“Non facciamo divertimento, facciamo arte. Se l’arte contemporanea non si mescolerà a temi politici e sociali, dubito che possa continuare ad avere un senso”. Ha le idee chiare sul rapporto tra arte e società Hou Hanru, curatore della decima edizione della Biennale di Istanbul che si è aperta lo scorso 8 settembre alla presenza di 300 giornalisti. Con le opere di 119 artisti disseminate sulle due rive del Bosforo, la Biennale 2007 – aspettando il 2010 quando la città sarà capitale europea della cultura - consolida l’immagine di Istanbul come uno dei luoghi più effervescenti del panorama culturale contemporaneo.
Una biennale, dal carattere marcatamente orientale vista la massiccia presenza di artisti di origine cinese, entrata ormai a far parte del Grand Tour dell’arte contemporanea insieme a Kassel, Münster e Venezia.
Hanru, cinese lui stesso e curatore del padiglione della Cina alla Biennale di Venezia, ha allestito una biennale riconosciuta unanimemente come l’edizione “più politica” tra quelle finora viste ad Istanbul.
“Nell’epoca della globalizzazione l’ottimismo non è solo possibile ma necessario” è lo slogan scelto da Hanru. Al centro del suo interesse, vi è l’ambizione di “rivitalizzare la riflessione sui destini della modernità e della modernizzazione nel terzo mondo”. Citando apertamente alcuni classici della letteratura sociologica sul tema, Hanru denuncia il carattere spesso autoritario dei processi di modernizzazione imposti dalle classi dominanti che hanno scatenato una reazione spesso all’insegna del nazionalismo, del fondamentalismo religioso e del razzismo.
“Nell’epoca della globalizzazione – sottolinea Hanru – la questione chiave è come reinventare modelli di modernizzazione più efficaci”. Magari, come suggerisce il curatore, facendo riferimento “a forme innovative di intervento, una sorta di guerriglia urbana” nella quale si annullino i confini tra arte e spazio urbano, il luogo per eccellenza dove si condensano le contraddizioni della modernità.
Da questo spunto nasce forse l’idea più interessante di questa biennale. Quella di portare l’arte al di fuori degli spazi ortodossi, le mura di un museo, per disseminarla all’interno della città. Non nei luoghi ormai assorbiti dai circuiti del turismo internazionale, Aya Sofya o la Moschea Blu, ma portando il visitatore là dove si incarna la modernità kemalista, il centro culturale AKM o il mercato dei produttori tessili.
Se una critica va mossa al curatore è quella forse di non essere stato coerente fino in fondo con il suo manifesto programmatico. Nonostante le premesse, le opere più interessanti ed originali sono infatti ospitate nel più museale degli spazi, quello dell’Antrepo n.3.
Un tour ideale della Biennale potrebbe cominciare proprio dal cuore della città, piazza Taksim, dove sorge il Centro Culturale Atatürk (AKM).
Simbolo per eccellenza della modernità repubblicana, ricostruito negli anni ’70 dopo un incendio devastante, con le sue forme ed il suo trionfo di vetro e acciaio, è stato e continua ad essere uno dei templi in cui si celebrano i riti della cultura ufficiale – prosa, lirica, musica classica - per decenni punto di riferimento per le élite turche. Da qualche tempo però lo spettro della demolizione aleggia sulla struttura. La sua centralissima posizione è un boccone succulento per gli speculatori.
“Deve essere abbattuto o no?”. Con questa domanda provocatoria Hanru ha scelto di accogliere i visitatori del centro.
Tra loro incontriamo casualmente anche Zeki Sezer, segretario del DSP, il quale non ha dubbi. “Assolutamente no, distruggerlo significherebbe eliminare una parte della nostra storia”. E della stessa opinione è la gran parte dei visitatori che si aggira per le sale.
La bellezza dell’edificio, dei suoi materiali e dei giochi di luce favoriti dalle grandi vetrate, vi ripagano un po’ dalla delusione che vi prende di fronte alle opere. Delusione che nasce anche dalla sensazione che in molti artisti sembra prevalere l’esigenza di fare della sociologia piuttosto che preoccuparsi dell’estetica o della ricerca di originalità.
