realtà quel testo non si basa sul reale processo di partecipazione democratica, nonostante il referendum confermativo, e soprattutto mantiene ancora il Kosovo come valore centrale assoluto”.
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