Artan Minarolli (Tirana, 1958), ha studiato arti visive e regia a Tirana, per poi proseguire gli studi presso la scuola di cinematografia della Danimarca. Ha lavorato come attore nel teatro della città di Berat fino al 1986 prima di diventare assistente regista al Kinostudio, il Centro per la Produzione Cinematografica di Tirana, e infine regista. Ha diretto “Per un centimetro” (1994), “100%” (1996), “Plumbi prej plasteline” (“La pallottola d'argilla, 1996”), Chant d'amour (AL/FR/IT, 2004) e “Nata pa hënë” (“The Moonless Night”, AL/FR, 2004)
Quando è entrato nel mondo del cinema, per desiderio oppure per caso?
Ho finito gli studi di recitazione nel 1982. Fare l’attore non era il mio sogno, ma era l’unica possibilità che avevo per andare al Kinostudio, dove potevo fare quello che volevo. Sono stato ispirato da mio zio, regista di teatro. Sin da quando ero al liceo volevo diventare regista, ma di cinema. Mi sembrava un sogno molto lontano, ma vedevo i film come un qualcosa che un giorno avrei potuto fare anch’io. Solo nel 1986, però, ho cominciato a lavorare in questo ruolo, come assistente regista al Kinostudio. In seguito ho fatto anche una scuola per registi, sempre al Kinostudio, e nel 1993 sono stato per un anno in Danimarca, a una scuola europea di cinema.
Cos'è stato il cinema albanese fino al 1990: uno strumento per educare le persone, propaganda, una scuola professionale?
Non credo che il cinema di quel tempo fosse solo ideologia o propaganda. E' vero però che in quel periodo le opere artistiche – non solo il cinema - dovevano percorrere una strada predeterminata. Lo spazio creativo era circoscritto ad un recinto molto ben definito. Quando io sono arrivato al Kinostudio, nel 1986, non si metteva in dubbio quale dovesse essere il messaggio dei nostri film, era una cosa scontata, ed era così ormai da anni. Non si poteva neanche parlare dell’elaborazione di idee nuove, non ce n'era lo spazio.
Come funzionavano la censura e l'autocensura?
Non possiamo parlare propriamente di censura, era la stessa mentalità del tempo a limitare il lavoro di attori e registi. Noi eravamo isolati ermeticamente, e avevamo formato un certo gusto, una certa estetica. Tutte le “nuove” idee stavano dentro alla mentalità del pubblico di quel tempo. Era come una famiglia, le relazioni all'interno della famiglia sono chiare, come comportarsi con il padre, con la madre ecc. Magari non hai la libertà di andartene, di uscire, di essere indipendente, ma non si tratta di censura. E' una cosa che si sa, si conosce. Io non ho mai sentito la parola censura, neanche sottovoce, era un processo che faceva parte della mentalità del tempo.
Quali possibilità aveva di vedere qualcosa di nuovo?
Avevamo difficoltà ad ascoltare i programi delle radio estere, e la tv straniera si vedeva di nascosto. Io seguivo sempre i programi jugoslavi “Kino oko”, erano programmi di alto livello, in cui si facevano anche le analisi dei film. Anche se erano in una lingua slava, per noi più difficile dell’italiano, alla fine ci sforzavamo di capirli.
Esistevano tematiche diverse che dovevate affrontare nel vostro lavoro, e che cambiavano nei diversi periodi?
Certo, esisteva una pianificazione. La societa albanese di quel tempo era molto organizzata, il Kinostudio era un'impresa centralizzata che concentrava tutta la produzione cinematografica. C’era la sezione degli sceneggiati, la sezione dei registi, tutti gli sceneggiatori erano obbligati a produrre uno sceneggiato all’anno. Loro erano diretti da un leader artistico che era in contatto con il direttore generale, e naturalmente anche con il comitato di partito.
L'obiettivo era sempre chiaro, cioè la propaganda e il rafforzamento ideologico delle masse. Poi cominciava il lavoro per creare una cosa credibile, qualcosa di artistico all'interno di questi limiti. Si preferivano le tematiche della guerra, dell’attualità, al centro della quale doveva esserci la “famiglia sana”, il personaggio positivo, cioè un comunista, magari un personaggio che prima aveva commesso un errore e poi il partito lo aiutava a ritornare sulla buona strada. Questo era l’eroe del film, secondo le regole del realismo socialista, dove il personaggio positivo trionfa sempre e c'è una fine felice.
