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mercoledì 07 settembre 2022 14:28

 

Bocca, occhi, orecchie

01.08.2008    scrive Davide Sighele
Michael studia l'Indoeuropeo, Gianni è arbresh e insegna albanese presso l'Università della Calabria, Monica è stata la prima in Italia ad ottenere un dottorato in albanologia. Un gruppo di linguisti e un viaggio in Albania tra parole, cime maestose e luoghi ai margini. Un reportage
Il reportage verrà pubblicato in un libro dedicato al nord dell'Abania che uscirà nel gennaio 2009 edito dalla casa editrice Kovać di Amburgo


Fotoreportage di Andrea Pandini


Mal di mare

Monica soffre il mare. Guarda fissa fuori da finestrini velati di salsedine. Poi un sorriso scappa al viso concentrato a sopportare ore di attraversata. Ormai non si è lontani dalla costa montenegrina. Bari-Bar, una vocale in meno e l'Adriatico quasi attraversato.

Monica ha lavorato più di un anno ad una spedizione di studiosi di linguistica nel nord dell'Albania, nelle vallate a nord-est di Scutari, per documentare alcune parlate locali. Ora è emozionata, finalmente la partenza. “Michael sta lavorando ad un dizionario etimologico del latino e in questi anni ha seguito percorsi di ricerca sull'indoeuropeo presso l'Università di Leiden, in Olanda. Poi ci raggiungeranno Ioachim e Stefan che presso la loro università a Vienna lavorano su alcune forme verbali nell'antico albanese. Ci saranno anche Genc, lettore di lingua albanese presso l'Università di Lecce, Donato, che sta studiando la legge tradizionale del Kanun ed ha bisogno di alcuni contatti e infine Gianni Beluscio, un collega dell'Università della Calabria”, racconta con un accento marcatamente veneto.

E' un cortocircuito interessante il suo, tra nord e sud: ha studiato lingua e letteratura albanese presso l'Università di Padova, poi degli anni presso l'Università di Monaco, in Calabria per il primo dottorato di ricerca assegnato in Italia su studi di albanologia e infine l'approdo all'Università di Lecce, dove insegna lingua e letteratura albanese.

Da Bar, in Montenegro, a Scutari la strada si inerpica a mezza collina. La notte ha l'odore caldo dell'estate. Al confine un'ora in attesa. L'autista del taxi ha erroneamente scambiato poco prima il suo passaporto con quello di un cliente. Un po' di contrattazione, si chiarisce l'equivoco. Qui Schengen e la frontiera esterna dell'Europa sono ancora lontane. E i confini restano permeabili, tollerano gli errori e le foto diverse sul passaporto. Al tassinaro torna il sorriso, dopo che aveva aspettato per ore a Bar il ritardo del traghetto. Scherza e ci lascia in una Scutari al buio. Pesto. Poi mezz'ora di canto del generatore. Per lavarsi i denti e trovare i letti.

Torrenti

Le alpi albanesi - foto di Andrea Pandini
“La lingua è come un torrente, scende, fa delle deviazioni. Non c'è alcun regime che possa controllarla. Per questo nonostante anni di marginalità adesso possiamo tornare ad usare il nostro amato ghego”. La voce di Ana Luka è carica e piena. E' a Scutari per qualche settimana, vive però a Roma dove lavora per la Radio Vaticana. David, il fratello, è un importante linguista ma quest'ultima è una passione familiare: “Sono stata anch'io vent'anni fa tra le montagne, ho registrato canti popolari. Io e un'amica, accompagnati da alcuni studenti. Quando vado in pensione mi metto a riordinare tutto. Ma quelle montagne ... maestose, bellissime”.

A Scutari, presso la Fototeca Marrubi – dal nome di Pietro Marrubi, italiano trasferitosi nel 1858 a Scutari dove aprì il primo atelier fotografico in Albania - una foto scattata all'interno di una drogheria. Gli scaffali generosi e carichi come la voce di Ana. Un bancone e davanti a quest'ultimo un uomo in grembiule bianco, con lo sguardo fisso all'obiettivo. E' il nonno di Ana e David. “La mia era una famiglia borghese, e per questo non eravamo visti bene dal regime. In più eravamo cattolici e testardi: non abbiamo rinunciato alla nostra fede”, racconta lei. Ana dopo un po' ha deciso di andarsene e partire per l'Italia. David, il fratello, è rimasto, mandato a insegnare nei paesini di montagna. E poi scriveva libri, che non venivano pubblicati. “Ma io li scrivevo ugualmente”, racconta immerso in una poltrona. Poi si alza a fatica, appoggiandosi ad un bastone entra nel suo studio. Ne esce con una pila di libri, orgoglioso, li firma tutti per regalarli ai colleghi. Le edizioni sono recenti. Poi s'avvicina a Genc, gli sussurra di porgere i suoi saluti al padre, anche lui docente di linguistica. E di essere ormai stanco.

