Una giornata di approfondimento per discutere della Bosnia di Dayton. Il delicato e complesso assetto istituzionale del Paese, il ruolo della comunità internazionale e dei politici locali, i rischi di instabilità alla luce dei recenti scontri nel Kosovo
Massimo Moratti
Massimo Moratti ha lavorato per quasi 7 anni in Bosnia Erzegovina per l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce) prima come Human Rights Officer (Prijedor), poi presso il Centro Regionale di Sarajevo come Senior Human Rights Officer e infine come Legal Advisor for Property presso la sede centrale. Ora e’ Executive Director del Comitato Internazionale per i Diritti Umani (www.ichr-law.org). Venerdì 11 Giugno, a Bologna, ha tenuto la relazione iniziale nel dibattito, aperto ai partners e ai media che collaborano con la redazione di Osservatorio sui Balcani, su: “I protettorati internazionali in Europa: la Bosnia di Dayton”. Pubblichiamo una sintesi del suo intervento
La Bosnia Erzegovina (BiH) è un protettorato? Lo è diventata? Di fatto, è difficile definire la BiH un protettorato. Ci sono state le elezioni, ci sono autorità locali elette, in carica con compiti ben precisi. Ovviamente c’è anche una presenza internazionale, alla cui guida sta l’Alto Rappresentante che detiene i cosiddetti “Bonn powers”, che possono rappresentare forse la essenza di una nozione di protettorato.
Vorrei iniziare citandovi alcuni nomi, su cui ritornerò in seguito: Momcilo Krajsnik, Sefer Halilovic, Biljana Plavsic, Radoslav Brdjanin, Jadranko Prlic e forse anche Izetbegovic.
Da Petritsch a Ashdown. Dalla Alleanza per il Cambiamento al ritorno dei partiti nazionalisti
Per gran parte del proprio mandato, Wolfgang Petritsch (terzo Alto Rappresentante, ndr) ha potuto lavorare con la Alleanza per il Cambiamento, una coalizione di partiti di ispirazione non nazionalista, promovendo il concetto di ownership, cioè di proprietà del processo di pace da parte della leadership locale, bosniaca. Per quanto concerne l’obiettivo primario del suo intervento, Petritsch si è concentrato molto sulle questioni legate all’Annesso 7: ritorno dei rifugiati e implementazione delle leggi di proprietà. In generale, possiamo dire che l’enfasi sia stata mantenuta sulle questioni del rispetto dei diritti umani ed è significativo che la parte finale del mandato di Petritsch abbia visto la famosa pronuncia della Corte Costituzionale bosniaca a proposito della cittadinanza e della equa rappresentanza di tutti e tre i popoli costituenti e degli altri all’interno degli organi di governo della Bosnia Erzegovina, che ha portato ad una maggiore rappresentanza di tutti e 3 i popoli costituenti.
Si trattava di questioni che davano risultati immediati: il ritorno è una cosa molto visibile. Ashdown (attuale e quarto Alto Rappresentante, ndr), invece, ha un programma di più lungo termine. Il suo motto è “
jobs and justice through reform”. Lo scopo è quello della creazione di una economia funzionante (jobs) e la riforma del sistema giudiziario (justice). Sotto questo profilo, i risultati di Ashdown non sono così immediati, ma si potranno valutare in un periodo più lungo. Va detto che sono state fatte riforme significative. Il processo di rinomina di tutti i giudici, la creazione del Tribunale centrale per la Bosnia Erzegovina, che peraltro avrà competenza anche per i crimini di guerra e per quelli commessi a livello statale, quindi per i crimini più seri, l’introduzione dell’IVA a livello statale e l’iniziativa nota come “Buldozer Committee”, per eliminare le barriere allo sviluppo dell’imprenditoria.
