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Il lungo viaggio verso Sarajevo

14.02.2008    Da Sarajevo, scrive Azra Nuhefendić

Guadagnare Sarajevo come la costa di un mare in tempesta, tra racconti di migranti e di veterani, attraverso i muri dell’Europa di Schengen. Il racconto-cronaca di una traversata. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Editing: Patrizia Bevilacqua

Diceva di soffrire il mal d'auto. Si è preso una pastiglia, e un attimo dopo era già piombato in un sonno profondo. Così si è perso tutto quello che ci è capitato in questo lungo viaggio dall'Europa ai Balcani.

Il pullman - una shklopozia, come indica il gergo sarajevese per una cosa o una persona vecchia e traballante - è in perfetto orario. Si parte da Capodistria alle quattro pomeridiane.

All’imbocco dell'autostrada i due autisti si scambiano di posto, con il pullman in corsa. Io e lo sconosciuto seduto accanto a me ci scambiamo un’occhiata tra il timoroso e il perplesso.

Uno controlla i biglietti, e "giacché si trova", ci consiglia di sistemarci di sopra, perché “quaggiù il riscaldamento è andato”.

Prima sosta a Ljubljana. Imbarchiamo nuovi passeggeri, un gruppetto di ventenni. Sono bosniaci, fanno i manovali stagionali in Slovenia. Fuori si battono i denti, siamo sotto lo zero, ma loro sono vestiti in giacchetta e scarpe da ginnastica, hanno i capelli tagliati alla moda, rizzati con tanto di gel. Riconosco il "lusso" che si può concedere uno che lavora fuori della Bosnia, guadagnando più di quanto serve per la mera sopravvivenza.

Hanno un bagaglio di poco o niente. Alcuni salgono a bordo con le mani in tasca. L’aspetto, però, è rassicurante. Tornano a casa con un mazzo di euro risparmiati in quattro, cinque mesi di duro lavoro. In Bosnia, il paese più povero d’Europa, mille euro equivalgono a quattro, cinque mensilità di stipendio.

Il pullman sta per uscire da Ljubljana, i cellulari cominciano a squillare. Uno del gruppetto riceve una sfilza di chiamate, parla ad alta voce, racconta la sua vicenda nei minimi dettagli: gli è successo di sentirsi male, è andato in ambulatorio e qualche giorno dopo si è svegliato in una corsia dell’ospedale di Ljubljana. Ha avuto tre arresti cardiaci, se l’è cavata per miracolo. Ancora convalescente se ne va in Bosnia con il pullman. Unica precauzione, un cappello di lana nera. Tenta di spiegare al suo interlocutore dove si trova di preciso, fatica a designare le strade della periferia di Ljubljana. A quel punto lo soccorre un altro passeggero: “Gli dica che siamo al semaforo”. Scoppia una risata generale. Nel pullman si scalda l’atmosfera, i passeggeri cominciano a guardarsi intorno, a chiacchierare.

Scelgo la mia "vittima". “Di dove sei?”, esordisco a bruciapelo. Ma evidentemente a lui va di chiacchierare. “Da un villaggio vicino Zvornik”, risponde.

Zvornik è una cittadina della Bosnia orientale, sul fiume Drina. Teatro delle atrocità commesse nell’aprile del 1992 dai paramilitari serbi capeggiati dal criminale Zeljko Raznatovic Arkan.

Di passaggio per Zvornik all’indomani dell’offensiva dei paramilitari serbi, Josè Maria Mendeluce, all'epoca rappresentante dell'Alto Commissariato per i Profughi in Bosnia, vide “intere strade e interi camion pieni zeppi di cadaveri bosniaci”. I musulmani bosniaci sopravvissuti vennero espulsi. La pulizia etnica era stata talmente capillare che un noto cantautore, il turbo-nazionalista belgradese Bora Corba, durante il suo concerto a Zvornik ebbe modo di affermare che "la città non puzza perché non c’è più un solo musulmano".

Memore di tutto ciò, mi preparo ad ascoltare una storia piena di orrore e di sangue.

“Ma no, niente, da noi è andato tutto liscio, tutto tranquillo - mi fa. I “nostri” serbi stavano da una parte della linea del fronte e noi dall’altra. In mezzo c’era il campo minato. Ma non ci siamo fatti niente. Ora a Capodistria divido la stanza con un mio compaesano serbo. Ne abbiamo parlato tante volte, ci siamo detti di preciso dove stavo io e dove stava lui durante la guerra”.