Parallelepipedi ampi e schedari a mano. Poi bacheche e scaffali. Ampie vetrate a dare l'illusione dell'apertura verso l'esterno. Ma l'edificio è cemento che cova calura. Il direttore della biblioteca di Scutari continua ad asciugarsi il viso con un fazzoletto. Ha preparato su un ampio tavolo libri antichi. Monica e Gianni s'avvicinano, iniziano a sfogliare, delicatamente. E poi s'avvicinano sempre più, scattando foto. “Questa è la ''Dottrina cristiana'' di Pjetër Budi
, pubblicata nel 1664, unica”, “Questo il libro su Skanderberg scritto da Biemi, difficilissimo da trovare”. Gli occhi da bambini. Il direttore guarda compiaciuto. “Abbiamo fatto un'indagine sugli archivi personali dei cittadini qui a Scutari, in modo da individuare volumi che hanno un certo valore”.

Ad una domanda sull'uso del tosco, variante albanese divenuta lingua ufficiale nel 1974 e del ghego, varietà locale, sorride. E' giusto che in una biblioteca si utilizzi la lingua ufficiale, ma a me piace anche moltissimo scrivere in ghego. E' la risposta diplomatica del nord dell'Albania, l'area più povera del paese, a maggioranza cattolica, che con l'adozione del tosco si era ritrovata ancor più lontana dalla capitale Tirana. Ma caduto il regime è lecito – ma non facile - rimettere le cose in discussione.

Fuori dalla biblioteca la luce riempie gli spazi e brucia i colori. Ben e Lin, i due autisti, ci aspettano con i fuoristrada. Partiamo per le montagne. Dai finestrini la città, le convulsioni di traffico del centro che si incrocia ai passi e alle ruote di biciclette. Ed il cemento che cresce. Poi i piani sempre più bassi delle periferie sino alle case rade della piana secca a nord di Scutari.

Plastica e dolomia

Colori acidi di fiori finti sul bordo dello sterrato. Una lapide e poi giù, il dirupo. Ben rallenta, si china sulla radio e spegne la musica. La sua mano resta lì, qualche secondo dopo la fa ripartire. E' il suo segno di rispetto nei confronti delle decine di incidenti mortali che avvengono lungo la strada che porta da Scutari sino alla vallata di Thethi, nella Alpi albanesi. Un centinaio di chilometri che si percorrono in 4-5 ore.

I primi chilometri in pianura verso il profilo di montagne brulle. Poi si inizia a salire, alle spalle il lago di Scutari, con tutta la sua umidità e il mare. La luce forte, rocce e l'essenzialità dei melograni. Frutto che attende sino all'ultimo per concedersi e divenire dolce, scorza spaccata in due dal rosso fuoco. Una mezz'ora di visioni nell'arsura e poi si passa la linea frangiflutti, il Mediterraneo irrimediabilmente lontano e il verde ombroso degli abeti. “Il prossimo giro lo potremmo fare assieme a dei paleobotanici”, dice Monica “qui da queste parti c'è una radicata tradizione di raccolta di erbe medicinali ed è molto interessante anche per noi linguisti verificare quanto della terminologia specifica legata alle singole piante sia rimasta nella parlata locale”.

Paleobotanici. E' affascinante immergersi in questi orizzonti specifici ma non ristretti. E guardare ad un Paese dalla travagliata immagine in Italia - incastrato dai cliché e dall'ottica di aiuti umanitari – attraverso gli occhi di chi vi si è avvicinato e lo ama per altro. Le piante, le parole.