Ashdown, però, deve operare in un clima quasi ostile. E’ entrato in carica nel maggio del 2002, il 27. A ottobre dello stesso anno ci sono state le elezioni che hanno visto i partiti nazionalisti ritornare al potere. I soggetti con cui Ashdown deve negoziare sono quindi diversi da quelli di Petritsch. Ashdown ha assunto un atteggiamento pragmatico, anche se a volte abbiamo avuto la sensazione che ci fosse uno scendere a patti, una sorta di mercanteggiamento: ad esempio io non insisto troppo su questo tema, ma mi aspetto che quest’altra riforma passi.
Nel frattempo, se consideriamo come il Paese era nel 1996 e come è adesso, c’è stato un rafforzamento delle strutture centrali impensabile otto anni fa. E’ stato varato un Ministero della Difesa comune, c’è un Ministro della Giustizia e della Sicurezza a livello centrale. Le competenze del Consiglio dei Ministri sono state rafforzate, con la istituzione, tra l’altro, di un Ministro per i Diritti Umani e per i Rifugiati e molte altre competenze dal livello delle Entità sono state trasferite al livello centrale.
Da un lato dunque la comunità internazionale persegue una chiara politica di rafforzamento delle strutture centrali. Dall’altro possiamo notare un cambiamento negli orientamenti politici dei partiti bosniaci. Consideriamo ad esempio l’SDS (Partito Democratico Serbo, ndr): nel 2002 il suo candidato di punta era Mirko Sarovic, in lizza per la presidenza della BiH. Nel 1996, il candidato più importante dell’SDS era Biljana Plavsic, che il partito candidava alla presidenza della Republika Srpska. Quindi all’interno dello stesso SDS l’obiettivo è cambiato. La persona di punta viene messa alle istituzioni comuni e non alla Entità.
I “Bonn powers”
Sono stati attribuiti all’Alto Rappresentante al Peace Implementation Council di Bonn, nel dicembre 1997. Si tratta del potere di licenziare politici, regolarmente eletti, responsabili di ostruzionismo nei confronti del processo di pace, e del potere di imporre leggi e decisioni, tramite decreto, che rimangono in vigore fino a quando non sono adottate dai Parlamenti locali, direttamente applicabili. Si tratta di strumenti non democratici, data la loro sorgente (l’Alto Rappresentante non è democraticamente eletto), che vengono adottati per ripristinare una situazione di democrazia nel Paese. C’è evidentemente una contraddizione. Gandhi diceva che deve esserci coerenza tra mezzi e fini, tra le radici e l’albero. In questo caso non c’è. Peraltro, l’utilizzo di questi poteri pone alcuni problemi concreti.
Le leggi vengono redatte dalla comunità internazionale e poi imposte per decreto da parte dell’Alto Rappresentante. Questo però è un problema. La ragione per cui questi decreti vengono imposti è che per l’appunto su quelle questioni non si trova accordo all’interno del Paese. I politici locali, tuttavia, in un certo senso non ne pagano il prezzo di fronte all’elettorato, non ne sono responsabili, perché sono state approvate da altri. Inoltre, specie in questa fase, possono essere approvate leggi che non sono necessarie per il funzionamento del Paese ma rispondono ad interessi di parte della comunità internazionale, che fa una azione di “lobby” presso l’Alto Rappresentante (OHR) affinché la tale legge sia approvata o lo specifico programma della agenzia internazionale possa produrre degli effetti. Infine, le leggi imposte provengono da un sistema legale diverso, e chi le elabora spesso è estraneo all’ambiente legale bosniaco. Possono provenire, ad esempio, da sistemi di common law, con il rischio di introdurre un sistema di common law in Bosnia, estraneo alla cultura giuridica del Paese.
Altro problema che noi rilevavamo sul campo riguardava la questione della interpretazione delle leggi, che raramente l’OHR faceva. Spesso le autorità locali ci chiedevano che cosa il legislatore intendesse, e per noi era difficile rispondere in assenza di interpretazione e senza la possibilità di accedere ai lavori preparatori. Spesso, infine, i giudici ignoravano il fatto che la comunità internazionale avesse approvato una legge, e quindi non la applicavano.
