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A sud dell'Ibar

29.02.2008    Da Strpce, scrive Francesco Martino
Impianti a Brezovica
A Strpce, alle falde della Sar Planina, vive la più numerosa comunità serba in Kosovo a sud dell'Ibar. Le reazioni, le paure, le emozioni, nei giorni della proclamazione unilaterale di indipendenza. Un reportage del nostro inviato
A Brezovica, la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, letta a Pristina lo scorso 17 febbraio, ha avuto subito un effetto pratico ed immediato. Nessuno viene più a sciare sui fianchi della Sar Planina, nonostante la neve sia ancora abbondante, l'aria frizzante e il sole inondi le montagne e la stretta valle del Lepenac, che scende verso Strpce per poi girare bruscamente a sud e mettere in comunicazione, attraverso una gola stretta e profonda, il Kosovo e la Macedonia.

Il fatto è che quasi tutti gli sciatori che vengono a Brezovica sono albanesi del Kosovo, mentre nella municipalità di Strpce, all'interno della quale si trova il complesso sciistico, la maggioranza degli abitanti, circa 9.100 su un totale di 13.600, sono serbi.

Si tratta, di fatto, della più numerosa enclave serba in Kosovo a sud di Mitrovica e del fiume Ibar.

“Gli ultimi sciatori sono venuti sabato 16, alla vigilia della proclamazione”, mi dice Zoran Boskocevic, direttore dell'albergo “Molika”, mentre sediamo nella pizzeria “Vetar”, al centro di Strpce. “Questa settimana non è venuto nessuno: la tensione è tornata alta, tutti hanno paura che ci possano essere incidenti. Temo che dovremo chiudere la stagione, nonostante le condizioni siano ancora ottimali”.

Chiudere la stagione, qui, non è cosa da poco. Buona parte dell'economia locale, soprattutto per quanto riguarda la comunità serba, gira intorno al centro montano. La “Ineks Hoteli”, società a capitale pubblico di Belgrado che gestisce il complesso, stipendia oggi circa 220 persone all'interno della municipalità, al momento tutti serbi.

In realtà, però, buona parte delle strutture sopravvivono soltanto grazie agli aiuti che arrivano da Belgrado. “I nostri unici clienti sono una decina di poliziotti bulgari del contingente Unmik, in una struttura con 350 posti letto”, mi racconta Dragan Milosevic, direttore del servizio ristorante dell'albergo “Narcis”. “L'hotel ha ancora 80 dipendenti, ma abbiamo un po' di lavoro solo quando c'è qualche matrimonio. Altrimenti veniamo qui a turno, soltanto per non lasciare che vada tutto a pezzi”.

A Strpce, come nel resto del Kosovo, il conflitto del '99 ha portato a drastici cambiamenti. Fino ad allora, mi racconta ancora Boskocevic, il suo albergo faceva 40-50mila pernottamenti l'anno, distribuiti sulle quattro stagioni. L'anno scorso si è arrivati a malapena a 7mila, mentre i prezzi si sono quasi dimezzati, passando da 50 marchi a 15 euro per notte.

“Sono pessimista. Il mercato turistico del Kosovo è troppo piccolo e povero, e per attirare i turisti occidentali non ci sono le condizioni. Tutte le strutture, sia alberghi che impianti, sono vecchie, non si investe un soldo da troppi anni. Anche chiedere crediti è impossibile, visto che non sappiamo nemmeno in quali mani saremo il prossimo anno”.

La “Ineks Hoteli”, infatti, sta per essere privatizzata. Il problema è che non si sa esattamente da chi. Sono in corso due procedure parallele e distinte, una voluta dalla Kosovo Trust Agency (KTA), partita ed interrotta più volte, l'altra iniziata invece dal governo serbo, e di prossima implementazione: tutto dovrebbe passare nelle mani della Javna Skijalista Srbije. Ma le autorità di Pristina potranno mai accettare una privatizzazione fatta da Belgrado, soprattutto dopo aver dichiarato il Kosovo “paese indipendente e sovrano”?

