''La sensazione che sopra ogni altra resta al lettore è che la giustizia penale internazionale stia nascendo non già grazie alle cancellerie mondiali, ma nonostante loro''. Una recensione del libro di Florence Hartmann, ex portavoce di Carla Del Ponte al Tpi
Che nel dare la caccia ai vari carnefici della ex Jugoslavia ci sia sempre stata una ragguardevole distanza tra la retorica della comunità internazionale e le azioni concretamente intraprese era un concetto chiaro da tempo anche a chi non si occupa tutti i giorni dei Balcani e delle loro vicende. Pochi però hanno potuto misurar concretamente quella distanza meglio di Florence Hartmann, che dal 2000 al 2006 è stata portavoce e consigliera del procuratore Carla Del Ponte al Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. “Pace e castigo” (
Paix et châtiment, Flammarion, 2007), il libro che l’ex giornalista di Le Monde ha tratto da quell’esperienza conduce il lettore nelle segrete stanze dove si è giocato lo scontro tra le regole della giustizia e quelle della pacificazione, tra le ragioni di Stato e quelle del diritto.
E’ un libro con poche note e poche citazioni, perché nasce – come l’ autrice subito spiega - da carte che si possono leggere ma non citare, da conversazioni cui è concesso di assistere senza però prendere appunti. Il TPI nasce per dare qualcosa in pasto all’opinione pubblica mondiale, ancora sconvolta dalle immagini dei massacri, dei cecchini che uccidono i civili, dei campi di prigionia. Nelle intenzioni dei suoi artefici non avrebbe mai dovuto funzionare realmente, se non per limitarsi ai pesci piccoli. Per assicurarne l’inefficacia si pensa in principio che la mancanza di una propria polizia a cui dare ordini e da cui ricevere informazioni sia più che sufficiente. Nessuno si preoccupa troppo di subordinare l’azione inquirente alla supervisione politica del Consiglio di sicurezza, da cui pure il Tribunale dipende.
Dal punto di vista della diplomazia internazionale è un errore grave: dopo qualche anno di letargo, cambiato il contesto e il procuratore (la canadese Louise Arbour), il giocattolo prende a funzionare sul serio. Parigi nel frattempo se ne è disinteressata, mentre altri, più saggi, lo infiltrano per pilotarne il lavoro attraverso il controllo delle informazioni: la palma in questo campo spetta, per la Hartmann, alla Gran Bretagna.
La partita si gioca soprattutto nell’ufficio degli analisti militari, l’anello di collegamento tra procura e forze multinazionali, presenti sul terreno con i loro servizi di informazione. Non sono solo i governi balcanici a trascinare i piedi davanti alle ingiunzioni della procura che chiede collaborazione, ma quelle stesse cancellerie occidentali che pure continano a promettere giustizia per le vittime dei massacri. Le strutture militari che dovrebbero collaborare con la procura in realtà distillano le informazioni, censurano i documenti, ritoccano le foto-spia, nascondono le intercettazioni o le consegnano solo quando il tempo ne ha compromesso l’utilità.
“Pace e castigo” racconta i rapporti non facili tra Carla Del Ponte e il suo numero due, il britannico Geoffrey Nice, che tenta più volte di convincerla ad abbandonare le accuse contro Slobodan Milosevic per i massacri di Srebrenica o l’assedio di Sarajevo. En passant, in una nota a pié di pagina, la Hartmann ricorda che Nice stesso ha ammesso di avere lavorato da giovane per i servizi segreti del suo paese.
Non va meglio nella ricerca e nella cattura di Radovan Karadzic e Ratko Mladic, al punto che il tribunale finirà per istituire un proprio team allo scopo di seguirne le tracce. Ma l’attivismo investigativo della Del Ponte e dei suoi collaboratori viene scoraggiato e contenuto in ogni modo, da più parti.