Negli anni '80, quando lei ha cominciato a lavorare, quali erano i temi più trattati?
Negli anni '80 si preferivano i temi sociali, il tema della guerra cominciava già ad essere trascurato.
Perche?
Era già trascorso molto tempo dal periodo della guerra. Le generazioni più giovani avevano già cominciato a ridicolizzare quel periodo, i personaggi di quel tempo, i partigiani, le loro battute facevano parte di una retorica ormai fuori moda. I giovani non capivano più quel tempo, il tempo della guerra, così come adesso la nuova generazione non capisce il tempo della dittatura. Tante cose sembrano inconcepibili.
Quale modello seguiva la cinematografia albanese?
La cinematografia albanese era un prolungamento del cinema dell’est. Quelli che avevano creato il Kinostudio si erano tutti formati a Mosca, Praga, Budapest. Oggi, invece, conosciamo anche il metodo occidentale. Non abbiamo incontrato difficoltà, sorprese, dal punto di vista professionale e dell’organizzazione di un film. La sostanza è rimasta la stessa, solo che in quel periodo era lo Stato a produrre i film mentre adesso, con l'ingresso dei privati, c’è una frammentazione della produzione. In quel tempo lo Stato organizzava tutto, era difficile capire che costo avesse un film perché dappertutto c'era lo Stato, ed ognuno lavorava secondo una paga prefissata. Tutto il materiale necessario per il film si produceva al Kinostudio. Tutto si faceva in base agli ordini che provenivano dalle alte sfere. Io sono stato al Moscow Film, era una sorta di Kinostudio molto più grande. Quello era il nostro esempio. Anche il primo film albanese del resto, “Skenderbeu”, era una coproduzione albanese-russa.
Alcuni autori sostengono che il nostro cinema sia stato influenzato dal neorealismo italiano, lei è d'accordo?
Il cinema italiano ci piaceva molto, siamo vicini, anche come caratteri, e il neorealismo presentava un'Italia distrutta dalla guerra in cui ci potevamo riconoscere. C'erano dei grossi nomi, sui quali si discuteva molto. Io però non vedo una visione comune, o una maniera consapevole di seguire il neorealismo. Del resto, quando il neorealismo italiano era al suo apice, il cinema albanese stava muovendo i primissimi passi, si è consolidato solo negli anni '70, quando il neorealismo non era più di moda. Poi nel cinema albanese si è affermato lo schema dell'uomo nuovo, il realismo socialista, e soprattutto non c'era lo spazio di libertà conosciuto dal neorealismo italiano. Il neorealismo italiano lasciava trasparire una grande libertà, gli autori vivevano in una democrazia, il loro lavoro poteva essere criticato, ma loro potevano continuare. Questa era la differenza essenziale.
Esisteva un carattere nazionale del cinema albanese durante la dittatura?
Se si guardano quei film oggi, paragonati a quelli che si facevano in quei tempi, si nota una forte dose di ingenuità. Non potendo conoscere il mondo esterno i problemi si trattavano in maniera molto ingenua, fuori dalla logica delle cose. Alla fine degli anni '80 Kusturica ha fatto “Papà è in viaggio d'affari”. Anche loro erano ancora comunisti, non come noi certo, era un sistema più liberale, però se prendiamo ad esempio quel film è impossibile paragonarlo con quello che facevamo noi nello stesso periodo. Noi eravamo molto indietro, anche nella volontà di osare, di fare delle scelte. Forse il problema non era neppure quello dell'osare, quanto quello di non capire la verità, avevamo una verità stereotipata.
Questa ingenuità è sopravvissuta dopo il '90?
Sì, resiste, anche nel mio cinema.
In che senso?
Spesso lo sviluppo dei nostri film è ancora molto orizzontale, anche se i personaggi, se paragonati con quelli di ieri, sono più credibili. Sopravvive l'intento narrativo visto come fiaba, come un raccontare qualcosa ai bambini, non c’è ancora un vero approfondimento dei personaggi.
Cos’è accaduto al cinema albanese dopo il '90?