Nel frattempo tutto ristagna e, secondo Boskocevic, “l'80% della popolazione, soprattutto nei villaggi più piccoli, è sulla soglia della povertà estrema”.

La situazione è resa ancora più difficile dalla rottura dei legami con Ferizaj/Urosevac, la città nelle cui fabbriche molte centinaia di serbi di Strpce lavoravano come pendolari fino al 1999. Oggi sono in pochi a scendere in città, soprattutto per fare acquisti nei numerosi centri commerciali sorti alla sua periferia.

Nonostante la mancanza di gravi incidenti negli ultimi anni, la paura resta molta, e il check point del battaglione ucraino della Kfor, anche se quasi inattivo, rimane pur sempre un confine reale e concreto: poco dopo averlo passato iniziano i festoni con su scritto “Auguri per l'indipendenza”, le bandiere albanesi e americane, i monumenti ai caduti dell'Uck, un mondo diverso ed ostile.

La nebbia di incertezza e preoccupazione che aleggia da anni sui serbi di Strpce sembra essersi fatta ancora più fitta e pesante dopo la dichiarazione del 17 febbraio. Qui, a differenza di Mitrovica, la Serbia appare lontana, e la voglia di continuare a sentirsi parte dello stato serbo si scontra, a volte violentemente, con la considerazione che sia semplicemente impossibile far finta di ignorare la situazione sul campo.

“Ai ministri Djelic e Loncar, venuti qui in visita proprio il 17, accompagnati da una folta scorta di polizia del KPS (Kosovo Police Force) ho chiesto: come potete chiederci di ignorare le istituzioni kosovare, se anche voi dovete scendere a patti con loro, per arrivare fin qui?”.

Igor Savic è un giovane giornalista tuttofare, arrivato a Strpce nel '99 dopo essere fuggito da Ferizaj/Urosevac all'ingresso delle truppe Nato. Dopo qualche mese a Nis, dove ha vissuto facendo il cameriere, è voluto tornare in Kosovo, il più vicino possibile a casa sua. “La nostalgia era troppo forte”, dice. Oggi lavora per “Radio Borzani”, fa il corrispondente per “Radio Kosovo i Metohija”, ha una sua casa di produzione video, lavora per il giornale “Glas Juga”.

Secondo Igor la confusione a Strpce è grande, ma riflette soltanto la confusione, ancora più profonda, diffusa sia a livello nazionale che internazionale.

“L'Onu dice che la 1244 è ancora valida, la Kfor afferma di rimanere in Kosovo sulla base della stessa risoluzione, anche la missione Eulex si appella alla 1244. La stessa risoluzione che è stata così facilmente calpestata con la dichiarazione unilaterale di indipendenza di Pristina. Tutti si affannano a cercare giustificazioni, ma nessuno sa bene che pesci prendere”.

A Strpce, sembra regnare un delicato e talvolta ambiguo equilibrio tra desideri e necessità, che scontenta quasi tutti, e viene rappresentato al meglio dall'espressione “In Pristina non abbiamo fiducia, da Belgrado arrivano solo promesse”.

Tutto tende ad essere doppio: ad esempio le macchine portano sia targhe kosovare, indispensabili per poter circolare nel neo-proclamato stato, sia targhe serbe, con le quali si può viaggiare all'interno dell'enclave. Chi ha la targa kosovara, però, non può entrare in Serbia: per farlo deve obbligatoriamente prendere targhe temporanee, pagando due o tremila dinari ogni volta. Anche se si è serbi del Kosovo.

Due banche, la Kasabank e la Raiffeisen, operano all'interno del sistema kosovaro. Alla Komercijalna Banka, invece, tutti i conti possono essere fatti in dinari, visto che fa parte della rete bancaria serba.

A Strpce, poi, anche l'amministrazione è doppia: accanto alle strutture municipali kosovare (che qui tutti continuano a chiamare “dell'Unmik”), sono attive anche quelle serbe. I due comuni sono piazzati uno di fronte all'altro, ai due lati della strada principale che attraversa il paese. Ad aumentare la confusione, i due “sindaci” sono in realtà la stessa persona, naturalmente un serbo.