Immagino questi due bosniaci, un serbo e un musulmano, stremati dopo una giornata di fatica, ognuno nel proprio letto, magari con una sigaretta accesa. Prima di addormentarsi, nella semioscurità, parlano di cosa faranno con i risparmi, delle loro famiglie rimaste in Bosnia, magari si confessano un amore proibito e infine si raccontano dove stavano, ad esempio, il 4 febbraio 1993. Conversano placidi, senza rancore, senza il peso dei morti innocenti, senza il trauma della casa distrutta o della figlia stuprata.

Oggi lavorano entrambi come manovali dodici ore al giorno, perché per loro “non c'è altro da fare”. Li pagano tre euro e cinquanta all'ora, “però ci danno pure l'alloggio e un pasto”, puntualizza contento.

Una donna, difficile dire l’età, aggiunge la sua storia. Lavora a Capodistria, da vent’anni, in una fabbrica di componenti per l’Olivetti italiana. Guadagna cinquecento euro al mese, inclusi gli spostamenti e i buoni pasto. E’ preoccupata. Di recente hanno licenziato un gruppo di operaie per assumere al loro posto delle slovacche. Di lì a breve, però, le slovacche se ne sono andate. Per loro era un lavoro duro e sottopagato.

Per di più stanno delocalizzando a Est alcuni reparti della filiera, a Bihac, nel nordest della Bosnia, o a Gracanica, dove la paga ammonta a centocinquanta euro al mese.

Poco prima di mezzanotte siamo al confine sloveno-croato, ma per noialtri è una vera barriera, una resurrezione della cortina di ferro tra l’Europa e i Balcani.

Ammutoliamo tutti, come a comando. Nel pullman aleggia un sentimento condiviso: l'insicurezza. Soffriamo del "mal di confine", la sindrome che affligge coloro che stanno fuori, che non appartengono. Non si sa mai cosa finiranno per scorgere nei nostri occhi, per scoprire nei nostri passaporti, per leggere nei nostri volti, per scovare nelle nostre borse, nelle nostre tasche.

Ci fanno scendere dal pullman. La notte è fredda, la luce tagliente degli uffici doganali ci fa sentire come a un interrogatorio di polizia. Sfiliamo per passare i controlli.

Passano tutti, tranne uno. Il suo visto ha qualcosa che non funziona. “Niente di grave”, assicura uno dei due autisti.

Per il visto il passeggero deve pagare trentanove euro. Ma non ha la somma esatta. E l'ufficiale sloveno non ha da dargli il resto. “Tieniti pure questi cinquanta”, dice il bosniaco per non farci perdere altro tempo. Il doganiere sloveno si irrigidisce: “Vuoi che te ne faccio sborsare duecento di multa per tentata corruzione d'ufficiale?”

Facciamo appello alla pazienza e ce ne stiamo zitti zitti finché non finisce l'affare.

Il pullman riparte, la tensione cala e si riprende a chiacchierare. A un tratto mi pare di sentire il fumo di una sigaretta. Mi giro intorno, ma non vedo niente. Mi alzo e protesto ad alta voce. In fondo al pullman scorgo le facce dei "finti innocenti" avvolti da una nube di fumo. Vado di sotto a protestare. Lì fa un freddo becco. Tutti seduti, imbacuccati in giubbotti, cappelli, guanti perfino, ma è inutile. Si gela.

“Guarda che di sopra fumano”, faccio a uno degli autisti. Si alza, mi segue di sopra, e anche lui con una sigaretta in mano dice rivolto al resto dei fumatori: “Signori, qui dentro non si fuma”. Scoppia un’infinita risata. Mi arrendo.

Era solo una questione di tempo. C’è chi si mette a discutere della situazione politica in Bosnia. Le voci vibrano, gli animi si scaldano e tutti parlano contemporaneamente. Uno sottolinea che è tutta colpa dei Sandjaklije, ovvero dei musulmani del Sangiaccato (la parte sud-occidentale della Serbia al confine con il Montenegro) che oggi abitano a Sarajevo.

A quattrocento chilometri da Sarajevo spunta una delle tante cose che dividono i suoi abitanti del dopoguerra. I Sandjaklije sono i capri espiatori. Un classico in tema di autoctoni e "nuovi arrivati".