Qualche decina di chilometri fuori dalla città sparisce l'asfalto, poco dopo aver passato il segno tra la pianura e le montagne che iniziano a salire. Non si vedono edifici scolastici, presidi medici, negozi. E poi in inverno metri di neve. E' la cifra di questi posti, isolati, duri, chiusi e per questo preservati. Anche le case che hanno subito una recente ristrutturazione seguono i canoni tradizionali. Ben, originario della Vallata di Thethi, racconta che nessuno vende terreni a quelli che vengono da fuori. Per ora.

Siamo lontani da una Tirana dove le facciate colorate dal sindaco artista sono carta velina con cui coprire ossature di cemento armato che stanno soffocando la città. Ma è una società chiusa questa, dove l'ospitalità delle famiglie del luogo è preziosa, generosa, ma è essenziale lasciapassare. Il Kanun, il codice tradizionale, viene ancora applicato seppur contaminato, imbastardito, fiaccato e distorto da figli e nipoti che se ne vanno. Giù in città, a Scutari, oppure all'estero. E ritornano solo per le ferie estive.

Arriviamo a Thethi. Dormiamo in una sorta di residence tra i faggi ed i pini, l'erba verde. Le strutture sono accoglienti anche se gli spazi interni custodiscono un lieve rimbombo. Coltivato in mesi di chiusura. E non basta l'aria fresca, di qualche settimana estiva, a portarselo via. Alle spalle una corona di cime. Nelle ultime zone dove la copertura del cellulare regge, prima di scendere in valle, partono degli SMS con fotografie verso l'Italia. Dove siamo? Val di Fassa. Sbagliato.

La mattina presto Gianni è seduto su una panca di legno di betulla, sul tavolo di fronte a lui una tazzina di caffè turco, poco distante il registratore digitale e il microfono. La luce è ambra, di spalle il proprietario di casa e il fumo della sua sigaretta nitido tra i primi raggi obliqui. Gianni conversa con lui, o meglio annuisce, invita con gli occhi e quando proprio deve chiede. E' l'altro che vuole ascoltare, sono i suoi di suoni e parole che desidera. “Quarant'anni fa qui nevicava fino a due metri, ma l'ospedale c'era, anche la scuola superiore, si trovava sulla sponda del fiume laggiù. Ora con l'avvento della democrazia tutto si è svuotato”. E poi l'oroscopo, i fondi del caffè, l'epopea della nazione albanese. “Come si dice da voi ricco?” “Pasanik”. “E ricco sfondato?” “Non si dice da queste parti, perché è ricco sfondato chi ha rubato, e prima o poi la pagherà”. D'altronde con tutta questa neve, quassù, impossibile accumulare.

Gianni porta la gente a conversare ma cerca di non influenzarli con il suo albanese standard. Il suo primo fragile ponte gettato verso chi incontra è l'essere arbresh. Ma poi lo puntella con calore umano e occhi attenti. “Ho preferito lasciarlo parlare, di quello che voleva, non ho utilizzato nessun formulario, poi a casa vedremo e studieremo il materiale raccolto”.

Il figlio del proprietario di casa è sui vent'anni. Vive a Londra ed è tornato con la ragazza – conosciuta lì ma originaria della Sardegna - per alcune settimane di vacanza. Intanto aiuta il padre e la madre a seguire gli ospiti. Inglese perfetto, modi gentili e raffinati. La sera alcune partite a biliardo, con lui anche il cugino, che lavora a Milano e quassù è arrivato con la famiglia e un FIAT Doblò con adesivo di Valentino Rossi. 47. Tra stecche, gesso e traiettorie si testano i limiti con alcune battute. Il giovane si prepara ad essere padrone di casa, una questione di territorio.

Guerrieri e cipolle

Siamo accoccolati sotto alcuni roveri, in un punto leggermente rialzato sulla valle di Thethi. Più sotto il fondovalle, campi di granoturco, case isolate una dall'altra e poi il corso di un torrente a volte disteso in un letto di ciottoli a volte frastagliato e precipitoso in gole carsiche.

