Kosovo: l'ossessione della storia
03.11.2008
Kosovo - Mario Salzano
Un reportage dal Kosovo del post-indipendenza. La difficile transizione tra la missione Onu e quella europea, l'economia sommersa, le contraddizioni all'interno delle enclaves serbe. E una visione del passato divenuta vera e propria ossessione
Di Paolo Bergamaschi*
Chi arriva in Kosovo per la prima volta non può non rimanere colpito dal numero esorbitante di stazioni di servizio spuntate come funghi ai margini di Pristina. Nei pochi chilometri che separano l’aeroporto dalla città se ne contano una ventina con flussi di traffico che non giustificano la redditività dell’investimento. Annessi ai distributori vi sono, spesso, anche hotel nuovi di zecca di solito vuoti e, sparsi ovunque nella campagna, grandi edifici in vetro oscurato che luccicano nel sole ancora caldo dell’autunno kosovaro con appeso davanti all’ingresso il cartello “affittasi”. A chi e per quale scopo può interessare affittare un immobile commerciale nel paese con il più alto tasso di disoccupazione del continente e con un’economia sommersa che sovrasta e schiaccia quella ufficiale? A nessuno, ovviamente, con l’eccezione delle varie agenzie delle organizzazioni internazionali che continueranno a bazzicare in massa da queste parti ancora per parecchi anni. E’ tempo di cambiamenti, però. La missione delle Nazioni Unite (UNMIK), che ha amministrato l’ex provincia serba dal 1999, sta riducendo gli organici, mentre quella dell’Unione Europea (EULEX), destinata a prenderne il posto, è in corso di dispiegamento.
Non è stato facile raggiungere un compromesso. Il lungo braccio di ferro fra Russia e Serbia da una parte e Stati Uniti ed Europa dall’altra sembrava obbligare l’ONU a prolungare all’infinito il mandato nell’ambito della risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza che aveva posto fine all’intervento militare della NATO. A sbloccare la situazione ci ha pensato lo stesso Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che, preso atto della decisione europea di assistere le istituzioni kosovare dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza del febbraio scorso, ha saggiamente ritenuto opportuno evitare inutili sovrapposizioni riconfigurando la presenza dell'ONU. Saranno più di 2000 gli europei che entro il dicembre di quest’anno affiancheranno le autorità locali nell’amministrazione della giustizia, nel controllo delle frontiere e nelle ispezioni doganali. A dire il vero sotto il vessillo europeo ci saranno anche un’ottantina di americani e si tratta di una novità assoluta, vista la tradizionale riluttanza di Washington a concedere i propri uomini a missioni sotto il comando di altri. Più della metà del personale EULEX è costituita da agenti di polizia che avranno l’arduo compito di coadiuvare i colleghi albanesi nel contrastare e recidere quel fitto reticolo di traffici illeciti che transitano da queste parti avviluppando ampi settori dell’economia, compreso quello delle pompe di benzina.
L’UNMIK fa i bagagli nell’indifferenza generale di quella stessa opinione pubblica kosovara che solo pochi anni prima aveva salutato l’arrivo dell’ONU come la fine di un incubo ponendo termine alla repressione di Milosevic. E’ stato fin troppo facile per i politici locali scaricare sugli amministratori delle Nazioni Unite tutti i mali e le colpe di una situazione disastrata auto-promovendosi al governo di un paese finalmente in grado di esercitare il proprio diritto all’auto-determinazione. Ora la palla passa alle autorità locali che, comunque, si avvarranno della consulenza europea nell’esercizio dei pieni poteri. “L’UNMIK rappresenta il passato, l’EULEX il futuro” esordisce Pieter Feith, inviato speciale dell’Unione Europea per il Kosovo, mentre ci accoglie in una di quelle palazzine in vetro oscurato costruite alla periferia della capitale. “Il compito che ci attende non è facile, ma con il governo kosovaro abbiamo parlato chiaro. Non abbiamo intenzione di utilizzare i poteri intrusivi che ci competono, ma se occorre non staremo zitti”. Il caso della Bosnia-Erzegovina ha lasciato un segno profondo nella diplomazia internazionale. Lì le Nazioni Unite, dopo quasi tredici anni, sono ancora impelagate a risolvere le periodiche liti fra bosniaci, croati e serbi che mettono a dura prova le deboli strutture dello stato. Lì il plenipotenziario del palazzo di vetro è ancora costretto a sostituirsi al governo in caso di paralisi istituzionale. Non ripetere quell’esperienza è diventata la parola d’ordine della nuova missione europea, la più grande e consistente da quando l’Unione ha iniziato a sviluppare una politica estera e di sicurezza comune.