Le vicissitudini di Radovan Karadzic sono emblematiche: l’ex presidente dei serbi di Bosnia sarebbe protetto da ben due accordi segreti, uno con gli Stati Uniti e uno con la Francia: Washington, sostengono le fonti della Hartmann, ha negoziato il suo ritiro dalla vita pubblica in cambio dell’immunità. I francesi gli devono invece il rilascio dei due piloti catturati dalle forze serbe durante i raid della NATO. Ma l’ex psichiatra-poeta, con Milosevic all’Aja, sa di essere un testimone scomodo e si domanda se sia più sicuro restare latitanti o costituirsi. In più di un’occasione tenta di negoziare la resa. Senonché nella partita si inserisce la Russia: pur di evitarne lo sbarco all’Aja Boris Eltsin è pronto a farlo prelevare con un’operazione aerea. Karadzic alla fine accetta di riparare in Bielorussia, ma dopo qualche tempo ritorna sulle montagne tra Bosnia e Montenegro, dove dal 2004 se ne perdono le tracce.
Seguire la latitanza di Ratko Mladic è stato un esercizio ancor più facile. Per molto tempo l’ex comandante militare dei serbi di Bosnia non nasconde nemmeno. Belgrado gli paga stipendio e protezione. Le informazioni che l’Aja fornisce perché si proceda alla sua cattura diventano un contributo al perdurare della latitanza. Solo Zoran Djindjic vorrebbe collaborare: per lui fin tanto che Milosevic e Mladic saranno in libertà la stabilizzazione della Serbia sarà impossibile. Djindjic e la Del Ponte si incontrano segretamente negli uffici della polizia ticinese quando Milosevic è ancora in libertà; il premier serbo annuncia che sarà presto arrestato, per reati finanziari, poi le prove dei massacri in Kosovo e i tentativi di occultamento verranno fatti emergere, aprendo la via all’estradizione. Con la stessa operazione che porterà Milosevic all’Aja Djindjic offre di consegnare anche Mladic, ma la cosa non riesce e poco tempo dopo l’unico interlocutore affidabile del TPI in Serbia muore assassinato.
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’ostilità per l’idea di una giustizia penale internazionale sembra accomunare non soltanto le parti in conflitto, ma anche buona parte della comunità internazionale, soprattutto tra i militari. Per molti diplomatici l’ attivismo dell’Aja è una scocciatura, una mina vagante. La stessa Serbia, che denuncia a gran voce i crimini della Nato durante i bombardamenti del '99, si guarda bene dal fornire prove o dal concedere visti agli investigatori.
Negli statuti della nuova Corte Penale Internazionale l’errore commesso con il TPI non è stato ripetuto: i governi, anche i più aperti all’idea di una giustizia internazionale, hanno introdotto ampie facoltà di supervisione. Forse non per caso quel tribunale, dopo avere impiegato anni per entrare in funzione, fino ad ora ha incriminato solo qualche ladro di polli. Nel frattempo Slobodan Milosevic è morto da innocente e la Corte internazionale di Giustizia (sulla base di documenti che Belgrado aveva preventivamente censurato) ha stabilito che la Serbia non era responsabile per ciò che Mladic faceva a Srebrenica. Eppure non era Karadzic ma il presidente jugoslavo Lilic a firmare i decreti delle sue promozioni e avanzamenti di carriera.
Florence Hartmann si riserva la prognosi quanto al futuro della giustizia penale internazionale. La cronaca, non solo dai Balcani, sembra darle ragione: l’ex dittatore liberiano Charles Taylor ha accumulato milioni di dollari su conti svizzeri con il traffico dei diamanti di guerra, ma la sua costosissima difesa viene pagata per intero dalle Nazioni Unite. Il tribunale speciale per la Sierra Leone, che lo deve giudicare, rischia in ogni momento la chiusura causa mancanza di fondi, il che comporterebbe la scarcerazione dell’imputato. Nel frattempo, nonostante i programmi di protezione, più di un testimone è sparito prima di poter confermare in aula le deposizioni rese in istruttoria.
Il libro si chiude e la sensazione che sopra ogni altra resta al lettore è che la giustizia penale internazionale stia nascendo non già grazie alle cancellerie mondiali, ma nonostante loro. Niente affatto una sensazione piacevole.