Un anziano sente le nostre voci e scende da un sentiero che porta ancora più in alto. Lin, una delle nostre guide, lo conosce, si salutano. Si siede anche lui all'ombra. Michael e Gianni gli s'avvicinano con i registratori. “Lei è di qui?” “Si di qui, e questo è il miglior posto al mondo, qui gli anziani campano 110 anni!”. Gianni progressivamente fa continuare la conversazione a Lin perché interagisca con l'anziano nella parlata tipica della zona. “Spesso è meglio registrare conversazioni fatte da altri. Io rischio di influenzare la parlata dell'informatore. Se invece qualcuno interloquisce in dialetto lui si sentirà più libero di parlare come preferisce”. La conversazione fluisce, poi gli occhi dell'anziano si velano, la voce si increspa. E Lin cambia rapidamente argomento. L'anziano è un inchiodato. Non abbandona casa sua e gli immediati paraggi da anni. In passato ha ucciso una persona, per vendetta gli hanno ammazzato il figlio. E la faida è ancora in atto.

Poi ci invita a casa sua, ad ascoltare alcuni canti eseguiti con la lahuta, uno strumento a corde tipico dell'area. La facciata della casa è su un pendio coltivato, dietro, dove è situato l'ingresso, un pianoro in terra battuta, una panca e un pergolato. Il nostro ospite insiste per farci entrare, porte piccole e stanze dagli occhi quasi chiusi, in penombra. Non ci stiamo tutti, ci ritroviamo a muoverci in punta di piedi in questo mondo povero e antico.

Intanto l'anziano sbraita e chiama a voce grossa la moglie. Lei sbuca da dietro la casa, una gerla di cipolle sulla schiena. Guarda un attimo gli ospiti, ma non si trattiene: “E che hai da urlare? Guarda che ti sento ugualmente. Eh che sarà mai, solo per farti vedere importante”. “La fatica non è lavorare nei campi, è sopportare quello lì”. La veemenza del marito è palcoscenico, è lei che regge il peso della loro esistenza. Si siede al fianco del marito, sui tre gradini d'ingresso della casa, non prima di avergli rassettato delicatamente la camicia.

Gira un bicchiere di grappa dal quale tutti beviamo un sorso e l'anziano inizia a suonare. Le melodie sono antiche e gli occhi del musicista spesso rivolti al cielo. Tutt'attorno telecamerine, registratori digitali e macchine fotografiche. Ma non sembra una presenza invadente. Forse perché tutti conoscono l'albanese e possono scambiare qualche parola con i padroni di casa. Intanto la moglie è in una posizione quasi accoccolata. Le mani intrise di terra a stringere le ginocchia. E gli occhi ogni tanto al marito.

Uomini valorosi questa terra ha generato
Intrepidi guerrieri come Skanderbeg
A Fushe-Kruje nella casa dei Kastrioti
In fasce il prode hanno esiliato
...

San Giovanni Decollato

E' una discesa di nuovo verso la pianura, non costante ma a grandi gradoni glaciali. I pianori sono valli sassose, con chiazze di verde intenso degli orti di qualche manciata di case. “L'elemento che mi affascina di più di questi paesaggi è che non vi è nessuna zona intermedia, come in Italia o Francia. Si passa bruscamente dalla montagna alla pianura. E sono due mondi separati”, racconta Michael, fisico longilineo, atteggiamento compassato e attento. Il suo è un italiano dalla terminologia ricca, con una vaga sfumatura spagnola. Fin da piccolo il suo interesse erano le lingue, fin dalle vacanze con i suoi genitori all'estero. E ora il suo è un costante viaggio nelle parole di oggi e di ieri, alla scoperta della loro comune origine. “Mamma, majka in serbo, Mother in inglese, mater in latino, è la stessa parola, e si trova in lingue diverse. E di queste parole che hanno in sé la storia di almeno parte dell'umanità ce ne sono molte”. Michael studia l'indoeuropeo e la lingua albanese in questo senso è molto rilevante rappresentando un ceppo a se stante nell'ambito di questa famiglia linguistica.

Di nuovo l'arsura della pianura. Sotto il sole girano su uno spiedo nel piazzale di una ristorante due agnelli. Gli incavi degli occhi, allucinati in un corpo scuoiato, e sotto le braci. Gianni conversa con la moglie al telefono. In arbresh. Ben e Lin, gli autisti, ascoltano incuriositi, per una volta sono loro a fare osservazioni linguistiche. Poi le rassicurazioni, in italiano: “Non preoccuparti, qui va tutto bene, oggi siamo a Hoti, andiamo alla Festa di San Giovanni Decollato e domani ritorniamo su in montagna, a Vermosh”.