La conquista dell’indipendenza ha avuto alcuni tangibili effetti immediati. Si nota, in particolare, lo sforzo di trasformare Pristina in una vera capitale. Il traffico è, adesso, un po’ meno caotico, ci sono più poliziotti per le strade e, soprattutto, l’arteria principale dedicata a Madre Teresa, gloria di tutti gli albanesi indipendentemente dalla confessione religiosa, è stata chiusa alle auto creando un’isola pedonale a cui gli abitanti della città si stanno gradualmente abituando. In uno dei caffè che si affacciano sull’ampio viale del passeggio incontro Vjosa Dobruna, una dei più autorevoli esponenti della società civile kosovara. A lei nel 2000, in Italia, fu assegnato il premio Alexander Langer per la convivenza fra i popoli e la difesa dei diritti universali. Oggi Vjosa è al vertice del Consiglio di Amministrazione della radio e televisione del Kosovo. “Fui nominata alla presidenza di questo consiglio nel 2004, dopo i tumulti anti-serbi che portarono all’uccisione di 19 persone e alla distruzione di chiese e monasteri” mi spiega ancora convalescente da una recente operazione. “Allora la televisione fu messa sul banco degli imputati, accusata dall’amministrazione internazionale di avere incitato e fomentato i disordini; chiamarono me come persona di garanzia non legata alle élite oltranziste” continua, alternando il caffè alla sigaretta. Nell’attuale consiglio composto da nove membri siedono anche tre rappresentanti indicati dall’UNMIK. Il quindici per cento dei programmi si svolge nelle cinque lingue delle minoranze del Kosovo. E, a proposito di UNMIK, Vjosa mi conferma ciò che avevo sentito anche dagli altri interlocutori “non c’è alcun rimpianto per la partenza della missione delle Nazioni Unite: ormai da qualche anno l’UNMIK era parte del problema e non della soluzione ai problemi della mia terra”. Spreco di risorse, inefficienza, incapacità di individuare ed affrontare le situazioni critiche sono le pesanti accuse rivolte ai rappresentanti dell’ONU. “Nessuno in Kosovo ha più fiducia nell’UNMIK come nessuno fa affidamento alla giustizia locale” conclude Vjosa “da questo punto di vista ci aspettiamo molto dalla missione europea”. Sono speranze ben riposte? L’Unione Europea si getta in una nuova avventura senza avere la forza ed i mezzi per affrontarla. Deve rispondere alle attese dei kosovari ma anche a quelle di un’opinione pubblica europea sempre più scettica e disillusa nei confronti dei paesi balcanici considerati come il buco nero del continente, fonte di guai e instabilità. Persone come Vjosa meriterebbero più attenzione, ma le leve del comando stanno in altre mani e spesso non è possibile conoscere cosa passa veramente fra quelle mani.
Il monastero ortodosso di Zociste si trova nei pressi della cittadina di Orahovac, a una sessantina di chilometri a sud-ovest di Pristina. Semi-distrutto durante il conflitto del 1999 oggi è tornato a nuova vita grazie alla pazienza e al lavoro certosino di alcuni monaci che hanno provveduto al restauro della cappella del 1400 e dei locali circostanti. Ci arriviamo percorrendo una strada bassa, troppo stretta per l’autobus sul quale viaggiamo, tra campi arati in modo ineguale che si preparano al lungo sonno invernale. Come tutti i luoghi di culto ortodossi è presidiato da una piccola guarnigione di soldati, in questo caso austriaci, con una siepe di reticolati che ne delimita i confini. Poco più sotto si scorge un villaggio albanese. “Gli abitanti del luogo non hanno mai costituito una minaccia; al contrario, anche se di religione diversa ci hanno sempre rispettato” mi spiega il priore, “ i problemi, in passato, sono venuti da bande di paramilitari provenienti da fuori”. Anche i soldati confermano che le condizioni di sicurezza negli ultimi tempi sono notevolmente migliorate a tal punto che il comando sta pensando alla smobilitazione del presidio. Mentre completiamo la visita ci imbattiamo in una jeep di carabinieri impegnati nel quotidiano sopralluogo dei punti più critici. Il maresciallo Vincenzo Tortorella si trova in Kosovo da un paio di mesi, ma non ha notato particolari elementi di preoccupazione. “La situazione è abbastanza tranquilla, i nostri interventi sono sporadici e limitati”, racconta. Buona parte dei nostri carabinieri entro la fine dell’anno passerà dal contingente KFOR, sotto il comando NATO, alla missione EULEX. Il loro compito si farà più arduo visto che dovranno moltiplicare gli sforzi per occuparsi anche di lotta al crimine organizzato, vera piaga della regione. Chi pensava, in ogni modo, che la dichiarazione di indipendenza avrebbe fatto precipitare la situazione si è sbagliato di grosso. Me ne accorgo nel nord del paese, a Mitrovica, dove per la prima volta da quando vengo da queste parti ho la possibilità di attraversare a piedi il ponte sul fiume Ibar che separa la parte albanese della città da quella serba. Nelle occasioni precedenti il passaggio era avvenuto su di un autoveicolo scortato da militari dopo la rimozione dei cavalli di Frisia posti di traverso ai due lati del manufatto.