Ormai è quasi l’alba. Gli umori si calmano, ci zittisce la stanchezza. A Orasje, il confine croato-bosniaco, abbiamo accumulato un ritardo di quattro ore.

La maggior parte dei passeggeri scende a Tuzla. Un manipolo prosegue a bordo di un pulmino da dieci posti.

Un ragazzetto magro, di una decina d’anni, ci raggiunge scavalcando la staccionata della stazione. Senza dire una parola si mette ad aiutarci a spostare le borse. Alcune pesano più di lui. Scelgo uno dei regali da portare a casa e glielo do. Sembra felice. Ma a me pare poco, così ne tiro fuori un altro (per i miei mi arrangerò in qualche modo). Un passeggero gli regala dieci euro. Il ragazzetto è al settimo cielo, fa salti di gioia, fissa incredulo la banconota, la bacia e se ne va cantando a squarciagola.

Siamo tristi e imbarazzati: ci vuole così poco per farlo felice? E’ talmente povero che dieci euro fanno la sua fortuna?

L'autista del pulmino è un giovane di venticinque anni. Lavora per una ditta privata, guadagna trecento euro al mese. L'ultima paga risale a quattro mesi fa, ma non si lamenta.

E' un chiacchierone. La settimana scorsa, tra i suoi passeggeri, ha incontrato “l'amore della sua vita". Una bosniaca che vive in Slovenia. Più che la ragazza, lo eccita l’idea che un eventuale matrimonio lo porterà a vivere e a lavorare laggiù.

Comincia a nevicare. Siamo fermi sulla strada ghiacciata in mezzo a una lunga fila di auto e di camion. Dopo un’ora e passa, nessuna traccia né della stradale né degli spalaneve.

L'autista non ci bada. “Dài, cantiamo”, propone. E intona una kalesija. Il nome deriva da una località dell’entroterra bosniaco. Un tempo valeva come sinonimo di “degradato”. Questo genere di canzone incarna il peggio del peggio. E' uno schiaffo, un insulto alla musica, al buon gusto, alla ragione, all’umanità. Dentro c'è tutto: il sesso, l’embargo, la povera mammina, la comunità internazionale, la vicina di casa nuda, la guerra, l’amore, il lavoro. Il più delle volte il contenuto è lascivo, morboso, al limite della pornografia. E’ un genere sempre più diffuso. Prima si sentiva solo in qualche sperduta trattoria, oggi ha guadagnato la cittadinanza. La musica segue il degrado generale della società bosniaca.

A mezzogiorno siamo ancora lontani da Sarajevo. Più fermi che mobili. Abbiamo esaurito anche l’ultimo dei passatempi: abbiamo cantato, mangiato, ci siamo detti chi siamo, dove andiamo, dove viviamo, ci siamo scambiati indirizzi, numeri di telefono, inviti, ormai parliamo da vecchi conoscenti, ci diamo del tu.

Verso le due del pomeriggio siamo a venti chilometri da Sarajevo, in viaggio sull'unico tratto esistente dell’autostrada facente parte del futuro Corridoio C che dovrebbe collegare il nord al sud della Bosnia e che dovrebbe essere la strada più corta tra l'Europa centro-orientale e l’Adriatico. I progetti per costruirla durano ormai da anni. Ma non sono andati oltre questi venti chilometri. Troppi ostacoli. La corruzione, e i partiti politici, e gli interessi economici, e gli investitori esteri, e il riciclaggio del denaro sporco, e i musulmani, e gli occidentali. Troppi ostacoli. Troppi davvero.

“Se Tile fosse vivo - così chiamavamo il presidente Tito - era fatta in sei mesi”, commenta uno, alludendo alla ferrovia Sarajevo-Brcko, costruita nel giro di qualche mese nell’immediato dopoguerra. Ci lavoravano brigate di giovani in arrivo dall’intera Jugoslavia e anche molti stranieri. E' diventata leggendaria.

Le prime persone che ho conosciuto in Italia, ormai ottantenni, mi parlavano con entusiasmo e nostalgia della loro partecipazione a quell’impresa.

Si guadagna Sarajevo come la costa di un mare in tempesta, procedendo lentamente e con difficoltà. La città ha perso molti dei suoi attributi di capitale europea, anche se uno lo ha ottenuto: un traffico asfissiante che fa penare chiunque voglia entrarci.

Ma noi, dopo ventiquattr’ore di viaggio, ce l'abbiamo fatta.