La lunga crisi
17.01.2008
scrive Massimo Moratti
Il gioco a somma zero tra Dodik e Silajdzic nasce nel vuoto di potere determinato dal nuovo atteggiamento della comunità internazionale. La Bosnia Erzegovina si avvia a diventare un Paese normale, ma ha bisogno di nuovi politici per uscire dalla crisi. Nostro commento
Era stata definita come la più grossa crisi in cui la Bosnia ed Erzegovina si sia trovata dalla fine di Dayton. Alla fine si è dissolta come una bolla di sapone ed i politici bosniaci si sono trovati a mettersi d’accordo su praticamente ciascun punto della controversia che per diversi mesi li aveva divisi. Ma davvero questa è stata la crisi più grossa dalla fine del conflitto? Sono valutazioni soggettive, in passato ci furono altre crisi, connotate anche da violenza o da paralisi delle istituzioni. Uno potrebbe riandare per esempio allo “scisma” della RS nel 1997, quando la Plavsic abbandonò il SDS [Partito Democratico Serbo, ndr] di Krajsnik e Karadzic: allora la tensione tra Banja Luka (pro Dodik e Plavsic) e Pale (pro Krajsnik) era altissima e fu costellata da una serie di omicidi eccellenti che al giorno d’oggi sono ancora irrisolti.
Un altro momento di tensione fu il referendum croato bosniaco del 2001, quando l’HDZ [Unione Democratica Croata, ndr] indisse il referendum e proclamò l’autogoverno dei croati nella Federazione di Bosnia ed Erzegovina, abbandonando le strutture federali per oltre 6 mesi.
La crisi attuale è stata seria, al punto da evocare le paure nella gente, ma il confronto è rimasto confinato all’arena politica: le istituzioni comuni come i tribunali, la SIPA [i servizi di sicurezza bosniaci, ndr], la camera per i crimini di guerra, la corte costituzionale, la commissione elettorale hanno continuato a funzionare nonostante i roboanti proclami che venivano dai leaders politici. Segno questo di una certa indipendenza delle istituzioni dal potere politico, che sono ora più propense a respingere direttive politiche che arrivano dai vari partiti.
Una crisi dalla lunga gestazione
Sebbene la crisi sia emersa sulle pagine dei giornali negli ultimi mesi, la sua gestazione è stata lunga, quasi due anni, e si è intrecciata con l’”exit strategy” dell’Ufficio dell’Alto Rappresentante in Bosnia. Paradossalmente, è stata originata dal tentativo di riforma costituzionale che fu lanciato dall’United States Institute for Peace (USIP) e dal Professor Hitchner nell’autunno del 2005 [vedi nostro “E' arrivato lo zio d’America”, ndr]. La Bosnia stava entrando nell’anno elettorale e i partiti politici si stavano preparando alla campagna elettorale. A quel tempo, USIP si disse convinto di riuscire a portare a termine una riforma costituzionale nel giro di quattro mesi, entro marzo 2006, in modo da poter immediatamente procedere ad eleggere le nuove cariche politiche. Assieme alla nuova costituzione, era prevista la creazione di una commissione di verità e riconciliazione che sarebbe servita a facilitare la transizione del dopoguerra bosniaco.
L’iniziativa di USIP era ingenua e azzardata e sottovalutò i rischi della campagna elettorale bosniaca quando il clima politico si surriscalda notevolmente: era impensabile che i partiti bosniaci potessero, nel mezzo dello scontro pre-elettorale, creare il clima “bipartisan” (o meglio “tripartisan”), riformare la costituzione e soprattutto far luce su quello che era accaduto nel conflitto in Bosnia. Nessuna delle iniziative andò a buon esito: la mancanza di consultazioni, il fatto che il processo fosse iniziato e diretto dall’esterno pregiudicarono le possibilità di successo. Le riforme costituzionali, che in realtà erano tutt’altro che rivoluzionarie, prevedevano, tra l’altro, semplicemente di fissare nella Costituzione quanto era avvenuto nella realtà, cioè il trasferimento di competenze dalle entità alle istituzioni centrali e di rafforzare ulteriormente il Consiglio dei Ministri. Tali riforme non ottennero la maggioranza qualificata per effetto dei voti contrari del Partito per la Bosnia ed Erzegovina di Haris Silajdzic e dal neonato HDZ 1990. In particolare Silajdzic votò contro le riforme perché mantenevano il “voto delle entità” e quindi consentivano alla Republika Srpska (RS) di mantenere il potere di veto nella procedura parlamentare. Il “voto delle entità” fu invece difeso strenuamente da Dodik che nel frattempo nella RS era divenuto primo ministro e aveva scalzato dal potere l'SDS. Era maggio 2006 e le elezioni si sarebbero tenute da lì a pochi mesi.