Anche il capo della KPS è serbo, mentre l'unico giudice distrettuale è albanese, visto che nessun serbo ha voluto fare domanda per il posto da vice. L'ospedale, poi, è gestito dal ministero della Salute di Belgrado, ma ultimamente è visitato da un numero crescente di pazienti albanesi.

Fino ad oggi, nelle strutture municipali “dell'Unimik”, lavorano sia serbi che albanesi “con particolare attenzione all'equilibrio etnico tra i funzionari di alto grado”, come recita l'ultimo rapporto dell'Osce, facendo di Strpce uno dei rari esempi di coabitazione interetnica tra le due comunità.

Adesso, però, i dipendenti serbi non sanno se rimanere ai loro posti oppure no.

“Io non riconosco il Kosovo, uno stato falso sul territorio serbo”, mi dice convinta Spomenka Kojadinovic, addetta alle comunicazioni nell'ufficio per i rifugiati, e rifugiata anche lei, dal 1999. “Col mio stipendio io ci sopravvivo, ma se piazzano sul comune la bandiera del Kosovo indipendente, mi licenzio. Resisterò in qualche modo, tutto questo non ci succede per la prima volta. Anche mia madre, quando era bambina, nel 1943, fu cacciata di casa dagli albanesi, con l'aiuto degli italiani fascisti e dei tedeschi. Eppure alla fine siamo tornati”.

Danijel Milanovic, direttore del Municipal Civil Registration Center, dove lavorano cinque serbi e tre albanesi, non ha ancora deciso cosa fare. Danijel ha 31 anni, una figlia di quattro e mezzo, e uno stipendio di 225 euro. Da lunedì 18, come tutti gli altri funzionari serbi, va in ufficio, ma nessuno lavora. Si aspetta un segnale da Belgrado, che però, per il momento, non arriva.

“Tra noi colleghi c'è rispetto, al di là dell'appartenenza etnica. Io credo che si possa vivere insieme. Da lunedì, però, tutto è cambiato, non ci guardiamo più con gli stessi occhi. I nostri popoli avevano appena cominciato a riabituarsi a vivere insieme, ma adesso la divisione è tornata ad essere totale. Tutta la fiducia costruita in nove anni è stata distrutta in un solo giorno”.

Intanto, in strada, come ogni giorno dal 18 febbraio, una piccola folla manifesta alle 12:44 per ricordare al mondo la risoluzione che, ambiguamente, garantisce al tempo stesso diritto di autodeterminazione e salvaguardia della sovranità territoriale. Qualche bandiera, qualche cartello, ma non c'è l'atmosfera tesa di Mitrovica.

Soprattutto non c'è il “nemico” in vista, dall'altro lato di un ponte, a cui gridare la propria rabbia e mostrare la propria capacità di resistere. E non c'è la Serbia alle tue spalle, ad un tiro di schioppo, a farti sentire più sicuro. La manifestazione scende silenziosa la strada principale fino alla chiesa di Sveti Jovan, alcuni tocchi di campana, poi ognuno torna a casa coi propri dubbi e le proprie incertezze, sperando almeno che ci sia la corrente, che qui manca per ore ed ore ogni giorno.

Oltre ai problemi quotidiani, un'altra minaccia turba i sonni di molti: la crescita incontrollata di un vero e proprio villaggio di “vikendice”, ville per il week-end alla base della montagna, costruite da ricchi albanesi (e, dicono in molti, da mafiosi), secondo standard molto lontani dalla povertà media che caratterizza il Kosovo. Tutti guardano con preoccupazione allo spuntare delle “vikendice” nel cuore stesso dell'enclave, spesso senza alcun permesso, e con la probabile connivenza dell'amministrazione locale. Nessuno, però, ha idea di cosa fare per fermare il fenomeno.