Tra le opere che vi rimarranno in testa alla fine della visita all’AKM, ci sono sicuramente quella del franco portoghese Fiuza Faustino che si cimenta con le difficoltà della costruzione della casa comune europea.
Al piano superiore le fotografie dell’armeno Vahram Aghasyan, che vi mettono di fronte all’incompiuto progetto della modernità sovietica. La ricostruzione di Erevan dopo il terremoto venne interrotta dal crollo dell’Unione Sovietica. Quel che resta sono gli scheletri di edifici incompiuti semisommersi nell’acqua.
Anche l’austriaco Kottendorfer ha scelto l’Unione Sovietica, fotografando il leggendario albergo Rossja di Mosca prima della sua demolizione.
Il bielorusso Alexander Komarov nel suo video ha preferito invece giocare con le forme dell’edificio dell’AKM.
Da piazza Taksim si scende velocemente sulle rive del Bosforo dove vi aspetta lo spazio più ortodosso della biennale. L’Antrepo n.3 fa parte dei vecchi docks del porto che, in parte, sono stati convertiti nello splendido Istanbul Modern, il museo d’arte contemporanea.
L’Antrepo, ribattezzato da Hanru Entre-Polis, è organizzato come un labirinto, a simboleggiare il carattere della città, e probabilmente ospita le opere più interessanti della biennale.
A cominciare dagli anti-ritratti del cinese Yan Pei Ming. Che vi accolgono all’ingresso.
Il canadese di origine cinese Ken Lum rende invece omaggio alla cultura turca proponendo i versi del poeta mistico Yunus Emre riflessi sugli specchi del corridoio attraverso il quale passa il visitatore.
Per la siriana Buthayna Ali “Siamo tutti soli su di un’altalena”. E certo non vi dimenticherete facilmente della sua foresta di altalene, su ognuna delle quali risalta la bellezza cristallina della scrittura araba.
Il collettivo moscovita AES+F con i suoi murales si rifà apertamente alla tradizione del realismo socialista. “Penso che le loro opere siano morali, urgenti, belle e scioccanti... abbiamo molto bisogno di questo genere di opere” ha raccontato Hanru.
Il serbo Ivan Grubanov era studente di belle arti a Rotterdam mentre Milosevic compariva davanti ai giudici dell’Aia. Ha partecipato a tutte le udienze del processo ed i 160 disegni che propone nell’Antrepo rappresentano il frutto di quell’esperienza. “Una testimonianza che riflette l’atteggiamento dell’individuo di fronte alla storia”, per usare le parole di Hanru.
Il regista canadese di origine armena Atom Egoyan ed il turco Kutluğ Ataman si cimentano con la memoria delle rispettive comunità. Egoyan propone le memorie tragiche di Aurora. Scampata al massacro della famiglia nel 1915, ripara in America alla ricerca del fratello. Ben presto la sua storia attira l’attenzione di Hollywood che nel 1918 ne fa un film. Aurora però non regge al peso della popolarità involontaria che l’ha raggiunta e si suicida. Ataman sceglie invece di far parlare zia Kevzer, la tata che ha cresciuto lui e i suoi fratelli. Di origine armena, l’anziana signora però non riesce a rispondere alle sollecitazioni di Ataman su quanto accaduto nel 1915. Semplicemente non ricorda. Una metafora “della memoria cancellata della società turca” come ha detto lo stesso Ataman. Un altro artista turco, Extramücadele (Extralotta), nei suoi disegni se la prende con alcuni tabù del passato, l’Islam e Atatürk, ma anche della scottante attualità, l’omicidio di Hrant Dink o la questione curda.
