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Osservatorio Balcani Racconti, diari di viaggio
 

Vicino alla Bosnia

04.04.2007   

Donne di Srebrenica a Tuzla (foto Gughi Fassino)
Trieste è vicina alla Bosnia. Un appello delle donne di Srebrenica provoca una immediata reazione di solidarietà. Diario di un viaggio attraverso i confini, fino alle profughe di Lukavica, Gracanica. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Azra Nuhefendic

Incuriosito, dalle nostre due macchine piene zeppe di roba, l'unico passante la mattina presto ci chiede: “In partenza per un bel viaggio?”

“Sì, si va in Bosnia!”

Confuso dalla risposta ci augura “buona fortuna”, invece di “buon viaggio”, e sparisce. Ci fa ridere la sua paura della Bosnia. Là non c'è più la guerra. I problemi sì, ci sono, ma non si muore più per le pallottole.

Cerchiamo di caricare ancora qualcosa nelle macchine. Inutile, non ci sta più neanche un ago. Si parte. Missione Bosnia, le vedove di Srebrenica.

Due righe, un appello di aiuto, sono girate per Trieste. Il risultato, in meno di dieci giorni, è quasi due mila euro raccolti e tanta roba. Ne basta per altre due-tre macchine.

Probabilmente fu uguale, penso, quando 15 anni prima, la città si mobilitò per aiutare i profughi dalla Bosnia, me compresa. Mi ricordo bene, la gente aiutava e basta. Non ci chiedevano niente in cambio.

La Slovenia e la Croazia si percorrono presto. Le autostrade sono moderne, i confini si valicano senza problemi.

E' comodo viaggiare con gli italiani. Sono benvenuti dappertutto. Un doganiere, croato, legge sul passaporto che Maurizio fa il biologo, tira fuori tutto quello che gli è rimasto dalla scuola: “Ah, fai il biologo, flora e fauna!”, dice sorridendo e ci restituisce il passaporto.

Anche il confine con la Bosnia non è “pesante” come un volta. Il doganiere, serbo bosniaco, prende il passaporto di Sabina, guarda la foto e dichiara senza premesse: ”Vado pazzo per gli occhi azzurri”, e ci lascia passare.

Entrati in Bosnia, si fa una breve sosta per fare benzina e comperare i giornali locali. Ma nella Republika Srpska non vendono i giornali di Sarajevo. Quelli di Belgrado, sì. Leggo, sulle pagine di un quotidiano di Belgrado, un analista, ovviamente rilassato dopo la sentenza della Corte Internazionale d'Aia (che ha assolto la Serbia dalla colpa per il genocidio in Srebrenica) che parla della Republika Srpska come di "un bottino di guerra".

Dopo cinque ore di viaggio liscio, siamo a Lukavica, piccolo villaggio della Bosnia settentrionale, dalle vedove di Srebrenica. Prima di aver parcheggiato, sono già tutti fuori, per salutarci. La piccola Neira, sorride mentre ci si avvicina.

C'è anche un marito, unico sopravvissuto, perché lavorava in Germania. Ci guarda e saluta da una certa distanza.

Per ultime arrivano le nonne, camminano piano e con cautela. Ce ne sono due in questo gruppo di madri singole con tre-quattro figli a carico. La prima volta quando le vidi mi sembravano tutte vecchie, proprio nonne, ma quando chiedo loro l'età scopro che sono più o meno cinquantenni!

Bel tempo, fa caldo e siamo fuori intorno ad un tavolo fatto con legna grezza. Si beve l'immancabile caffè turco. Lo versano da un pentolone di almeno un litro nelle tazze piccole, senza il manico. Si chiacchiera con la leggerezza. Ormai siamo amici.

“Novità?” - chiedo.

Sì, i due ragazzi di 24 e 25 anni si sono sposati. Semplicemente hanno portato le ragazze dal disco club, a casa. Le madri sono contente: "Era ora, altrimenti si impazzisce", dicono.

“Vuol dire, niente sesso prima del matrimonio”, commento.

Ridono al mio appunto, senza una conferma esplicita; le nuore imbarazzate spariscono nelle case.

Tutti sono senza lavoro, comprese le nuore giovani. Uno dei ragazzi mi si avvicina e chiede se c'è la possibilità di lavorare in Italia. I suoi occhi sono pieni di speranza. L'Italia, per loro, è come 50 anni fa l'America per noi europei, significa sicurezza, lavoro, casa. Tutto! Mi fa tanta tristezza. A qualcuno, la mia posizione in Italia, nonostante dopo 10 anni di soggiorno sia ancora precaria e insicura, sembra il massimo!

Nel tardo pomeriggio i tre ragazzi, silenziosi e seri, si mettono a preparare piccoli zaini, seguiti dagli sguardi preoccupati delle madri. Partono la stessa notte. Tenteranno di entrare in Croazia e Slovenia clandestinamente. Se va bene resteranno li, per lavorare un paio di mesi, "in nero" come manovali stagionali. Se li beccano li rimandano indietro con il divieto di oltrepassare il confine per alcuni mesi. Ma si riprova, lo stesso. In Bosnia lavoro non c'è, e non si può aspettare che qualcuno ti porti aiuti.