A Mitrovica Nord ritrovo una vecchia conoscenza, Oliver Ivanovic, ex membro serbo del parlamento del Kosovo oggi divenuto sottosegretario nel nuovo governo di Belgrado con delega al Kosovo. Il lettore non deve confondersi. In base, infatti, al piano di pace proposto dal mediatore delle Nazioni Unite Martti Athisaari, recentemente insignito del premio Nobel, i serbi del Kosovo godono di doppia cittadinanza. Possono così votare sia per le elezioni legislative del Kosovo che per quelle della Serbia e, quindi, entrare a far parte indifferentemente sia del governo di Pristina che di quello di Belgrado. Lo incontriamo in uno dei locali di rappresentanza delle istituzioni serbe. “Il nostro obiettivo è di mantenere la missione UNMIK come unico collegamento fra le due comunità” esordisce, “è vero che la percezione di insicurezza è superiore alla realtà, ma non va dimenticato che gli attacchi alla minoranza serba continuano”. Belgrado si oppone alla missione EULEX perché rappresenterebbe un implicito riconoscimento dell’indipendenza kosovara, fieramente contestata in tutte le sedi internazionali. L’ultima mossa ha, in un certo senso, sparigliato le carte. Con il sostegno dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Serbia ha chiesto alla Corte di Giustizia Internazionale un parere legale, peraltro non vincolante, sulla validità della dichiarazione di indipendenza del Kosovo. Così facendo il governo di Belgrado ha, da una parte, congelato per qualche tempo la questione sul fronte interno mettendo a tacere l’opposizione radicale, nostalgica della Grande Serbia, e, dall’altra, ha segnalato ai paesi che non l’hanno ancora fatto l’inopportunità di riconoscere l’indipendenza della ex provincia in attesa del verdetto della corte dell’Aja. Le ultime dichiarazioni del presidente Tadic fanno anche pensare ad un Piano B che prevede la separazione della parte settentrionale della regione, popolata in maggioranza da serbi, per riportarla sotto il controllo di Belgrado. Cambiare i confini nei Balcani, però, è come accendere un fiammifero al buio in una polveriera: fa venire i brividi al solo pensarci. Questa ipotesi, comunque, è fermamente avversata da Rada Trajkovic, esponente serba che vive nell’enclave di Gracanica, a pochi chilometri da Pristina. In caso di partizione del Kosovo i serbi che vivono a sud del fiume Ibar e costituiscono i due terzi della comunità sarebbero tagliati fuori e risulterebbero fortemente indeboliti. “Sbaglia Belgrado ad opporsi all’EULEX; la missione europea è molto più indigesta agli albanesi che ai serbi che ne trarrebbero indubbi benefici” esordisce a sorpresa. Rada si riferisce in particolare al sistema giudiziario “l’Europa rappresenta l’unica possibilità per introdurre nel Kosovo un vero stato di diritto”. “C’è ancora la possibilità di giungere ad una riconciliazione fra le parti”, aggiunge, “ma va spiegato ai serbi che la comunità internazionale ha sottratto il Kosovo a Belgrado come i tribunali tolgono i figli ai genitori che si comportano male e agli albanesi che, dopo il 1999, hanno commesso gli stessi errori degli oppressori di una volta”. Sondaggi recenti indicano che il 72% dei serbi ha intenzione di continuare a vivere nel Kosovo indipendente.
Come in molte famiglie anche la società kosovara ha il proprio figlio indisciplinato. Il pierino di turno si chiama Albin Kurti. E’ l’unico che con il suo movimento Vetevendosje (auto-determinazione) si oppone a qualsiasi presenza internazionale. Lo scrive sui muri, lo grida ovunque, con scarsi risultati, ma non si arrende, temprato dagli anni passati nelle dure galere di Milosevic, quando era alla testa delle manifestazioni degli studenti albanesi. “L’indipendenza senza la piena sovranità è inaccettabile”, mi dice indomito, “la comunità internazionale dovrebbe usare la forza per costringere la Serbia a riconoscere il Kosovo finalmente libero”. Si scaglia, quindi, contro l’élite politica kosovara a suo dire corrotta e foraggiata dal denaro occidentale. Mi fornisce, poi, l’ennesima rilettura della storia secondo cui i serbi negli anni venti inventarono la Jugoslavia per espandersi e negli anni novanta, in un contesto diverso, la distrussero per la stessa ragione. Quella della storia, nei Balcani, è, ormai, diventata un’ossessione. Da noi si dice che occorre conoscere il passato per capire il presente. Da queste parti, forse, sarebbe meglio non conoscerlo il passato per costruire un presente senza pregiudizi e rancori e preparare, finalmente, il futuro.
* Paolo Bergamaschi è consulente del gruppo dei verdi presso il Parlamento europeo