Riforme e secondi fini
Il dibattito costituzionale aveva aperto il vaso di Pandora e fornito a Dodik e Silajdzic argomenti e retorica per polarizzare l’elettorato rimettendo in gioco il delicato equilibrio creatosi a Dayton. La riforma costituzionale in questo caso è per Silajdzic lo strumento per ottenere in pace quello che non fu possibile ottenere durante il conflitto, cioè l’eliminazione di ogni altro centro di potere alternativo a Sarajevo e quindi della Republika Srpska. Alle iniziative di Silajdzic, la risposta di Dodik è altrettanto pragmatica: se non volete la RS in Bosnia ed Erzegovina, noi ce ne andiamo. Un altro nodo irrisolto, la riforma della polizia, si aggiunse alla questione delle riforme costituzionali, con la Republika Srpska che difendeva strenuamente le competenze della propria polizia, resistendo al tentativo di riforma come era stato voluto da Paddy Ashdown, mentre da parte della Federazione, soprattutto per voce di Silajdzic, rimuovere la polizia della Republika Srpska è un altro passo in avanti verso la centralizzazione della Bosnia e l’eliminazione della Republika Srpska. Le riforme da questo punto di vista non servono lo scopo di fornire dei servizi migliori ai cittadini della Bosnia, ma sono solamente uno strumento con cui si cerca di modificare l’equilibrio di potere a proprio favore, Silajdzic vuole la centralizzazione della Bosnia Erzegovina, Dodik vuole maggiore autonomia per la RS, e forse (ma bisogna capire quanto di vero ci sia dietro a questo), l’indipendenza.
Gli obiettivi dei due si escludono a vicenda, è un gioco a somma zero. La competizione tra i due è soltanto apparente e ciò emerge chiaramente nelle elezioni del 2006. Dodik e Silajdzic hanno bisogno l’uno dell’altro per affermarsi all’interno delle loro entità. Dodik stravince in Republika Srpska, annichilendo l'SDS e estendendo il dominio del proprio partito, SNSD, alla Republika Srpska dell’Est. Fino al 2006, infatti, a sud di Bijeljina solo Rudo, Foca e Trebinje non erano dominate dal SDS: dopo il 2006, praticamente l'SDS scompare e Dodik riporta vittorie storiche nella RS orientale, al punto da chiedersi se adesso in RS non si sia instaurato una sorta di regime monopartitico. Nella Federazione, la vittoria di Silajdzic è più sfumata, ma diviene lui l’uomo carismatico dei bosgnacchi, spiazzando l'SDA [Partito di Azione Democratica, ndr] che soffre della mancanza di un leader vero e proprio, mentre l'HDZ soffre le divisioni in due tronconi e pertanto non ha grosso potere negoziale.
La debolezza dei moderati e la debolezza della comunità internazionale
In questo contesto, la moderazione politica non paga. Gli elettori, o almeno quelli che ancora vanno a votare in BIH, premiamo l’intransigenza, gli uomini forti e coloro che si fanno difensori del proprio popolo contro il nemico. E’ stato il destino di tutti i partiti di ispirazione socialdemocratica, o moderata, che sono andati al potere in Serbia, Croazia e BIH dalla fine del conflitto: regolarmente hanno perso le elezioni perché accusati di essere troppo morbidi. Dodik, che nel 1998 era criticato dai nazionalisti serbi per essere troppo vicino alle posizioni della comunità internazionale, ha capito benissimo questo fenomeno al punto da spostare completamente a destra il baricentro del suo partito, che originariamente era d’ispirazione socialdemocratica, e l'SDS è stato la prima vittima di Dodik.