Gli autori giovani vogliono essere coinvolti nella scena internazionale, ma un serio ostacolo oggi sono i finanziamenti. Ogni progetto si basa sulle produzioni private, il Centro può aiutare ma fino ad ora non è andato oltre i due film all’anno.
Quanto costa un film?
Un film è come le bretelle, più le tiri e più si allargano. Quindi più soldi trovi e meglio è. Esiste un livello minimo. Un film è un'impresa collettiva, ma da noi la gente non ha il senso della programmazione. Inoltre in Albania spesso i contratti non vengono rispettati. Un giorno di lavoro oggi costa intorno ai 4.000 euro, se perdi un giorno di lavoro puoi immaginare le conseguenze.
Quanto è difficile oggi fare il regista?
Una volta il regista era un “re” da un punto di vista sociale, una persona molto importante. Anche perchè in quel tempo il cinema era il solo spazio dove potevi svolgere un’attività artistica visuale, non c’erano le televisioni. A quel tempo l’unico regista era quello che lavorava al Kinostudio, oggi ci sono registi dappertutto. Inoltre il regista aveva anche sostegno politico, amministrativo, lavorava in un posto che aiutava il partito nella propaganda, indirettamente era al servizio dell’ideologia. Oggi invece, nell'economia di mercato, la parola “regista” non ha più quel significato, non ha un valore. Il valore di questa professione sta tutto nel successo che può avere il tuo film, le cose sono molto più concrete.
Molti ritengono che il cinema albanese attuale subisca l'influenza di Kusturica, che venga usato sempre l’elemento dell’assurdo per mostrare la realtà del paese. E' così?
Kusturica è arrivato all’apice di uno stile che non è stato inventato da lui, e ha saputo molto bene come gestire i suoi film in Occidente. Oggi è l'autore che rappresenta questo stile, che non è un cinema dell’assurdo quanto piuttosto un cinema che utilizza la caricatura per descrivere la realtà e i personaggi. Il cinema albanese, dopo il '90, non ha saputo gestire bene il tesoro che aveva a disposizione, cioè la realtà locale. Non direi che è influenzato da Kusturica, l’associazione con Kusturica viene fatta perché c'è un territorio in comune, quello balcanico, e anche gli stranieri spesso fanno coproduzioni con i registi albanesi sperando di trovare il successo come è accaduto con Kusturica. Ma noi non abbiamo ancora un profilo albanese del cinema, non si è ancora creata una fisionomia che possiamo definire come “albanese”.
Come regista, quali sono i temi che lei sceglierebbe per un pubblico straniero?
Ho in progetto un film sulla vendetta, che è una problematica tipica del nostro paese, anche se ha la tendenza a rimanere nascosta. Il cinema deve però confrontarsi con la politica, che cerca di abbellire la realtà per il pubblico straniero. La verità non piace alla politica, io ho ottenuto diversi premi nei festival stranieri ma per esempio l’ambasciatore albanese non era contento perché il film – secondo lui - dava un immagine non molto bella del paese. Io ho un altra filosofia. Rossellini diceva che “l’Italia è stata fatta da noi che l’abbiamo criticata severamente, e non dai politici”. Questa è la coscienza di chi si guarda allo specchio senza timore.
Perché oggi il pubblico continua a guardare i film vecchi, prodotti durante il periodo comunista?
Rappresentano un periodo della loro vita. Non è tanto la nostalgia per il cinema, quanto la nostalgia per te stesso. La nostalgia non ha a che fare con il valore di un film. E' come quando qualcuno va in un posto dove ha fatto il servizio militare, ricorda le strade, il tempo, il tempo della sua giovinezza, fa parte del suo corpo, non può essere altrimenti.
Secondo alcuni le televisioni cercano di colmare il vuoto attuale di valori riproponendo i vecchi film, è così?
Le TV sono commerciali, trasmettono i programmi di cui la gente ha fame. Sanno che esiste questa tendenza, soprattutto nella vecchia generazione, e la assecondano.
Qual è il futuro del cinema albanese?
Secondo me il futuro sta nella coproduzione con gli stranieri. Quando un film è il risultato di una coproduzione, allora sei più sicuro che quel film avrà un futuro anche nel mercato straniero. Un film è come una persona, nasce quando finiscono le riprese e poi continua a vivere tramite i festival, le vendite, i cinema, e i produttori stranieri sanno meglio come introdurlo nei diversi mercati.