Un altro aspetto dei “Bonn powers” è la rimozione dei politici e delle autorità locali responsabili di aver ostruito il processo di pace. Mancano però delle procedure standard: prima di arrivare alla rimozione dovrebbe esserci un intero procedimento, un dossier compilato sulla persona. In realtà, all’inizio non esistevano affatto procedure, se non la raccolta e compilazione di informazioni. Recentemente, l’Alto Rappresentante ha approvato una sorta di legge interna sulle procedure da seguire in caso di rimozione. La cosa più grave, tuttavia, è che mancano del tutto garanzie procedurali. L’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo non si applica nel caso di queste procedure, e il funzionario o politico rimosso non ha possibilità di venire ascoltato ne’ di ricorrere in appello (Commento: i motivi per la rimozione vengono spiegati in una lettera personale) Si tratta quindi di un procedimento condotto in violazione delle leggi sui diritti umani.
Prijedor
Peraltro, la rimozione di funzionari o politici locali può essere bene accolta dalla popolazione locale. Consideriamo il caso di Prijedor, dove ho lavorato. In questa città, le cose sono cambiate dopo l’operazione “tango”, la prima operazione condotta dalla SFOR (Stabilization Force, ndr) contro i criminali di guerra in Bosnia, nel 1997. In quella occasione è stato arrestato Milan Kovacevic, direttore dell’ospedale, ex presidente del comitato di crisi di Prijedor durante la guerra. L’ex capo della polizia, che aveva cercato di sparare alla SFOR, fu ucciso dalle truppe britanniche nel corso dell’operazione. Era responsabile della creazione dei campi di concentramento di Prijedor. Il sindaco, Milomir Stakic, due giorni dopo questo episodio è andato in vacanza, e per tre anni non si è saputo più nulla di lui fino a che, nel 2001, è stato arrestato a Belgrado, trasferito all’Aja e condannato all’ergastolo. Si è trattato quindi di una sorta di operazione di rimozione dalla municipalità, fatta dalla SFOR. La gente ha tirato un sospiro di sollievo. Il capo della polizia era soprannominato mister 10%, perché prendeva una tangente su qualsiasi operazione. Questa era la mafia. Ma c’era anche una situazione di omertà. La città ha cominciato a rivivere dopo questa operazione. La rimozione, quindi, a volte è considerata come un deus ex machina che risolve il problema che la comunità locale non può risolvere. Similari casi sono avvenuti anche di recente a Donj Vakuf, dove la popolazione si e’ rallegrata della rimozione del sindaco dell’SDA (Partito dell’Azione Democratica, ndr) Kemal Terzic. Di fatto pero’ in molti casi, le popolazioni locali ben difficilmente ammettono pubblicamente che la rimozione di politici ostruzionisti o corrotti e’ di loro gradimento.
Fino a quando?
Si stanno tuttavia sollevando voci all’interno della BiH che chiedono: fino a quando sarà possibile per la comunità internazionale utilizzare questi poteri? Srdjan Dizdarevic, nel rapporto annuale dell’Helsinki Committe della BiH, si riferisce alla pratica dell’OHR di rimuovere persone e imporre leggi, e si chiede fino a quando questo potrà continuare, ponendo la stessa questione relativamente alla SFOR.
Cominciano quindi ad emergere voci di dissenso. Allo stesso tempo l’Alto Rappresentante, dopo le critiche avanzate da ESI (European Stability Iniziative, ndr), ha cominciato a moderare l’utilizzo dei “Bonn powers” interrompendolo in alcuni settori. Purtroppo, questi settori includono ad esempio quello relativo ai ritorni, laddove non vengono più presi provvedimenti sostenendo che questa è ormai una competenza delle autorità locali. Dal nostro punto di vista, di addetti ai lavori, si tratta di una scelta un po’ prematura, nel senso che nel campo dei ritorni c’era probabilmente ancora bisogno di un intervento esterno.
