di Marco Abram*
Nella Jugoslavia socialista il quadro della memoria ufficiale rimase statico e nitido per molto tempo, conoscendo le prime incrinature negli anni '60 ma andando realmente in crisi solo nel decennio che precedette la disgregazione dello stato. Per mantenere salda quest'immagine Tito ebbe a disposizione uno strumento che, fino a quel momento, in Jugoslavia non aveva conosciuto un particolare sviluppo: il cinema.
La memoria ufficiale di uno stato infatti non si promuove e rafforza solo attraverso celebrazioni pubbliche e monumenti. Si tratta piuttosto di costruire un ampio affresco in cui convogliare ogni espressione socio-culturale legata al discorso pubblico sul passato: dalla letteratura fino alla toponomastica. Soprattutto negli anni '50, quando non v'erano ancora state reali aperture alle logiche di mercato, il cinema fu soprattutto uno strumento politico, direttamente sovvenzionato e controllato dal partito e prezioso per le politiche della memoria sul Secondo conflitto mondiale.
Il nuovo cinema jugoslavo nacque proprio nella Resistenza, durante la quale, grazie alla sottrazione di materiale tecnico ai tedeschi, vennero girate le prime pellicole. Si cominciò quindi a raccontare una guerra ancora in corso, soprattutto per la necessità di fornire agli Alleati le prove dell'affidabilità delle forze di Tito. Dopo la vittoria, in linea con i dettami leninisti che definivano il cinema “l’arte più importante”, i film divennero una potente arma per la politica interna, nella costruzione del nuovo stato e della nuova società jugoslava.
Cetnici perseguitano il contadino serbo Stojan in Njih Dvojica (1955)
La dirigenza lavorò molto in questa direzione, dato che era necessario costruire praticamente da zero un apparato ed un'industria funzionanti. In principio le urgenti lacune professionali imposero perfino l'assunzione del gruppo di lavoro tecnico che aveva curato la propaganda ustascia. Si puntò quindi all’aumento delle sale, visto il numero esiguo, a cui vennero affiancati anche i cinema mobili che permettevano di raggiungere le località più sperdute del paese.
Slavica (Afrić, 1947), primo film a soggetto jugoslavo incentrato sulle vicende di una giovane partigiana, accese gli entusiasmi della popolazione e ottenne oltre 2 milioni di ingressi. In un paese che contava una popolazione di 15 milioni di persone, la maggior parte delle quali risiedeva in aree rurali, fu un grande successo. L'entusiasmo per questa nuova forma d'intrattenimento crebbe notevolmente e nel quindicennio successivo l'affluenza nelle sale continuò ad aumentare. Solamente l'ingresso nelle case jugoslave della televisione, anni dopo, interruppe questa tendenza.
Nei primi anni gli jugoslavi videro rappresentata nei propri film soprattutto la grande epopea bellica della Resistenza. In media, una pellicola su tre era ambientata in quegli anni, ma in alcuni periodi tale percentuale cresceva ulteriormente. Il cinema era un'arma particolarmente funzionale in questo senso, e garantiva una grande efficacia rispetto ad altri strumenti. Nelle buie sale dei cinema infatti si trasmettevano emozioni, si evocavano sentimenti, si celebravano in maniera dinamica i sacrifici e gli ideali della Lotta. In ogni angolo del paese gli jugoslavi potevano immergersi in quel passato, che si costituiva come momento genealogico del nuovo stato.
Memoria bellica e identità jugoslava
Le celebrazioni per la vittoria nel film Slavica (1947)
La promozione del mito bellico era strettamente legata alla creazione di una memoria collettiva rispetto all'esperienza del conflitto, che potesse legittimare lo stato e la sua identità. Non a caso il valore storico e documentaristico dei film era costantemente sottolineato. Tra le popolazioni jugoslave esistevano differenze importanti, e non di rado, nella storia precedente, esse si erano trovate schierate su fronti opposti. Era quindi necessario concentrare tutto il discorso pubblico sul passato nei quattro anni di una guerra che aveva visto molti jugoslavi combattere fianco a fianco nelle file partigiane, per la liberazione della patria comune.
In realtà i film semplificavano e schematizzavano un periodo molto più complesso, contraddittorio e traumatico. Si cercava di tradurre in mito genealogico collettivo quella che era stata per molti versi una guerra civile, in cui avevano combattuto partigiani, cetnici, ustascia e altri gruppi di collaborazionisti. Le memorie “consentite” venivano attentamente selezionate e il conflitto rappresentato come “de-etnicizzato”: le categorie in opposizione richiamate erano occupanti/resistenti, collaborazionisti/patrioti o borghesi/popolo, mentre i conflitti a carattere nazionale venivano di fatto occultati. Ad esempio nei film si mostravano le brutalità che cetnici e ustascia avevano perpetrato sui rispettivi connazionali, mentre si evitava di parlare della pulizia etnica nei confronti dei serbi nello Stato Indipendente di Croazia o di altri crimini commessi su base etnica.
