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Albania, fuga di cervelli

04.10.2006   

Attratti da migliori condizioni di vita e di impiego, molti universitari albanesi che studiano all’estero decidono di non ritornare in patria. Un fenomeno particolarmente diffuso soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Che fare?
Di Viola Trebicka, Gazeta shqip, 5 settembre 2006 (tit. orig. Derdhja e trurit shqiptar neper bote)

Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Marjola Rukaj


Si ritiene che vi siano circa 25.000 studenti albanesi iscritti presso le università straniere, principalmente in Europa e negli USA. Non si conoscono le cifre esatte. Molti di loro, attratti da migliori opportunità finanziarie e un superiore standard di vita hanno deciso di non ritornare più in Albania. Basta ricordare un articolo pubblicato sul settimanale “Klan” qualche mese fa che riportava un’inchiesta sugli studenti albanesi a Harvard, la maggior parte dei quali non aveva intenzione di ritornare in patria, almeno non nell’immediato futuro. Nonostante non si abbiano dei dati precisi, è evidente che si tratta di una situazione che dovrebbe preoccupare.

Proprio la mancanza di dati completi sugli studenti albanesi all’estero e la mancanza di una politica efficace a livello nazionale che miri al rientro di questo contingente, costituisce un aspetto cruciale nell’affrontare il fenomeno del Brain Drain, la fuga dei cervelli. L’Albania dovrebbe mostrare una particolare attenzione nei confronti dei suoi studenti all’estero non necessariamente per la loro superiorità intellettuale rispetto ai colleghi rimasti in patria, ma semplicemente poiché trattandosi di un contingente di persone istruite si presume che il loro contributo sia prezioso per il progresso della società albanese aggiungendosi a quello di chi non si è spostato. Si tratta anche di un apporto dall’estero di informazioni, contenuti scientifici e tecnologici da paesi più sviluppati che possono far accelerare i ritmi di sviluppo economico e politico del paese. La firma del SAA (Accordo di associazione e stabilizzazione, ndc.) da parte dell’Albania ha costituito solo il primo passo verso l’integrazione nell’UE, il rientro di migliaia di studenti laureati nelle università europee sarebbe un’ulteriore passo di rafforzamento dell’integrazione appena iniziata.

Riferendosi all’importanza che ha per la società albanese il rientro di massa degli studenti albanesi, l’Albstudent, una rete delle associazioni studentesche albanesi in tutto il mondo, ha organizzato a fine agosto un workshop finanziato nell’ambito del Patto di Stabilità, sul tema: “Opportunità d’assunzione e carriera in Albania”. Quello che si evinceva chiaramente dagli interventi di vari rappresentanti dell’amministrazione, del settore privato e del settore no profit, è la totale mancanza di una politica a livello nazionale che miri a frenare la fuga dei cervelli. Vi sono delle dichiarazioni e qualche strategia isolata, poco coordinate che mirano a dare priorità all’assunzione presso varie amministrazioni agli studenti provenienti dall’estero. Tralasciando il fatto che trattandosi comunque di mere politiche di discriminazione positiva si rischia di essere ingiusti nei confronti di coloro che non hanno conseguito una laurea all’estero, non sembra che queste politiche vengano del tutto applicate. Il problema più preoccupante è che tali politiche non sono né sistematiche né coordinate tra di loro, non costituiscono alcun sistema a livello nazionale, tale da poter essere tradotto in un segnale significativamente promettente per gli studenti sfiorati dall’idea del ritorno.

Per rendere più comprensibile il fenomeno preoccupante della mancanza di politiche per il ritorno in patria dei laureati all’estero, basterebbe elencare alcuni paesi che hanno riscosso un gran successo tramite politiche di questo genere, riuscendo a porre in essere il rientro e soprattutto ottenendo dei profitti immani da esso. La fuga dei cervelli è stato un fenomeno antico e permanente in paesi come la Nuova Zelanda, Taiwan, la Corea del Sud, la Cina ecc, che però hanno attuato delle politiche attive ed efficaci per prevenire questo fenomeno. La Corea del Sud e Taiwan sono stati dei pionieri in programmi di ritorno iniziati, dalla prima, negli anni ’60 e da Taiwan nei primi anni ’70. Entrambi questi stati continuano il supporto di questi programmi tramite la finanziaria e disposizioni amministrative ed entrambi hanno provveduto nel porre in essere dei veri e propri enti a livello ministeriale per meglio attuare tali politiche. Si tratta principalmente di tre strategie contro la fuga dei cervelli: politiche di controllo, politiche di stimolo e politiche nei confronti della diaspora.