E’ evidente, in ogni caso, che in alcuni campi l’Alto Rappresentante si sta ritirando. Ma perché erano stati introdotti i “Bonn powers”? Credo che l’analisi di ESI sulle ragioni alla base dei “Bonn powers” sia molto centrata: mentre all’inizio queste misure antidemocratiche servivano per ripristinare la pace e l’ordine, col passare del tempo le ragioni si sono estese alla necessità di combattere la corruzione, il crimine organizzato e in alcuni casi anche il terrorismo. Cioè le ragioni addotte per l’utilizzo di questi poteri sono cambiate e si è inoltre introdotto un cambiamento di priorità: mentre all’inizio alcune leggi (cittadinanza, passaporti e targhe comuni ad esempio) erano state essenziali per fare in modo che alcune libertà fondamentali, come quella di movimento, fossero ripristinate all’interno del Paese, col passare del tempo si tratta di leggi che non sono più così essenziali.
Burocrazia
Stiamo parlando di una burocrazia internazionale e, come diceva Weber, la burocrazia tende a riprodursi. La burocrazia internazionale, poi, non è di per sé più virtuosa di una burocrazia nazionale e, quindi, il fatto che esista questo complesso macchinario fa anche sì che esso tenda ad espandere i suoi settori di intervento in assenza di una chiara strategia di uscita.
Bisogna quindi individuare dei limiti ed è evidente che il sistema stesso non riesce a porne. In questo senso, un importante passo in avanti è tuttavia costituito dalla adozione da parte dell’OHR del Mission Implementation Plan: queste sono le cose che dovremmo fare, i settori in cui dovremmo operare, il nostro ambito di intervento.
Le elezioni del 1996
Torniamo a quei nomi cui ho fatto riferimento all’inizio: Plavsic, Krajsnik, Prlic… Tutti queste persone hanno in comune – oltre a essere stati inquisiti per crimini di guerra dal Tribunale dell’Aja – anche il fatto di essere stati eletti nel 1996, nel corso di elezioni monitorate dalla comunità internazionale e considerate “free and fair”. Si fanno le elezioni per portare la pace, e alla fine scopriamo che gli eletti sono persone indiziate per crimini di guerra. Questo è interessante se lo colleghiamo al discorso sui Bonn powers, perché esprime un approccio sbagliato da parte della comunità internazionale dall’inizio. C’è una sorta di dottrina americana relativa alla situazioni di crisi che dice: fermiamo la guerra, mandiamo le truppe, facciamo le elezioni e poi la democrazia fiorisce. Noi critichiamo questo approccio, le elezioni di queste persone hanno congelato la situazione in Bosnia. La elezione di persone con un passato legato alla guerra, al conflitto, diretta emanazione dei partiti nazionalisti, ha fatto sì che per due anni dopo la firma di Dayton non sia stato fatto nessun progresso. Adesso noi stiamo criticando i “Bonn powers”, ma per due anni dal ’96 al ’97 la comunità internazionale veniva criticata non di fare troppo, ma di fare troppo poco. Non dobbiamo guardare solo agli ultimi sei mesi ma agli ultimi otto anni per vedere come è evoluta la situazione in questo senso. Nel ’96, ad esempio, con le truppe internazionali in Bosnia, a Prijedor hanno fatto saltare in aria 100 case durante una notte, a Drvar lo stesso. Non c’era libertà di movimento, la critica in generale alla comunità internazionale era di non fare abbastanza. Questo è stato il motivo che ha portato alla introduzione dei Bonn powers, la frustrazione di fronte ad autorità locali che prendevano in giro apertamente la comunità internazionale, si sottraevano ad ogni forma di cooperazione. Ora però si sta scadendo nell’eccesso opposto, anche perché le dinamiche del Paese sono cambiate, non ci sono più i problemi di un Paese che esce dal dopoguerra diviso. I problemi che riguardano la BiH, oggi, sono più simili a quelli di un Paese in transizione, a un Paese come altri dell’est Europa, in transizione da un sistema all’altro.