Hoti è un villaggio di scatole basse ad un piano. Ogni estate vi si tiene una festa dedicata al santo protettore del paese. La gente arriva solo quando il sole basso permette colori pastello che progressivamente si asciugano in azzurri, grigi e viola. Un ampio piazzale di ghiaia, di fronte ad una piccola scatola di cemento che è il municipio, un lungo susseguirsi di macchine e furgoni da cui escono tacchi alti, vestiti molto curati, occhiali da sole e giovani in tiro. Ma vi sono anche persone più anziane con spalle che si coprono, maniche delle camicie lunghe e vestiti di quelli per il giorno di festa. Poi un palco e musica tradizionale pompata da tastiere elettroniche e basi pre-registrate. Un cameraman di una tv locale riprende la cantante, le si avvicina e allontana. Occhio fisso nel mirino: ancheggia anche lui, è lei il suo mondo.

”Ancora una volta ti supplico,
non separarti da me.
Avrei preferito non averti,
ogni notte il mio povero cuore
vorrebbe scoppiare”

Dalla parte opposta del palco, oltre la strada, l'entrata della chiesa. “Non è sempre stata qui” racconta il capovillaggio “prima era in collina ed è stata distrutta durante gli anni del regime comunista. Poi con l'avvento delle democrazia è rientrato un cittadino originario di Hoti che era fuggito in America. E con lui fondi e donazioni. Ed è stata ricostruita quaggiù in paese”.

Sul muretto che divide lo spiazzo su cui s'affaccia la chiesa e il cimitero sta seduta Marta. Pantaloni bianchi e maglietta nera. Marta è di Hoti, ma vive da molti anni a Lecce dove collabora con l'Università. E' qui per le vacanze estive. Conversa con alcune suore, i colori invertiti: tunica scura con qualche elemento di bianco. Sono giovani anche loro, come Marta. Una di loro si stacca dal gruppo, a balzelli giocosi si nasconde dietro ad una statua di San Giovanni Battista. Il bastone a croce puntato verso il cielo, un'anziana vestita di nero che contempla il suo biancore e dietro la suora accucciata. Tutt'attorno i bambini che la cercano.

“Questa festa è un'occasione di incontro e in questo periodo ci sono anche molti di quelli che solitamente stanno all'estero”, racconta Marta. “Di fatto qui si viene anche per cercar marito e moglie”, aggiunge con un lieve distacco.

Qualche ora di festa e musica e poi con il buio tutti ritornano a casa. La coda di macchine s'inverte e diviene un alternarsi di luci bianche e rosse. Gli alberi sono sagome che scorrono dai finestrini, dita protese verso le montagne. I profili più bui del buio. Sui lati della strada molti tornano a casa a piedi, con i loro vestiti da sposi.

Giovane moglie

Nella vallata di Vermosh, estremo nord dell'Albania, gli alberi di prugne sono carichi, un rosso acerbo che si staglia con tonde simmetrie sul cielo. Il paesaggio è curato, l'erba all'interno dei recinti delle case bassa, brucata da mucche e pecore lasciate liberamente pascolare.

Dormiamo in una casa ristrutturata con cura e adibita ad ospitare chi passa nella vallata. Tra questi c'è spesso anche un prete italiano, un missionario di Padova. Tutta quest'area è la sua diocesi. I padroni di casa dormono altrove, ci accoglie un uomo stempiato di poco oltre la quarantina, i modi gentili e timidi. Con lui una ragazza che non avrà ancora vent'anni. E' vestita di nero, si muove rapida, da una porta all'altra. Poi fuori a raccogliere i panni stesi. Il suo viso bambino, la pelle diafana. Poche parole. Giovane moglie di un vedovo.

Vermosh è una vallata assediata dal confine. L'attraversa, la costeggia, la percorre. Una striscia d'Albania e poi tutt'intorno quella che qui ancora tutti chiamano Jugoslavia, ma che ora è Montenegro. Una delle ultime case, in cima alla valle, è vicina a quella che era una caserma. Alla sua entrata un piccolo bunker, retaggio claustrofobico di un regime che si sentiva assediato. E poi il succedersi dolce delle pannocchie, il sovrapporsi delle creste e il ritmo cadenzato di una girandola che distribuisce spruzzi all'orizzonte.

