L'insostenibile leggerezza dell'odio
27.10.2008
scrive Azra Nuhefendić
Milorad Dodik
Milorad Dodik, Haris Silajdžić e il futuro della Bosnia Erzegovina. Un viaggio in due puntate attraverso le biografie dei principali protagonisti dell'ennesima crisi politica nel Paese
13 anni dopo la firma degli accordi di Dayton, la Bosnia Erzegovina (BiH) sta attraversando una nuova crisi istituzionale. Dalla Republika Srpska (RS) si sono levate nei giorni scorsi nuove minacce (poi rientrate) di secessione, mentre una parte dei politici bosniaci chiede la fine della divisione del Paese in due entità. Milorad Dodik, primo ministro della RS, e Haris Silajdžić, uno dei tre rappresentanti dell'ufficio di presidenza bosniaco, sono i due esponenti che maggiormente polarizzano il dibattito pubblico. Un profilo dei due uomini politici in una serie di due articoli
“Odio la Bosnia”, non si stanca di ripetere il premier della Republika Srspka (RS), Milorad Dodik. Assicura che “non è un patriota bosniaco”. Farebbe il tifo per la Bosnia Erzegovina (BiH) solo in una situazione estrema, come ad esempio "se capitasse di giocare contro la Turchia”.
Per farsi prendere sul serio, Dodik ha gettato a terra la bandiera bosniaca durante una visita ufficiale a Trebinje, in Erzegovina. Ha dichiarato al quotidiano di Belgrado “Vecernje Novosti” che “quando mi chiedono della Bosnia, è come se mi cavassero un dente.”
Il presidente della RS minimizza l'importanza dei personaggi storici legati alla millenaria esistenza della Bosnia. "Ma chi se ne frega di Kulin Ban” (governatore bosniaco dal 1180 al 1204). Dodik non perde l’occasione per speculare sul futuro del Paese. “La Bosnia non è una categoria durevole", afferma. Promette che tra cinque o al massimo dieci anni la RS sarà indipendente.
Il genocidio di Srebrenica? “E’ solo un genocidio locale”, ha dichiarato.
E’ coerente nel suo disprezzo. Non riconosce Sarajevo come capitale della BiH, “è semplicemente la sede delle istituzioni statali”. Si vanta di dire a suo figlio, quando torna da Sarajevo, di essere stato “a Teheran”. Dodik non ha mai messo piede nella capitale dell'Iran, ma Teheran gli sembra un giusto simbolo per esprimere l’avversione che nutre nei confronti di buona parte della popolazione bosniaca, i bosgnacchi. "Quella là [la Federazione di Bosnia Erzegovina] per me è già l'estero", sottolinea.
Neanche i croati gli stano molto a cuore. Recentemente ha scambiato parole poco diplomatiche con il presidente croato Stipe Mesić. Mesić ha invitato “l’Europa a togliere Dodik dall’ordine del giorno, perché conduce la stessa politica di Slobodan Milošević”. Mile, come gli ammiratori chiamano il presidente Dodik, ha invitato Mesić “a star zitto e a riflettere sulla pulizia etnica effettuata nei confronti dei serbi di Croazia”.
Tuttavia Dodik ha tentato di “fare team” con i croato bosniaci; sosteneva la loro domanda per costituire una terza entità, quella croata. Naturalmente l'avrebbe fatto tagliando il territorio della Federazione, cioè della parte bosniaco-croata, “non si parla di toccare la Republika Srpska”. A Dodik pareva che, con questa mossa, l’indipendenza della RS avrebbe potuto diventare più vicina.
Nella RS, Dodik è un padrone indiscusso. Controlla tutto e tutti. I giornalisti della RS, quasi tutti, stanno zitti; non alzano la voce contro di lui. Quelli che osano opporsi sono etichettati come “servi o spie dei musulmani”, o finiscono come Svetlana Cenić: prima destituita dal governo della RS, poi anche impossibilitata a lavorare come giornalista.
Dodik non è molto tenero neanche con i suoi potenziali elettori. Prima delle ultime elezioni amministrative, ha minacciato nel corso di un incontro a Kneževo (città che prima della guerra si chiamava Kulen Vakuf): ”Se non votate per mio partito, non si faranno né la strada né la fognatura… Io sarò premier almeno per altri due anni, e vi farò pagare la disobbedienza”.