Le politiche di controllo riguardano individui laureati all’estero e non, che però sono stati sostenuti da fondi dello stato o da fondi considerati come supporti destinati allo stato. Un esempio tipico sarebbe la borsa Fullbright. Nel caso dell’Albania verrebbe chiesto ai candidati di garantire di voler essere assunti in Albania per almeno 2 anni dopo il conseguimento della laurea. Nell’ultimo workshop dell’Albstudent è stato dimostrato che tale criterio è risultato poco applicabile a causa di una scarsa coordinazione con le opportunità reali di assunzione che fa sì che spesso non si trovino sbocchi nel rispettivo ambito.

Nella seconda tipologia delle politiche, quelle di stimolo, gli stati cercano di creare opportunità di ricerca, di novità e imprese sul posto per stimolare un’ondata di ritorno del capitale umano e finanziario. In Nuova Zelanda, ad esempio, furono creati degli istituti di ricerca finanziati da fondi dello Stato per poter attirare il contingente scientifico formatosi all’estero. Un’altra politica stimolante che ha avuto luogo a Taiwan e nella Corea del Sud è l’organizzazione di conferenze annuali sullo sviluppo nazionale, incorporando temi diversi (industria, agricoltura, commercio ecc) per avvicinare i connazionali residenti all’estero attraverso delle opportunità di lavoro nel proprio paese o semplicemente tramite opportunità di collaborazione.

Le politiche sulla diaspora mirano a instaurare il legame tra il capitale umano in scienza e tecnologia che lavora all’estero, con le rispettive comunità nel proprio paese di provenienza. Molte di queste politiche si basano sul presupposto che molti emigrati non abbiano voglia di rientrare, almeno non nell’immediato, però possono essere trasformate in risorse importanti sia in quanto individui sia come reti socio-professionali. Le politiche sistematiche e continue per la costruzione di un sistema internazionale di capitale umano aventi affinità nazionali, linguistiche e culturali hanno costituito un elemento importante per lo sviluppo della scienza e della tecnologia in paesi come la Corea del Sud e Taiwan. Questa politica rivolta alla diaspora è al suo principio anche in Albania grazie al programma “Brain Gain”, finanziato dall’UNDP.

Il fatto che l’amministrazione e il settore privato partecipino sistematicamente ai workshop organizzati dall’Albstudent dimostra che in qualche modo la società albanese è consapevole che il fenomeno della fuga dei cervelli debba essere preso sul serio. Il fenomeno è stato accolto nella sua importanza anche dal presidente della repubblica che ha organizzato incontri con rappresentanti dell’Albstudent dove a più riprese è stato ribadita la necessità del rientro in patria dei laureati all’estero.

Però per rendere possibile il tanto discusso rientro si necessita di un sistema coerente, e applicato a livello nazionale, che riesca a coordinare politiche di controllo, di stimolo e sulla diaspora. Ci si potrebbe ispirare agli esempi summenzionati per poi adattarsi alla specificità albanese. Si necessita di una strategia che miri al rientro degli studenti essendo questo lo scopo finale, ma che venga avviata prima che gli studenti lascino l’Albania, compilando delle statistiche dettagliate sui loro dati. Le ambasciate albanesi dovrebbero diventare dei punti di riferimento per gli studenti albanesi all’estero – un suggerimento dell’Albstudent già rivolto al presidente Moisiu – facendo sì che si mantengano dei forti legami con la realtà in Albania. I rapporti con i centri di ricerca in Albania e le collaborazioni con esse da parte degli studenti dall’estero, stimolerebbero non solo attività produttive, ma anche il proseguimento di questi rapporti per fare in modo che poi il rientro non venga considerato come un sacrifico ma come un passo logico da compiere nel proprio percorso. Per tutte queste politiche si avrebbe bisogno di un insieme di enti aventi delle possibilità concrete amministrative e finanziarie per porle in essere. Forse è proprio giunto il momento che in Albania si avvii un dibattito sui passi da intraprendere nella concezione di politiche volte a frenare la fuga dei cervelli.

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