La roba che abbiamo portato la tirano fuori dalle macchine. C'è la dignità nel loro modo di ricevere. Appoggiano tutto in parte e poi dividono da soli, quando noi andiamo a far un giro per la vicina città di Gracanica.

Verso Gracanica, a metà strada, una delle due macchine si ferma. Cerchiamo di capire qual è il problema. Ci si avvicinano dei ragazzi seduti al bar. Senza neanche chiedere si mettono ad aiutarci. Smontano una porta, un meccanismo è rotto, ma non si trovano i pezzi di ricambio. Inventano là, sui due piedi, una soluzione primitiva ma che funziona tuttora. In due, lavorano più di un'ora. Il caffè che stavano per bere era già freddo. Infine, accettano 10 euro "se non ci sembra troppo".

Non si può essere in Bosnia senza assaggiare i cevapcici. Maurizio, vegetariano, preferisce una pizza, io le mele locali.

Alle otto di sera il fruttivendolo è ancora aperto. Compro le mele buone, succose e con un odore vero. Resistono, ancora, le mele bosniache, al mercato globale, che in posti come la Bosnia vuol dire sparizione della frutta e verdura locale.

Accanto a me il proprietario del ristorante compra una melanzana, due pomodori, due peperoni. Un attimo dopo tutta quella roba che ha comperato la vedo nel mezzo di una massa gelatinosa: la pizza bosniaca!

Le vedove hanno deciso che si fa una serata a casa di Hadzira, una che vive da sola. Piccola cucina, due-tre mobili ed è già piena. Sopra la credenza centrini e le scatole vuote di Illy caffè come decorazione.

Ci mostra orgogliosa la stufa a legna, nuova. L'anno scorso hanno trovato i resti del marito. Per la sepoltura, i soldi glieli ha mandati la figlia dall'America. Con quello che è rimasto ha comperato la stufa. Il suo unico figlio "non è uscito".

Quando parlano di maschi uccisi dai serbi, dodici anni fa a Srebrenica, le donne non usano mai la parola "morte" ma l'eufemismo "non è uscito". Si capisce, dal bosco. All'epoca del genocidio i maschi di Srebrenica cercavano di salvarsi scappando per i boschi. Ma in più di 8 mila non ci sono riusciti.

"Cosa pensate della sentenza dell'Aia?", chiedo. A questa domanda segue un silenzio pesante. Tutte guardano dall'altra parte. Poi parlano piano, senza la rabbia con la voce spenta.

"E' come ucciderci per la seconda volta. Il giorno dopo la sentenza, a Brcko (la città vicina) sono apparsi sui muri i graffiti "Noz, zica Srebrenica" (coltello, filo spinato, Srebrenica). I serbi si vantano di quello che ci hanno fatto e ci stanno promettendo che il genocidio si ripeterà".

Verso la mezzanotte si va a dormire. Maurizio, unico maschio della missione, va sistemato in una stanza tutta per lui. La Bosnia è un paradiso per i maschi. Li trattano come pascià, tranne in brevi periodi quando li passano per le armi "en mass".

La Hadzira, e noi due dormiamo in cucina. Ci prepara il letto, per noi sui divani-panchine, e lei per terra.

La musica dalla vicina discoteca non ci lascia dormire fino all'una; alle quattro di mattina ci sveglia la voce del muezzin; alle 5 si sveglia la Hadzira e si mette a fare il fuoco, e senza accorgersene, pensa ad alta voce.

Tornando passiamo per Tuzla, la città che ha avuto un grande amico in Alexander Langer. Tuzla, (la parola turca vuol dire "sale") mostra il tipico paesaggio urbanistico della Bosnia: la moschea e la chiesa ortodossa a cinquanta metri di distanza, le piccole case orientali accanto ai palazzi austro-ungarici. Fu e tuttora è una città multienica e multiculturale.

La zona pedonale è piena di caffè e bar, tanti giovani chiacchierano, ridono e godono della giornata di sole. Fumano tutti così tanto che persino la via è intasata di fumo. Un po’ più in là, una targa con 70 nomi, i giovani bosniaci che, proprio come questi d'oggi, si divertivano davanti ad un bar in una giornata di guerra che sembrava tranquilla; furono uccisi da un'unica granata sparata dai serbi.

Di nuovo l'"italianità" ci favorisce. Il proprietario di un ristorante ci invita "perché tutti gli italiani mangiano da lui", e dopo ci parla di suo figlio di sei anni appena operato al cuore grazie all'aiuto di una organizzazione italiana. "Buona gente, italiani", ci dice alzando il pollice in alto.

Verso il confine si passa per Brcko, la città distretto, sul corridoio strategico che congiunge "il bottino di guerra", cioè le due parti della Bosnia sotto il controllo dei serbo bosniaci.

Vicino al confine tra Bosnia e Croazia la strada corre in pianura. Da tutte e due le parti si susseguono i campi coltivati con quelli minati. Mine, ne hanno seminate più di 50 milioni per la Bosnia. E saranno esse a ricordarci del passato, anche nel remoto avvenire quando, magari, le ostilità saranno dimenticate.