Sulla facciata principale della caserma una scritta “Marksizëm-leninizmi”. Il proprietario della casa sottostante si muove con agilità, supera con poche mosse uno steccato, ci mostra il confine. Genc conferma, osserva, chiede dettagli con la stessa attenzione con cui aveva studiato nei giorni precedenti sulle cartine i nostri percorsi. Poi progetta nelle settimane successive di arrivare sino a qui dal mare, attraverso il Montenegro e di perlustrare l'intera area. La sua curiosità da viaggiatore è meticolosa, come il suo modo di lavorare. Studioso di linguistica e traduttore, ad esempio è a sua firma la traduzione in albanese di “La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea” di Umberto Eco. Il tutto è però condito da una giullaresca voglia di vivere. La perlustrazione del confine avverrà con il suo fido Aquilante, una vecchia Fiat Uno, trovatasi con il nome di un equino a causa della sfrenata passione di Genc per “L'Armata Brancaleone” e tutto il cinema italiano degli anni '70, che conosce quasi a memoria.

Vermosh è un'area molto isolata, ore di macchina per arrivare al primo distributore o ospedale. Con un paradosso. Per andare in Montenegro servono solo pochi minuti. Una manciata di chilometri e si raggiunge il primo paese, Gusinj: strade asfaltate, supermercati, distributori. Un altro mondo. Ma purtroppo sulla merce importata vengono imposti alti dazi, e conviene allora quelle poche volte all'anno recarsi sino a Scutari. Anche su altre questioni i due stati non hanno mai stretto accordi frontalieri per fare uscire queste piccole comunità dalla marginalità. Ora il Montenegro preme per costruire lungo l'intera vallata un'autostrada, per semplificare i collegamenti con la capitale Podgorica dell'area di Gusinj e Plav. Uno stravolgimento doloroso il passaggio dallo sterrato alla doppia corsia. Osserviamo di nuovo la vallata immobile e ridiscendiamo per un sentiero in una distesa di felci. Sul tetto dell'ultima casa d'Albania l'antenna satellitare, all'interno tanti santi, riemersi con la forza del sughero nonostante gli anni di socialismo reale.

La sera la cantilena regolare di qualche generatore. Zittita solo dalla luce fioca di lampadine alimentate con tensione troppo bassa. Il filo interno al bulbo in vetro non abbaglia, non stanca l'occhio, se ne può osservare l'andamento ondulante. Luce calda, quasi fosse quella di una candela. Poi nemmeno più quel filo di luce. Genc, sagace scherza. Il regime si era proposto di elettrificare il paese. Ma avvenuta l'elettrificazione si è passati in fretta alla sua candelificazione.

Bocca occhi orecchie

Una panchina di legno, appoggiata al recinto della casa dove siamo ospiti a Vermosh. Da una parte Gianni, con il microfono, dall'altra Monica. In mezzo il padrone di casa. Gianni si indica il sopracciglio, poi alla risposta del suo interlocutore annuisce. Poi le labbra, la guancia, la scapola, l'avambraccio. Siamo passati alle parti del corpo. Prima la conversazione si era focalizzata sui pronomi possessivi, mio fratello, mia sorella, i miei maiali e sui plurali. “Se un signore va nel suo orto, trova due maiali e rivolgendosi al suo vicino gli chiede: questi sono …?” “Tuoi o di qualcun altro?”. Monica era alla caccia da giorni di possessivi e plurali.

“Quello che si nota è che anche in aree così remote vi è una conoscenza della lingua standard” racconta Monica, “ed è molto naturale, perché il mondo va avanti, la televisione, gli scambi sempre più frequenti con il resto del paese. E' molto naturale anche se dispiace che un patrimonio linguistico vada pian piano sparendo. E' anche per questo che il lavoro sul campo è affascinante. Si riesce a cogliere almeno una piccola parte di questo patrimonio, lo si registra e lo si studia”.

Poco più in là anche Michael sta registrando. La sera prima aveva scritto assieme agli altri alcune frasi. Ora le fa leggere a Diana. Diana è solare, sorride ed è premurosa. Ci sta accompagnando in questo viaggio e ha aiutato Monica nell'organizzarlo. Diana insegna storia presso una scuola superiore di Scutari. Il primo giorno in cui l'avevamo incontrata ci aveva accompagnati alla fortezza della sua città, distesa in cima ad un colle che domina l'ampio orizzonte. E scrigno della leggenda di Rozafa.

