Manifestazioni di piazza
Fratture sul candidato alla presidenza della repubblica, forti pressioni delle forze armate e la società civile che scende in piazza. Per uscire dalla crisi politico-istituzionale il parlamento turco approva la richiesta di elezioni anticipate
Tutto da rifare. La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso presentato dal Partito Repubblicano del Popolo (CHP) all’indomani del primo turno delle votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica. Il ricorso chiedeva l’annullamento della votazione per la mancanza in aula del numero minimo di deputati, 367, i due terzi del parlamento. La decisione della corte impone una revisione del calendario delle votazioni. Si riparte domenica prossima con il primo turno, l’unico candidato rimane l’attuale ministro degli esteri Abdullah Gül. A parte clamorose sorprese dell’ultima ora sembra però assai probabile che anche domenica si ripeta lo stesso scenario visto venerdì scorso.
Abullah Gul, candidato alla presidenza
Una situazione di stallo che ha portato l’opposizione a richiedere le elezioni anticipate trovando la disponibilità del partito al governo l’AKP (Partito della Giustizia e dello sviluppo). E giovedì il parlamento ha approvato a larga maggioranza la data del 22 luglio.
La sola condizione posta dall’AKP per accettare l’ipotesi elezioni anticipate era stata quella di una mini riforma costituzionale per portare il limite d’età minimo necessario per essere eletti in parlamento dagli attuali 30 anni, il più alto d’Europa, a 25. Proposta che ha trovato il consenso anche dell’opposizione. Semaforo rosso invece per quanto riguarda le altre richieste del premier Erdoğan: una più ampia riforma costituzionale che prevede tra l’altro l’elezione diretta del presidente della repubblica che Erdoğan vorrebbe in coincidenza con le elezioni politiche.
Si è conclusa così la prima parte della profonda crisi politico-istituzionale che covava da mesi e che è esplosa lo scorso fine settimana. Prima la mancata elezione del candidato Gül e poi il ricorso del CHP. Nella tarda serata di venerdì ci avevano pensato i militari a rendere incandescente la situazione. Un comunicato comparso sul sito dello stato maggiore aveva ricordato che “le forze armate sono parte in causa del dibattito sulla laicità e quando necessario pronte a mostrare un atteggiamento chiaro e deciso”.
Toni e parole che ricordavano in modo impressionante quelle del comunicato del Consiglio per la Sicurezza Nazionale (MGK) che nel 1997 aveva di fatto messo fine al governo di coalizione guidato dal filo islamico Erbakan. Un colpo di stato postmoderno fu definito all’epoca. Anche in questa occasione i militari si sono dimostrati al passo con i tempi dando vita a quello che è già stato definito un e-colpo di stato.
Domenica era stata la volta della società civile che aveva portato in piazza ad Istanbul centinaia di migliaia di persone per una replica della manifestazione di Ankara per dire no all’ipotesi di un membro dell’AKP alla presidenza della repubblica. Martedì l’atto finale da parte della corte costituzionale.
Forze armate, alta burocrazia di stato, il partito stato kemalista. La sacra triade che incarna l’establishment, il regime per dirla alla turca, si è mobilitata al gran completo per sbarrare la strada all’AKP. Sono le stesse forze che non hanno mai digerito la vittoria dei parvenu dell’AKP ed il processo riformista che, tra non poche contraddizioni, il partito ha messo in moto nel paese. Dopo innumerevoli tentativi di affondare il governo nel corso della sua legislatura, i difensori dello status quo non hanno resistito alla tentazione di sferrare l’attacco finale nell’ultima occasione utile, quella dell’elezione del presidente della repubblica.
La laicità dello stato e la sua difesa di fronte alla presunta minaccia islamica sono da sempre il leit motiv preferito per legittimare la loro mobilitazione. Dietro questa nobile causa fanno però sempre capolino la disponibilità a mettere tra parentesi l’ordinamento democratico, laicità e democrazia sembrano escludersi a vicenda, ed il rancore generato da equilibri sociali, politici ma anche simbolici messi in discussione dalle riforme.
Basta dare un’occhiata alla manifestazione di domenica per rendersene conto.
Gli organizzatori per rispondere alle accuse di avere nostalgie golpiste mosse in occasione della mobilitazione di Ankara avevano scelto per l’appuntamento di Istanbul lo slogan: “Né sharia né colpo di stato”.
Buoni propositi ma il minuscolo cartello con il riferimento alla sharia ed al golpe si perdeva nel mare di bandiere turche e di striscioni che accusavano Gül di essere un agente degli Stati Uniti.
Nella folla, moltissime le donne comprensibilmente molto sensibili in tema di rapporti politica-religione, si ritrovavano però anche molti di quegli elementi che caratterizzano il vento contro-riformatore che da mesi spira nel paese.
La solita dose di paranoia complottista da rivolgere anche contro l’imperialismo americano o l’Unione Europea, accanto alle richieste per una Turchia indipendente. Nessun dubbio invece sulla legittimità dell’intervento dei militari. “Hanno espresso una sensibilità che è di tutti”, “Per fortuna che ci sono loro”, “Io mi rifugio sempre dietro i militari”.
Tanil Bora sul quotidiano “Birgün” ha ironicamente proposto per la manifestazione di Istanbul lo slogan “né sharia né democrazia”. Al di là della provocazione ce n’è abbastanza per provare a ripensare le categorie innovazione-restaurazione ed ai gruppi sociali che le rappresentano in Turchia.
Il premier turco Erdogan
Certo, a far precipitare la situazione ed a produrre la crisi attuale anche il partito di Erdoğan ci ha messo del suo. La gestione del nome del candidato alla presidenza, il cui annuncio è stato dato solamente all’ultimo momento utile, ha contribuito a tenere alta la tensione per mesi e a dare l’impressione che il partito volesse tentare il colpo infischiandosene degli equilibri del paese e soprattutto del fatto che è ben lontano dal rappresentare la maggioranza di esso. Anche il commento di Erdoğan alla sentenza della corte - “Una pallottola lanciata alla democrazia” - non è stato dei più felici. Fa il paio però con le parole pronunciate da Baikal, leader del CHP, alla vigilia del verdetto - “Se la Corte respingesse il ricorso trascinerebbe il paese allo scontro” - che sono significative nel mostrare qual è il clima che ha accompagnato la decisione dei giudici.
Ora, mentre i contendenti affilano le armi per le prossime settimane, rimane da sottolineare un fatto di non poco rilevanza. L’atteggiamento misurato ma deciso che il governo ha mantenuto di fronte al comunicato dei militari, ricordando loro di essere sottoposti all’autorità del governo. Un gesto passato in secondo piano ma che ha un carattere quasi rivoluzionario, se teniamo conto di come in passato i partiti al governo avessero sempre chinato il capo ogni qual volta i generali alzavano la voce. Un elemento tra gli altri che giustifica la speranza di chi ritiene che questa crisi possa alla fine contribuire ad accelerare il processo di maturazione democratica del paese.