"E' peggio del dittatore bielorusso Lukashenko", ha detto l’ambasciatore olandese in Bosnia ed Erzegovina Karel Foskuler. Ma Dodik non si lascia intimidire dalla comunità internazionale. E’ impaziente di vedere la fine del mandato dell'Alto Rappresentante (OHR). Non perché la situazione in Bosnia Erzegovina sia stabile, tutt’altro. Dodik spera che, in assenza di sorveglianza internazionale, sarà più facile ottenere la secessione della RS dalla BiH.
Sta lavorando sodo per smantellare tutto quello che rappresenta la Bosnia Erzegovina come Stato sovrano. Sabota e ostacola in continuazione le funzioni del governo centrale. "Dodik è riuscito a distruggere tutto il progresso fatto in Bosnia negli ultimi due anni", hanno affermato in un articolo pubblicato sul quotidiano britannico "The Guardian" l'artefice degli Accordi di Dayton, il diplomatico americano Richard Holbrooke, e l'ex Alto Rappresentante Paddy Ashdown.
Il massimo obiettivo di Dodik sarebbe quello di unire la RS alla Serbia. Per questa impresa conta molto sui russi. Per stringere i rapporti con Mosca ha venduto la raffineria di Bosanski Brod a una compagnia russa. I dettagli del contratto sono rimasti un segreto. Lo storico serbo Milorad Ekmecić l’ha assicurato che è sulla strada giusta. "A lungo termine, il destino della RS dipende dalla Russia”, ha dichiarato Ekmecić, lo stesso che all’inizio della guerra in Bosnia assicurava che “200.000 morti non sono nulla in confronto con l’importanza storica di creare la grande Serbia.”
Ogni tanto Dodik ripete le minacce di organizzare un referendum per l’indipendenza della RS. Nutre questa idea utopica tra i serbi di Bosnia. Quando, e se avverrà, l'unificazione con la Serbia, Dodik sarà pronto: a Dedinje, un quartiere elegante e costoso di Belgrado, l'anno scorso ha comperato una villa di valore stimato tra gli uno e i due milioni di euro.
L'ultima volta che Dodik ha minacciato un referendum per l'indipendenza della RS, l’Alto Rappresentante Miroslav Lajćak l'ha invitato a dimettersi perché “mente alla gente su qualcosa che non è realizzabile.” Dodik ha detto di essere pronto nel caso che qualcuno venisse a sostituirlo: "Dovrà inviare i carri armati davanti al palazzo del Governo per mandarmi via”, ha dichiarato.
Milorad Dodik è nato a Laktaši, un paesino vicino a Banja Luka, oggi la capitale della Republika Srpska. Prima della guerra era presidente della giunta comunale del paese. All’epoca la parola Bosnia non gli dava la nausea. Anzi, la Bosnia durante la guerra fu un paradiso per il suo business. Si è arricchito commerciando con vari prodotti, tra cui il gasolio e le sigarette. Da quel tempo gli è rimasto il soprannome “Mile Ronhil”, da un tipo di sigarette che trafficava. Si vantava di aver lavorato con l'infame criminale di guerra, Željko Raznatović Arkan. Era impressionato dal fatto che "bastava una stretta di mano" per finire il lavoro con Arkan. Oggi Dodik è una delle persone più ricche della Bosnia Erzegovina.
Insieme al business, costruiva la sua posizione politica. Il suo partito, l'Unione dei Socialdemocratici Indipendenti (SNSD), fu all'epoca l'unica opposizione al partito nazionalista di Radovan Karadzić. Il 27 dicembre 1997, a Bijeljina, Dodik fu eletto Primo Ministro della RS, grazie tra l'altro anche ai voti dei bosgnacchi.
Da riformista ("me lo ricordo come un uomo di sinistra", dice lo scrittore Željko Ivanković), Dodik è evoluto in un nazionalista autoritario. "Ha semplicemente adottato la politica nazionalista del partito di Karadzić", affermano Holbrooke e Ashdown.
Il suo modo assolutistico di condurre la politica, le sue dichiarazioni, il comportamento talvolta volgare, la retorica aggressiva, tutto questo crea un’immagine di finta ribellione. Agli occhi di molti serbi bosniaci è uno bravo, senza peli sulla lingua.
Tredici anni dopo gli accordi di Dayton, la Bosnia Erzegovina è sull’orlo del collasso. Riusciranno i nazionalisti di "seconda generazione" a finire il lavoro che hanno iniziato, in un bagno di sangue, personaggi accusati e condannati per crimini contro l'umanità? (1 - continua)