Una evoluzione simile a quella che è avvenuta per l’Alto Rappresentante ha riguardato anche la SFOR. Nel 1997 ricordo che Amnesty International aveva lanciato un appello perché la SFOR catturasse Karadzic e Mladic. La loro [della SFOR, ndr] posizione ufficiale era: noi i criminali di guerra li arrestiamo solo se li incontriamo. A quel tempo avevano 60.000 soldati nel Paese. Pian piano la situazione è cambiata, e ora assistiamo ad un paradosso simile a quello descritto relativamente alle autorità civili: da un atteggiamento distaccato ad una sorta di interventismo sempre più marcato. A Pale, il primo aprile, la SFOR ha quasi ucciso il pope della cittadina e il figlio. Può una forza di peace keeping violare i diritti umani? La risposta purtroppo è sì, perché in questo caso l’uso della forza è stato manifestamente eccessivo. Scherzando la chiamiamo la “deriva irachena” della Sfor, che si sta trasformando da una forza di peace keeping in forza di occupazione con episodi preoccupanti come questo, per i quali non ci sono responsabili.
Kosovo
La domanda è: sono ancora necessari i poteri dell’Alto Rappresentante così come sono stati pensati nel ’97? Il Paese è ancora sottoposto a spinte secessioniste? Io credo che non ci siano più serie tensioni secessioniste anche perché le influenze esterne si sono ridotte. La classe politica, tuttavia, usa ancora questi argomenti perchè sa che portano voti, consenso, ed inoltre è deresponsabilizzata, sapendo che alla fine le patate bollenti le gestisce l’Alto Rappresentante.
Consideriamo ad esempio i rischi per la stabilità del Paese alla luce di quanto avvenuto recentemente in Kosovo. Io sono ottimista. Quando abbiamo visto le immagini delle moschee bruciate a Nis e a Belgrado, ci siamo chiesti: a Banja Luka cosa faranno? Tutto sommato, con il tetto di una chiesa bruciato a Bugojno e due granate contro un moschea a Gradiska, in Bosnia ce la siamo cavati molto bene. Non c’è stata violenza interetnica. La ragione principale, credo, risiede nel fatto che l’assetto finale del Kosovo non è stato ancora deciso, e questo provoca tensione. Per quanto riguarda la Bosnia, invece, la sovranità internazionale è stata già decisa, a Dayton, metterla in discussione significherebbe provocare una nuova guerra, e io non vedo questo rischio. Qui il quadro è definito, si tratta di ridefinire le competenze all’interno del Paese, non di ridefinire la sua sovranità internazionale.
E’ chiaro che permane la necessità di snellire la impalcatura di Dayton. Dayton, fermando la guerra, al tempo stesso ha fatto contenti tutti i feudatari: ad ognuno ha dato il suo cantone, la sua municipalità, la sua carica. Oggi, però, se pensiamo che un Paese di 4 milioni di abitanti ha circa 14 livelli di governo, ci rendiamo conto che è necessario snellire queste strutture, ridurre questa burocrazia che ha un costo insostenibile oltre a non essere efficace. Ma è chiaro che tali cambiamenti devono essere introdotti dalle autorità locali e non imposti dall’esterno. Ci sono state diverse reazioni alla proposta dell’European Stability Initiative (ESI) di abolire le Entità rafforzando il livello centrale di uno Stato composto da 12 cantoni (i dieci attuali più la RS e Brcko): l’HDZ (Unione Democratica Croata, ndr) ha commentato molto positivamente, la RS negativamente per il declassamento a livello di cantone. In realtà, se consideriamo i trasferimenti di competenze che già sono avvenuti, la RS ha ancora ben poco da trasferire: avendo trasferito l’educazione, la difesa, molte competenze in materia di sicurezza, resta ben poco della pretesa sovranità che la RS aveva nel 1996.
Rimane chiaro il fatto che ogni nuova architettura costituzionale deve essere frutto di un’elaborazione politica all’interno del paese e non il frutto di un’imposizione esterna da parte della comunità internazionale.