“E' un nome che non mi piace, non mi è mai piaciuto” dice Diana “perché è la storia di un tradimento tra fratelli”. In tempi lontani tre fratelli infatti decisero di costruire un castello a Scutari, ma nonostante i loro sforzi la notte le forze maligne distruggevano il loro lavoro. Era necessario un sacrificio, di una delle loro mogli. La prima che l'indomani si sarebbe presentata a portar loro da mangiare sarebbe stata sacrificata. Ma se i due fratelli maggiori avvertirono in anticipo le loro mogli, il terzo, leale, non disse nulla a Rozafa. Che accettò piangendo il suo destino ma a due condizioni: che fosse lasciato un buco nella muratura all’altezza di un suo occhio in modo da poter sempre vedere il suo bambino e che fosse lasciata eguale apertura all’altezza del seno di modo che potesse anche allattarlo. Da allora dalle mura del castello escono sempre degli inspiegabili rivoli di acqua densa e di colore bianco. Chi conosce la storia del castello di Scutari afferma che quel liquido sia il latte di Rozafa. “No questa storia proprio non mi piace. Mio marito è il terzo di tre fratelli”, ribadisce Diana e continua a camminare nell'ampia spianata interna alle mura, ciottoli levigati da passi e intemperie, fili d'erba che tentano d'ammorbidirne la superficie.

“Quando la luna è alta nel cielo il lupo viene e mangia la capra”, “Ieri vi ho visto in biblioteca e vi ho dato il nostro libro”, “A Scutari c’è solo un mulino, mentre in Olanda ce ne sono moltissimi”, “Quando andavo a scuola non si poteva leggere la Lahuta delle montagne di Gjergj Fishta”. Diana e Michael continuano nel loro lavoro.

Preposizione ËN

Passiamo il confine a piedi e la strada si fa subito asfaltata. Ci incamminiamo verso Gusinj, distante qualche chilometro. Siamo in un'area del Montenegro dove vive una forte comunità albanese. “E' proprio questo che ci interessa” spiega Gianni “verificare la parlata di questi villaggi, anche perché qui la lingua albanese standard non è insegnata nelle scuole come oltre confine e quindi, forse, quella parlata localmente è riuscita a mantenere caratteristiche più tradizionali”.

“Arrivo, arrivo, ho incontrato degli albanesi che vengono dal confine. Arrivo non preoccuparti”. L'uomo spegne il telefonino e all'istante passa dal serbo-croato di nuovo all'albanese. E' alto e magro, il viso scavato e la barba incolta lo fanno sembrare più anziano di quello che è. Ma le movenze sono eleganti. Tutto il gruppo gli passeggia intorno, occupando l'intera larghezza della strada, per dividersi – come un gruppo di ciclisti attorno alle rotonde stradali – al passaggio di una macchina. Poi i microfoni di nuovo puntati e la conversazione prosegue, tra accelerazioni e soste.

“Anche lei ha delle arnie?” “Dodici anni fa avevo provato, ne avevo tre, ma poi, durante l'inverno per il freddo mi sono morte tutte le api. Da allora ho deciso di non tenerne più”. “C'è un nome specifico per l'arnia?”. Ma squilla di nuovo il cellulare, di nuovo l'uomo passa al serbo-croato. “ E va bene, va bene arrivo”. Si gira verso di noi, ci saluta ed accelera il passo lasciandoci soli nell'ultimo tratto di passeggiata. Dopo poco tempo Genc intona ironico qualche canzone del periodo del comunismo. Narra di una madre felice, perché il figlio era morto da eroe nella lotta contro il fascismo. Diana ride nel guardare Genc al passo di marcia.

“L'incontro è stato interessante” racconta intanto Gianni entusiasta “l'uomo ha più volte utilizzato la preposizione ''ën'' che significa ''in'' in una forma che richiama la preposizione utilizzata da Buzuku, autore del primo libro a stampa in albanese del 1555”. Monica poco più avanti è assorta, anche lei nel mondo della ''ën''.

Ripassato il confine la sera siamo di nuovo tutti assieme a tavola. “Il lupo mannaro esiste in Italia ma non in Albania”, scherza Gianni. “In Olanda sopravvive ancora”, aggiunge Michael. Qualche pomodoro e cetriolo, pane e formaggio di capra. E il tutto si digerisce assieme alle parole, alle loro origini, alle corrispondenze tra una lingua e l'altra.
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