Quattro passi a Tirana
26.06.2008
scrive Rando Devole
Tirana - edilizia urbana (L. Zanoni)
Spazio pubblico e spazio privato. Il secondo sopravanza sul primo, divorando bocconi di libertà e di identità. La dimensione collettiva viene sopraffatta dalla mentalità del traffico e del privato. Riflessione sociologica sull’urbanistica di Tirana
Lo spazio pubblico, dal punto di vista urbanistico, è innanzi tutto un luogo fisico, relativamente facile da identificare. Un po’ più difficile si presenta l’individuazione dei criteri che distinguono lo spazio pubblico da quello in cui il pubblico può interagire in condizioni stabilite. Comunque sia, lo spazio pubblico di Tirana, la capitale dell’Albania, ha subito trasformazioni radicali negli ultimi anni.
Durante il regime totalitario, lo spazio pubblico della capitale albanese aveva creato una sua fisionomia. Le piazze, le strade, i parchi, le stazioni, le biblioteche, cioè tutti gli spazi dove la gente poteva muoversi liberamente, dove aveva una certa identità, naturalmente nell’ambito della filosofia urbanistica e architettonica di quel periodo.
Non è difficile per nessuno, tanto meno per i tiranesi, capire che lo spazio pubblico di Tirana è venuto a ridursi negli ultimi anni. Il primo motivo riguarda la sua “occupazione” da parte dello spazio privato. Il caso più emblematico è rappresentato dal parco “Rinia” (al centro di Tirana), che durante gli anni Novanta si è trasformato in un campo di battaglia tra i due spazi. Agli occhi dei tiranesi storditi, il parco è stato barbaramente sbranato dal branco degli interessi privati, che lo hanno imbottito di bar, pub e ristoranti di qualunque tipo, dove non si commerciava solo birra, raki e ozio.
Il recupero del parco “Rinia” (“Gioventù” in italiano) è indubbiamente una grande vittoria, ma una vittoria solitaria; sarebbe da acclamare di generazione in generazione, se non avesse avuto una specie di effetto anestetizzante nei confronti delle reazioni legittime contro l’agonia dello spazio pubblico nella sua interezza. Il Parco viene offerto come un esempio trionfante (solitamente nel campo politico) della “vittoria” della città contro la privatizzazione brutale, scambiando fatalmente la battaglia con la lotta.
D’altro canto, bisogna tenere presente che lo spazio pubblico viene definito anche dal suo utilizzo. Ad esempio, se un parco o una piazza è perennemente chiuso/a, non può chiamarsi spazio pubblico. In questo senso lo spazio pubblico, durante gli anni della democrazia, ha subito mutilazioni costanti. Per ragioni obiettive (l’incremento del numero delle auto), urbanistiche (i marciapiedi spariscono oppure si riducono), ma anche soggettive (l’aumento dell’uso delle macchine).
Blloku, il famoso quartiere della dirigenza comunista, ha una storia inversa. Da spazio severamente privato – allora sorvegliato dalla Guardia della Repubblica – è diventato uno spazio pubblico molto frequentato. Solo che in questo caso, lo spazio pubblico deve affrontare il caos, il traffico, le costruzioni, le ristrutturazioni, ecc. Da notare che al Blloku manca un parco pubblico tutto suo, poiché così era concepito inizialmente, con parchi “privati” intorno alle ville sorvegliate dai soldati col kalashnikov in mano. Lo stesso Blloku era una specie di parco privato, nelle cui vie alberate passeggiavano indisturbati i membri del Politburo albanese. In altre parole, adesso ci ritroviamo con uno spazio pubblico troncato, più adattato che concepito conformemente al suo scopo.
Se lo spazio pubblico di allora aveva elementi essenzialmente ideologici, dove anche il vuoto abnorme aveva la propria funzione totalitaria, attualmente non esiste una cosa simile, sebbene si possa dire che l’ideologia non è rimasta fuori dalla porta. Le mancano l’omogeneità, la compattezza – forse grazie alla sua nebulosità che non si è ancora materializzata –, ma gli elementi ideologici del passato convivono ancora con i più recenti. La stessa idea della parata è sopravvissuta: ieri in piedi davanti alla tribuna rossa, oggi in auto davanti alle vetrine sfavillanti. Il problema è che la mentalità dell’auto sta agli antipodi dello spazio pubblico. In auto si coltiva l’individualismo ripiegato nel proprio guscio metallico, poiché la carrozzeria, luccicante o graffiata che sia, da auto lussuosa o da utilitaria, in realtà fa le veci del muro divisorio per quanto riguarda i rapporti umani. Inoltre, chi concepisce la macchina come le scarpe, prima o poi, vedrà negli alberi e negli spazi pubblici, semplici intralci al suo cammino solitario.
L’urbanistica degli anni post totalitari ha dovuto affrontare la pressione di un capitalismo feroce e senza regole, che ha trovato nell’edilizia l’ariete per abbattere le porte dello spazio pubblico. Il fabbisogno abitativo è stato talmente forte, da non concedere all’architettura il tempo necessario per elaborare qualche tipo di identità, oscillando come un pendolo dal kitsch all’eclettismo. La periferia è stata sfruttata e si sta sfruttando fino all’ultimo centimetro con costruzioni abusive e regolari. Lo spazio pubblico è assolutamente sconosciuto da quelle parti, quando non è invaso da fango, mattoni e calcestruzzo. Gli abitanti della periferia hanno conosciuto questo tipo di spazio solo quando è stato sbattuto sulle prime pagine dei giornali, come nel caso della rotatoria “Zogu i Zi”. Ecco l’altra funzione dello spazio pubblico: trasformarsi in ring dove si scontrano e si allenano i poteri politici.
Il parco del “Lago Artificiale” è un altro spazio pubblico di eccezionale valenza simbolica. Metro dopo metro, boccone dopo boccone, il privato lo sta divorando gradualmente. Addirittura, la parte sopravvissuta miracolosamente, deve la sua vita al servizio che offre al business privato dal punto di vista estetico. Dunque, abbiamo lo spazio pubblico in funzione del privato e non il contrario, cioè il business privato al servizio dello spazio pubblico.
La stazione ferroviaria non ha mai significato per i tiranesi ciò che ha significato Termini per i romani, oppure Atocha per i madrileni. Tuttavia, specialmente durante l’estate, ha avuto un certo significato per quelli che andavano al mare, o per i residenti di altre città che raggiungevano la capitale in occasione di feste familiari o semplicemente per risolvere qualche problema. Attualmente, nemmeno l’embrione dell’allora stazione esiste più, poiché il sistema ferroviario albanese è stato condannato a morte dalle recenti politiche che hanno privilegiato il trasporto su gomma.
Uno strano destino si sta prospettando per una città che è nata e si è sviluppata per tanti anni con l’idea dello spazio pubblico, condizionato sì temporaneamente dall’ideologia, ma lontano dalla mentalità del traffico e del privato come sopraffazione della dimensione collettiva. Tuttavia, in quanto tiranese, continuo a sognare nella mia città spazi pubblici a dimensione umana, così come persisto ad immaginarmi in lunghe passeggiate per le strade ed i marciapiedi. Non solo al centro, ma anche in periferia. Camminare senza stancarsi, possibilmente circondato dal verde, per poi dire alla fine: “Facciamo altri quattro passi?”. Magari da solo, tra me e me.