Secondo Igor Savic, le difficoltà dei serbi di Strpce sono acuite dalla mancanza di una leadership locale vera, in grado di progettare sul medio e lungo periodo. “Quasi tutti dipendono da Belgrado e non sono in grado di pensare con la propria testa. Il problema è che quelli di Belgrado non sanno nemmeno dove si trova, Strpce”.

Per Bojan Mladenovic, direttore di “Herc Tv”, emittente locale che copre il Kosovo meridionale e centrale “per tentare di sollevare la nebbia mediatica calata sui serbi del Kosovo”, la passività nei confronti delle autorità di Belgrado ha motivi molto pragmatici e concreti.

“A Strpce più di mille persone vivono lavorando all'interno di strutture pubbliche serbe, mentre solo un centinaio prendono lo stipendio da Pristina. Dal 2000, poi, chi lavora per il governo serbo prende paga doppia. Se un dottore kosovaro prende 200 euro, chi lavora per il sistema sanitario serbo in Kosovo ne prende anche 800.”

“Soldi e sicurezza vengono da Belgrado”, conclude Mladenovic, “finché le cose resteranno così, difficilmente ci sarà qualche cambiamento”.

Se c'è una cosa su cui tutti sembrano d'accordo, a Strpce, è l'opposizione ai piani di divisione del Kosovo. Forse può far comodo a quelli di Mitrovica, si dice da queste parti, oppure può sembrare la soluzione più facile al governo di Belgrado, ma i serbi di Strpce ne avrebbero solo da perdere, restando ancora più isolati e pochi.

“Se si arrivasse alla divisione”, mi dice pensoso Zoran Boskocevic, “credo che andremmo tutti via. La mia unica speranza, allora, sarebbe solo quella di riuscire a partire in modo pacifico, e senza spargimenti di sangue.” Le violenze del marzo 2004 qui pesano ancora come un incubo, e tutti sembrano convinti che nuovi incidenti porterebbero inevitabilmente alla decisione dell'intera comunità di lasciare il Kosovo.

C'è poi chi sembra aver rinunciato anche al lusso di pensare al futuro. Bevo una rakija amara e forte a casa di Milan Janjic. Casa? forse non è la parola più adatta. Da quasi nove anni Milan, 25 anni, laureato in ingegneria meccanica, membro dell'organizzazione giovanile del Partito Democratico, disoccupato, vive con la moglie, sposata l'anno scorso, e la madre in una stanza di nove metri quadri, all'interno del “Junior Klub”, che fino al '99, e a dispetto del nome, era una struttura di villeggiatura per anziani.

Milan è uno dei circa 800 profughi che vivono a Strpce. Vengono soprattutto da Ferizaj/Urosevac e da Prizren. Molti di loro vivono ancora nei centri collettivi, organizzati in quattro alberghi dell'area. Mi guardo intorno, poche cose, un letto matrimoniale rabberciato, un divano, qualche pelouche. La conversazione è fiacca, ed anche io, in realtà, non so bene cosa chiedere.

“Nessun rappresentante delle istituzioni kosovare è mai venuto qui, anche se il ministero per i Ritorni è detenuto da serbi. Qui si vive alla giornata, ed è un miracolo che nessuno sia ancora impazzito, aggredendo gli altri” mi dice Milan, con voce calma e rassegnata. Mi spiega che gli aiuti umanitari dalla Serbia non arrivano da due anni, perché adesso il Kosovo vuole far pagare la dogana su queste forniture.

Poi, mi fa vedere una lettera firmata da tutti i rifugiati dello “Junior Klub”, e consegnata il 17 febbraio a Djelic, con la quale si chiede che gli aiuti finanziari arrivino direttamente alle famiglie, senza passare per l'amministrazione del centro collettivo. “Rubano in grande stile, anche il pane ci arriva più piccolo, perché fanno la cresta sulla farina”.

Uscendo, mi chiedo quale sarà il destino dei serbi di Strpce, se resteranno a vivere nelle loro case, se la loro vita migliorerà o peggiorerà nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Ho paura, però, che Milan e gli altri residenti dello “Junior Klub” resteranno a lungo nella lista dei dimenticati, da tutte le parti.
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