L'aprile di Azra
11.04.2007
Quindici anni fa, il 6 aprile 1992, iniziava la guerra in Bosnia Erzegovina. Il ricordo di quei giorni nel racconto di Azra Nuhefendic, giornalista di Sarajevo che oggi vive e lavora in Italia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Io non ci credevo che la guerra arrivasse a Sarajevo. Ma il 5 Aprile 1992 non potevo più negare: la guerra era davanti alla mia città.
Mi pareva assurdo guardarla da una distanza di 500 chilometri. Lavoravo a Belgrado, facevo la giornalista con la TV statale. Così presi due settimane di aspettativa, pensando che, anche se la guerra arrivava, non sarebbe durata più di una settimana.
Tutti i collegamenti tra Serbia e Bosnia erano già interrotti. Partii con una TV svedese. Mi offrii di far loro da guida, e loro in cambio mi diedero un passaggio.
Al confine tra Bosnia e Serbia, lungo il fiume Drina, c'era una lunga fila di cannoni con le bocche puntate verso la sponda bosniaca del fiume. C'erano i soldati dell'armata jugoslava, i poliziotti, anche loro armati fino ai denti e i paramilitari serbi. Questi ultimi sembravano appena usciti da un film sulla seconda guerra mondiale: barbe e capelli lunghi, con le cartucciere che gli pesavano intorno al collo. Tutti erano sotto il comando del famoso criminale Zeljko Raznatovic Arkan.
Fu lì, sul ponte del fiume Drina, che capii cosa stava succedendo. La guerra.
Le strade verso Sarajevo erano vuote. Ogni tanto, come le silhouette, apparivano e scomparivano i gruppi armati. Non sparavano, ma appena ci vedevano si ritiravano.
A Olovo, piccola città nel centro della Bosnia, incontrammo due autobus pieni di minatori: tornavano da Sarajevo dove, quel giorno, mezzo milione di bosniaci protestava contro la guerra.
Faceva buio quando siamo entrati a Sarajevo. Sulla città regnava un silenzio minaccioso. Le strade che conoscevo come le mie tasche mi apparivano strane. La foschia e la nebbia, le luci gialle lampeggianti dei semafori, tutto mi faceva paura. Ogni centro metri ci fermavano i civili armati, alle barricate. In fretta, ci chiedevano chi eravamo, dove stavamo andando.
Volevo andare dritto a casa, dai genitori, a Grbavica quartiere sulla sponda sinistra del fiume Miljacka, ma non me lo permisero. ”Troppo pericoloso”, ci dicevano e ci dirigevano verso il centro.
Le porte dell'albergo “Belgrado” (oggi "Bosna") erano chiuse a chiave. Bussammo alla porta. Non ci lasciavano entrare. "Tutto pieno", ci disse il concierge dietro la porta chiusa. Ma dopo aver insistito, ci aprì. Si scusò: "Le bande armate girano per la città", ci spiegò.
Sulla TV di Belgrado vedemmo Arkan: "Dicono che stai per attaccare Zvornik”, gli chiese un giornalista. Arkan rispose: "Vedete che sono qui, a Belgrado, davanti al mio negozio, dove stiamo parlando".
Il 6 aprile, la mattina presto, la prima notizia che udimmo fu che Arkan, i suoi paramilitari e l'armata jugoslava avevano attaccato Zvornik. Si parlava di decine di morti, centinaia di feriti, di scomparsi, di detenuti.
Andai dai miei genitori. Li trovai preoccupati, ma del tutto tranquilli.
"C'è la guerra?" chiesi.
"Ma lascia perdere i "papci", disse papà. “Papci” è un termine dispregiativo che a Sarajevo si usa per definire vigliacchi, i montanari che non riuscivano ad integrarsi con i sarajevesi.
"Perché sei venuta. Non occorreva, vedi, è tutto a posto", mi dice mamma.
La giornata era bella e soleggiata. Il 6 Aprile è il giorno della liberazione di Sarajevo dai nazisti. Andai a trovare le mie sorelle, gli amici, bevemmo il caffè nei bar stando seduti all'aperto. Si parlava, ma nell'aria restava sospesa una paura non pronunciata. "Bisogna scappare" dissi, e spiegai cosa avevo visto arrivando a Sarajevo. "Ma lascia perdere, anche se succedesse qualcosa, non sarà niente di grave. Ai "papci" bisogna dare un lezione", mi risposero.
Nel primo pomeriggio però le vie si svuotarono presto. Rari passanti camminavano in fretta.
Con la notte scese la paura. Si guardava la TV con la speranza che le notizie ci tranquillizzassero. Il presidente bosniaco Izetbegovic dichiarò che non ci sarebbe stata alcuna guerra. "State tranquilli. Per la guerra c'è bisogno di due parti. Noi, bosniaci non faremo la guerra".
Dal sonno ci svegliarono le cannonate: il primo attacco a Sarajevo era in corso. I paramilitari serbi, scendendo dalla collina Vrace, tentarono di tagliare la città in due. Si combatteva sotto casa mia. I miei genitori ed io, trascinandoci, ci ritrovammo in un angolo, dietro ad un piccolo muro che ci sembrava più sicuro. Abbracciati tremavamo assieme ai muri della casa. Sembrava che combattessero nella stanza accanto. Suonava il telefono e, sempre strisciando, risposi. Dall'altra parte c'era mia sorella che voleva assicurarsi che fossimo ancora vivi. Poi, un'altra telefonata. “Siete vivi?”
Cosi è cominciata la mia guerra.