Silajdzic e Dodik quindi hanno intavolato un gioco al rialzo nei mesi cruciali della crisi che ha fatto temere i cittadini della Bosnia ed Erzegovina una possibile ripresa del conflitto. I partiti croati e in particolare l'HDZ però non hanno raccolto la sfida, rifiutando gli abboccamenti di Dodik e hanno esercitato una certa moderazione in vista di una soluzione della crisi. Dodik e Silajdzic hanno approfittato anche del mutato approccio della comunità internazionale e dell'OHR [Ufficio dell'Alto Rappresentante, ndr] in particolare. La comunità internazionale si è in gran parte resa conto che i poteri eccezionali dell’OHR non solo contraddicono i principi democratici ma sono anche un impedimento allo sviluppo di una classe politica moderna in Bosnia ed Erzegovina. Perciò OHR ha progressivamente mutato il suo ruolo e la stessa organizzazione è estremamente cambiata dai modi “coloniali” che erano stati rimproverati ad Ashdown. Questo cambio di atteggiamento è stato evidenziato soprattutto da Schwartz-Schilling, il successore di Ashdown, che ha di fatto rinunciato ad esercitare i poteri di Bonn. I politici bosniaci sono stati i primi ad accorgersi che la situazione era mutata e OHR non era più propenso ad esercitare i poteri di Bonn. Dodik e Silajdzic lo hanno capito benissimo e hanno approfittato del vuoto di potere creatosi. Si sono resi conto che il potere era nelle loro mani e OHR non sarebbe più intervenuto con i poteri di Bonn per risolvere la crisi, né per rimuovere i responsabili come era accaduto in passato con il membro croato della presidenza Jelacic, per esempio, che fu rimosso per aver indetto il referendum. Oltre alla debolezza di OHR, bisogna anche sottolineare che EUFOR adesso non conta più di 2.500 soldati in tutto il paese, contro i 60,000 del 1996: anche dal punto numerico la presenza internazionale è ora mutata.
A marcia indietro…
Il gioco al rialzo di Silajdzic e Dodik è stato permesso da questa situazione di transizione della comunità internazionale, che né può, né vuole (anche se questa volontà non è univoca) essere coinvolta come prima nelle discussioni politiche bosniache, che devono trovare una soluzione interna. Il ruolo di OHR, e in questo caso di Lajcak, è quindi quello di facilitare un processo di negoziazione interna, non più di imporlo. La crisi bosniaca va quindi vista come una conseguenza del vuoto di potere creatosi per il fatto che il regime di protettorato internazionale sulla Bosnia ed Erzegovina sta per concludersi. Dodik e Silajdzic hanno approfittato di questo vuoto di potere per aumentare il proprio prestigio e influenza personale, ma ad un certo punto loro stessi si sono fermati e hanno contribuito a far raffreddare la crisi. Pochi infatti hanno notato che i due, ad inizio ottobre, hanno firmato un accordo di principio sulla riforma della polizia, che ha rappresentato un importantissimo punto di partenza per la soluzione della crisi: da quell’accordo è nata la dichiarazione di Mostar sulla riforma della polizia e si è permessa più facilmente l’instaurazione di un clima che ha consentito la risoluzione delle dispute in corso e alla fine la parafatura dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione con la UE e la ripresa del dibattito sulla riforma costituzionale (questa volta senza sponsor esterni).
Dodik e Silajdzic hanno fatto marcia indietro, rendendosi conto che la via che avevano imboccato era senza uscita: con mezzi democratici nessuno di loro due avrebbe potuto prevalere, ma nessuno dei due aveva né i mezzi né la volontà per perseguire i propri fini tramite le armi. E a quel punto, viste le reazioni dei cittadini bosniaci, bisogna vedere fino a che punto la gente normale avrebbe seguito i politici. C’è bisogno di una nuova classe politica in Bosnia ed Erzegovina che porti avanti idee nuove e programmi che non si escludano a vicenda come quelli presentati da Dodik e Silajdzic in questi ultimi mesi. La loro marcia indietro e la risoluzione della crisi hanno dimostrato che le dichiarazioni bellicose servono a vincere voti, ma questo modello di politica non conduce da nessuna parte, a meno che non si sia pronti ad andare fino in fondo.
Allo stesso tempo, la comunità internazionale non interviene più per risolvere la crisi se questa rimane solamente politica. In questo modo la comunità internazionale non intende assumersi le responsabilità politiche: e allora? Allora, la responsabilità di trovare un accordo e fare un compromesso ricade sulle spalle dei politici bosniaci, come in ogni paese normale: ma dopo quindici anni dall’inizio del conflitto è davvero auspicabile che comincino a circolare idee e personaggi nuovi, che prendano atto della situazione del paese così com’è, comprendendo le sue complessità e diversità, e non cerchino di usare il potere a loro disposizione per sottomettere l’uno o l’altro popolo.