Usciti dall’Entrepo, basta superare il ponte di Galata per arrivare al terzo spazio della biennale: il centro dei manifatturieri e dei tessili di Istanbul (IMC). Con la scelta di fare di questo spazio un luogo della biennale, Hanru gioca la sua carta più ambiziosa nel tentativo di abbattere le barriere tra arte ed ambiente urbano. Composto da sei blocchi distesi sul pendio che dall’acquedotto di Valente scende sulle rive del Corno d’Oro, il centro rappresenta un perfetto esempio di architettura modernista degli anni ’50. Un alternarsi di spazi coperti ed aperti, scale, terrazze, destinati ad ospitare inizialmente i commercianti tessili e che, con il tempo, si è trasformato in un perfetto concentrato della tumultuosa modernità turca. Fianco a fianco convivono i negozi delle case di produzione musicale, i venditori di abbigliamento femminile “islamicamente corretto”-
tesettür -, negozi di strumenti musicali e tendaggi.
La slovena Tadej Pogacar presenta il lavoro di un gruppo di prostitute brasiliane che ha realizzato una collezione di abiti con un proprio marchio “un esempio di modello economico alternativo” lo ha definito Hanru.
Le fotografie dei cinesi Ou Ning e Cao Feng ricostruiscono le vicende di un quartiere popolare che lentamente viene raso al suolo dalle ruspe della modernità. Un altro cinese, Zhu Jia, propone una stanza interamente tappezzata da centinaia di volti.
Il guatemalteco Teddy Cruz racconta delle trasformazioni urbane subite dalla città di Tjuana con la nascita delle fabbriche
maquilladoras al confine con gli Stati Uniti.
Il titolare di un negozio di abbigliamento
tesettür proprio di fronte allo spazio della biennale, mi offre una sedia: “Io sono entrato ma non ho capito niente. A dir la verità però nell’altra stanza ci sono dei film che raccontano delle cose”. A lui preme piuttosto raccontare come le polemiche dei mesi scorsi sulla laicità e sul velo abbiano messo un po’ in crisi i suoi affari “Fortunatamente esportiamo molto, nel Medio Oriente ed anche negli Stati Uniti”. E’ l’ora della preghiera. Prima di lasciarmi ci tiene ad aggiungere “Penso che non si dovrebbero giudicare le persone dall’apparenza!”.
Al piano di sotto, Engin osserva il via vai di turisti dalla vetrina della sua casa di produzione discografica. “Non ho ancora avuto il tempo di andare a vedere la mostra ma lo farò. E’ una cosa positiva per l’IMC l’arrivo della biennale, ci sono turisti, c’è più movimento, sono arrivate anche le televisioni. Certo, io magari avrei organizzato altre manifestazioni collaterali, che so, concerti, presentazioni di libri.”
Sull’altro lato c’è la tipografia del signor Fehmi “convenzionata col ministero delle finanze”. Il signor Fehmi sbuffa davanti alle macchine. “No, non ho ancora avuto il tempo di visitare la mostra. Però la sera dell’inaugurazione hanno mostrato il video di un’operazione chirurgica, l’ho visto. Sa mi interessano queste cose, sono malato di cuore. Se lo rifanno, ci vado”
Terminata la visita all’IMC, vale la pena fare un ultimo sforzo per arrivare fino all’estremità del Corno d’Oro dove c’è uno dei luoghi destinato a contribuire alla rinascita culturale di Istanbul.
Prendete la prima centrale elettrica della città, costruita nel 1914, ed un’università privata decisamente intraprendente. Il risultato è un magnifico campus per la neonata facoltà di Arti Visive: un esempio di come fare archeologia industriale recuperando con misura gli spazi della centrale e creando un museo che ospita una permanente dedicata all’arte turca moderna e contemporanea. E’ SantralIstanbul, che la Biennale ha scelto per ospitare alcuni video ed installazioni, tra le quali quella dei milanesi di OUT.
A completare la Biennale una miriade di iniziative collaterali sparse per tutta la città. Da segnalare l’iniziativa Nightcomers, che Hanru ha pensato ispirandosi alla tradizione dei Tatzebao cinesi. Proiezioni video disseminate in 25 punti diversi della città, in 25 giorni differenti. Un’altro modo per portare “l’arte a contaminarsi con la città”.