Una fusione di reggae, jazz e rock and beat. Così gli Zoster, di Mostar, affrontano temi tratti dalla realtà bosniaca in chiave ironica e personale. Un'intervista a Marko Jakovljević (basso e chitarra) e Boris Gutić (sax)
Di Francesca Rolandi, Monika Piekarz e Andrea (Paco) Mariani
Qual è la storia degli Zoster?
Marko: Come molte altre band abbiamo iniziato un po’ per gioco. Ufficialmente, il progetto che porta il nome Zoster è iniziato ormai quasi sette anni fa. Ma prima avevamo già sperimentato sonorità con vari gruppi della scena alternativa, durante la guerra e nel periodo immediatamente successivo. All’attivo abbiamo due album prodotti, il primo si chiama “Ojužilo” (2005), il secondo “Festival Budala” (“Festival degli stupidi”, 2007). .
Come descrivereste la vostra musica?
Marko: Molte persone ci definiscono una band reggae, ma in realtà dal reggae noi prendiamo solo alcune sonorità, che ci aiutano ad esprimere ciò che vogliamo dire. Diciamo che la nostra musica è un mix tra reggae, rock'n beat e jazz, ma non riesco a trovare una parola specifica per descrivere le nostre sonorità. È semplicemente quel tipo di musica che sentiamo nostra, che ci dà la spinta per creare. Ogni componente della band mette le sue specifiche influenze musicali e proprio per questo motivo il progetto Zoster si definisce un gruppo fusion.
Secondo voi quali sono gli aspetti positivi della scena musicale bosniaca contemporanea? Quali invece i problemi?
Marko: La Bosnia non è molto grande, e questo è sicuramente il primo problema. Inoltre è stata lacerata dalla guerra, con inevitabili influenze su tutti gli aspetti della vita sociale, quindi anche la cultura e la musica. Oggi la situazione sta lentamente migliorando, in particolare per quanto riguarda la scena musicale; stanno nascendo e crescendo molti nuovi club o festival, ma è un processo lungo. Non va dimenticato che alla fine della guerra non avevamo più niente: c’erano molta energia e creatività, ma mancavano gli spazi per suonare o esprimere la propria musica. Oggi, nel 2008, le cose sono cambiate in meglio, ma non si può negare che la politica ufficiale abbia ancora molte influenze sulla libertà artistica.
In conclusione il mio giudizio sulla scena musicale bosniaca è positivo. Ci sono molte band affermate e di talento: i Dubioza Kolektiv, i Vuneny, Laka, i Mostar Sevdah Reunion...
Boris: In ogni caso i problemi sono ancora molto grandi. In primo luogo, in Bosnia non esiste un vero e proprio mercato discografico, o meglio esiste, ma è molto piccolo ed è soprattutto basato sulla pirateria. Inoltre, un altro problema è sicuramente la mancanza di comunicazione tra le band: ad esempio, in alcuni casi non ci sono reali scambi e incontri tra band serbe, croate o di Sarajevo. Per quanto riguarda, invece, gli aspetti positivi, bisogna ammettere che stanno nascendo molti festival di musica in tutta la Bosnia Erzegovina. Questo fenomeno apre molti spazi e possibilità per le band locali.
Marko: Poi c’è da aggiungere, come accennavo prima, che sta crescendo una scena musicale valida e capace, che sa trasmettere alle persone qualcosa di importante. In forme e modi diversi, tutti questi gruppi tentano, attraverso la musica, di lanciare un messaggio che vada controcorrente rispetto a ciò che ci dicono la televisione e la propaganda della classe politica, troppo lontana dai veri problemi della gente.
Credete che ci sia un background, un messaggio comune tra tutte queste band?
Boris: Certo. Ovviamente questo è più forte quando le band provengono dalla stessa città. Noi, ad esempio, siamo di Mostar, dove c’è molta collaborazione tra le band locali.
Marko: Da un punto di vista personale, posso dire che io amo la musica. Amo ascoltarla e suonarla e questo, prima di ogni altra possibile affiliazione identitaria, mi spinge a condividere questa passione con altre persone che la pensano come me.
Secondo voi esiste una connessione tra la scena musicale di Sarajevo e quella di Mostar?
Marko: Sì, in questo possiamo dire che non esistono barriere. Ci conosciamo tutti e spesso collaboriamo, specialmente nei concerti o nei festival. E' così per Mostar, Sarajevo, ma anche per Zenica, ed altre città della Bosnia Erzegovina.
Quale è la vostra casa di produzione?
Marko: La Gramofon.
Esprimete un messaggio politico nella vostra musica?
Marko: Nelle nostre canzoni cerchiamo di parlare della vita quotidiana, dei problemi che viviamo oggigiorno nella nostra società. Non possiamo, però, definirci una band politica. Scegliamo uno stile personale, divertente ed ironico, per raccontare quello di cui vogliamo parlare.
Avete qualche forma di legame con il centro sociale Abrašević di Mostar?
Marko: Mostar è una piccola città e ci conosciamo tutti. A parte questo, l’esperienza dell’Abrašević è importante perché è il segnale di una volontà di cambiamento che è emersa dopo la guerra. Prima degli anni ’90, l’Abrašević era un centro culturale e musicale cittadino. Poi, dopo la guerra, alcune persone hanno ricostruito quel luogo in una forma diversa, nuova e sperimentale, ma cercando di non dimenticare la ricchezza e l’importanza culturale che quello spazio aveva nei decenni precedenti. A tutt’oggi, l’Abrašević è uno spazio fondamentale per i giovani di Mostar. È un luogo dove le persone hanno la possibilità di esprimere la loro creatività artistica, dove possono mettersi in gioco, condividere ed imparare, trovare nuove motivazioni ed opportunità.
Boris: Prima della guerra l’Abrašević era un centro culturale socialista, mentre oggi è un posto molto più alternativo, underground. Probabilmente, ed è questa forse la cosa importante, è rimasto lo stesso spirito di condivisione che quel luogo ha sempre avuto nella sua storia. Altro elemento simbolico è la sua posizione: il centro sociale si trova esattamente sulla linea del fronte, che divideva la città durante la guerra.
Come artisti come descrivereste il rapporto con la vostra città e il vostro paese?
Boris: Io sono nato a Metković, in Croazia, mentre mia madre è di Mostar. Conosco questa città da molti anni e la sento mia, al pari di Metković. Il fatto che oggi alcune band famose provengano da Mostar credo sia un’opportunità per la città stessa.
Rispetto, invece, alla Bosnia Erzegovina, sono convinto che molte cose stiano evolvendo, e che questo darà una forte spinta al cambiamento culturale. Purtroppo, però, bisogna ammettere che oggi la politica ufficiale invade troppi aspetti della vita sociale e culturale, e che questo inevitabilmente pesa in modo negativo sulla possibilità, per un artista, di esprimere la propria arte.