Gli interventi della seconda giornata del convegno “Il lungo ‘89”, organizzata da Osservatorio e dal Tavolo Trentino con il Kossovo. La costruzione dell’Europa nelle pratiche di relazione tra territori, i risultati di una ricerca sui dieci anni di cooperazione a Peja-Peć
La seconda giornata del convegno “Il lungo ´89” aveva per titolo “Prove di cittadinanza: relazioni di comunità con i Balcani”. Rappresentanti diversi della società civile e istituzionale – dalle associazioni alle ong, dai movimenti ecclesiali alle istituzioni internazionali – si sono confrontati su quando, e soprattutto come, le attività di cooperazione internazionale riescano a trasformarsi in relazioni paritarie e durature. E quindi se e quanto possano essere un contributo alla costruzione dal basso dell’integrazione europea.
Ad aprire i lavori i saluti di Marco Depaoli, presidente del Consiglio Regionale del Trentino Alto Adige che ha ospitato l’evento, e del dirigente della Provincia Autonoma di Trento Marco Viola, in rappresentanza dell’assessore competente Lia Beltrami Giovanazzi. Saluti non formali e che hanno posto già alcuni spunti per la discussione, grazie al fatto che queste istituzioni locali sono coinvolte da tempo in percorsi di cooperazione decentrata e di comunità.
Dal Tavolo Trentino con il Kossovo, co-organizzatore della giornata, è venuto il primo spunto di riflessione grazie al documentario “Trecento milioni di secondi” del regista belgradese Darko Soković. Non una autocelebrazione, è stato detto nell'introduzione, ma l’occasione per un bilancio di dieci anni di intervento a Peja-Peć tramite le parole dei kosovari che lo hanno vissuto. Un video artistico ma anche politico, verrebbe da dire, con la sua doppia funzione di raccontare agli italiani un’esperienza diversa e tutto sommato positiva di cooperazione. E ai cittadini del Kosovo di ascoltare voci albanesi e serbe assieme che parlano della propria memoria. “Il passato è un grande tabù in Kosovo”, ha aggiunto Soković nel dibattito, “e per questo è importante un video così. È ora che la cooperazione internazionale smetta di aiutare, e si impegni nella trasformazione sociale e culturale facilitando il dibattito sui temi difficili”.
E' necessario “riflettere sul senso di identità delle comunità qui e lì”, ha sostenuto in apertura del primo panel Renato Libanora, dell’Università di Firenze, “senso che si costruisce nella relazione tra realtà diverse”. “Ma ad oggi”, ha continuato, “mancano strumenti normativi adeguati. La legge di riforma della cooperazione allo sviluppo non so se mai si farà, speriamo piuttosto nelle istituzioni locali e nella loro capacità di innovare”.
Di seguito la prima relatrice Silvia Nejrotti ha presentato la ricerca sui dieci anni di cooperazione a Peja-Peć, condotta con cinquanta interviste a persone coinvolte a vario titolo nel programma del Tavolo. È emerso un quadro articolato: il riconoscimento della prossimità vissuta, la fiducia maturata col tempo, la difficoltà degli attori locali a percepirsi partner e non meri beneficiari, l’asimmetria che resta nello scambio materiale di risorse e competenze. E il bisogno dunque di continuare nella relazione.
Lo stesso intendimento di continuità lo hanno le sette ong italiane coinvolte nel progetto “In Partnership Italia/Kosovo”, rappresentate da Stefano Bravin. Il loro progetto di ricerca è servito a scambiare informazioni ed esperienze tra soggetti che a volte faticano nel collaborare. In questo caso invece hanno prodotto indicazioni operative per i governi e la cooperazione in generale, nei sette campi di rispettiva competenza tematica.
Un quadro forse troppo roseo quello emerso dal panel, hanno notato alcuni degli interventi dal pubblico. Specie se applicato alla realtà del Kosovo, che ancora vede una netta divisione tra le comunità ed un gran numero di rifugiati serbi non rientrati nelle proprie case. Ed è vero, è stata la risposta comune, che i cambiamenti su scala locale non portano da soli ad una soluzione. Ma nemmeno quelli istituzionali dall’alto potranno mai avverarsi senza un lavoro diffuso nei territori.
Questo anche il messaggio di Giulio Marcon, primo relatore del secondo panel. Partendo dall’esperienza dei movimenti pacifisti e antinucleari negli anni `80 del secolo scorso, ha tracciato la storia delle reti civiche in Europa dell’est e dell’ovest e del loro sguardo critico sul percorso di costruzione europea. “Critiche non per cercare un match tra istituzioni e società civile, ma perché le prime da sole non riusciranno mai nel loro intento: la nuova identità europea va costruita con le relazioni e la partecipazione dei cittadini. Attenzione però”, ha aggiunto, “a non accentuare eccessivamente le identità uniche, trasformandole in appartenenze escludenti”.
Le aspettative di allora, le delusioni, ma anche vent'anni di cambiamenti.
Vai al dossier Il lungo 89
|
Dubbio che in controluce è emerso anche dalla riflessione, ironica e sincera, di Fabio Molon. Partendo dalla sua esperienza personale presso la Caritas di Bolzano, Molon ha analizzato la particolarità e la sfida della cooperazione con organismi ecclesiali nell’area dei Balcani. Con il rischio, per l’eredità combinata di comunismo e guerre, di percepirsi luogo in cui “ritrovare certezze e, soprattutto, mezzi per riaffermare (rafforzandolo se possibile) un ruolo e per dimostrare forza, prestigio e capacità alle ‘loro’ e alle ‘altre’ comunità”.
Dall’eredità del comunismo è partito pure Giorgio Andrian, dell’Unesco, ultimo relatore della giornata. E in particolare da un lascito inaspettato portato dalla caduta dell’allora cortina di ferro. Ossia quello di una lunga striscia di aree naturali incontaminate che dalla Scandinavia scende fino al Mar Nero, preservate dall’intervento dell’uomo perché costituivano la fascia di separazione fisica lungo il confine tra i due blocchi. Oggi questa cintura verde sta divenendo presidio di grande biodiversità, grazie all’impegno di ambientalisti di tutta Europa. E insieme occasione per riavvicinare politicamente Paesi un tempo nemici. Mobilitare i cittadini e interloquire con le istituzioni, una pratica anche delle Agenzie della Democrazia Locale e della loro Associazione, la cui direttrice Antonella Valmorbida ha aperto e moderato il panel.
A conclusione della mattinata difficile trarre una sintesi. Sicuramente si è avvertita una continuità di fondo con il primo giorno di convegno, pur nella diversità dei temi affrontati. Identità e relazione, gli interrogativi che avvolgono il percorso di integrazione europea, sono emersi come cruciali anche per una cooperazione che non si accontenti di essere mera solidarietà, ma voglia farsi atto politico. Vent’anni fa è crollato il muro di Berlino, ma ancora in Europa vanno costruite piazze per ridare senso alle comunità, e ponti per farle incontrare. Il cantiere è aperto.