I film permettono di comprendere inoltre fino a che punto, in quegli anni, la dirigenza spingesse verso il rafforzamento di un'identità comune. Lo jugoslavismo si riaffermava così in forma diversa, intrecciato all'ideale socialista ed espresso nello slogan “fratellanza e unità”. La Jugoslavia di Tito, nonostante formalmente si sganciasse dal modello dello stato nazionale, celebrava una guerra in cui si erano forgiati il nuovo stato e la nuova identità, con codici e forme molto simili a quelle con cui si commemoravano i conflitti fondanti gli stati nazione. Come in tanti altri contesti e paesi il cinema, per questo tipo di politiche, costituiva uno strumento particolarmente efficace.
L'immagine cinematografica della guerra rimase fedele alla versione ufficiale anche con l'abbandono, dopo la rottura con Mosca, delle forme del realismo socialista. Quando, negli anni '50, si cominciò a parlare di libertà e di aperture artistiche, nessuno pensò che ciò rendesse lecito intaccare i contenuti del discorso pubblico sul passato. Anzi, la “secolarizzazione” del
partizanski film , rispetto ai dogmi del realismo socialista e ai suoi rigidi schemi, rese possibile in realtà una promozione più variegata, in grado di rendere la narrazione più credibile rispetto alla ripetitività dell’impostazione ždanoviana.
Verso la metà degli anni '50 autori e registi cominciarono a differenziare le pellicole, accogliendo anche influenze occidentali. Fu così che vennero girati film partigiani di genere psicologico, d’azione, thriller, drammi. L’esempio forse più sorprendente è rappresentato dal cosiddetto “ciclo del Kosovo” del regista e sceneggiatore Živorad Mitrović che girò tre pellicole in puro stile western, ma che narravano la lotta tra l’Esercito di Liberazione jugoslavo e le “forze collaborazioniste” dei ballisti albanesi nelle lande kosovare.
Nel cinema, come negli altri settori della cultura, la versione ufficiale veniva comunque tutelata dalla vigilanza del partito, attraverso appositi organi e funzionari. Il sistema di censura rimaneva celato all'interno dei nuovi meccanismi dell'autogestione, sulla base dei quali era stata riorganizzata anche l'industria cinematografica, ma non permetteva che in nome della libertà artistica si arrivasse a dissacrare i miti fondativi dello stato. Il controllo sulla produzione, sulla distribuzione, sulla stampa critica, inoltre determinavano di fatto l'autocensura. Nei casi in cui venivano oltrepassati i limiti imposti le conseguenze erano inevitabili, tanto che venne tolta la possibilità di lavorare anche ad autori e registi dalla provata fedeltà.
Una memoria davvero statica?
Un americano ed un partigiano fianco a fianco in Dolina miru (1956)
Tuttavia le memorie del passato non sono mai statiche, vengono ripetutamente declinate al presente, perfino quando considerate fondanti per uno stato. I mutamenti del partizanski film dimostrano come anche la memoria della Lotta Popolare di Liberazione fosse legata alle evoluzioni socio-politiche. Ad esempio, i contadini potevano essere celebrati come eroi della rivoluzione o come pericolosi “capitalisti” a seconda dell'atteggiamento mantenuto in quel momento dal partito verso le campagne. Oppure è interessante notare come la Guerra di Liberazione fosse inizialmente inserita nel quadro della mobilitazione internazionale socialista, tanto che il film
Majka Katina (Nikola Popović, 1949) celebrava il sostegno alla lotta dei partigiani greci. Dopo la rottura con Mosca l'immagine bellica venne invece “jugoslavizzata”,
Majka Katina non fu distribuito e, parallelamente gli sviluppi del quadro politico internazionale, nella narrazione iniziarono a comparire, al posto dei sovietici, alcuni personaggi occidentali. Uno dei primi e più ricordati fu certamente il soldato americano di colore, paracadutato sulla Jugoslavia occupata, protagonista di
Dolina Miru (France Stiglić,1956).
Questa celebrazione “jugoslava” conosceva anche ambiguità di tipo diverso, legate alla complessità strutturale e identitaria della Federazione. La volontà dei vertici del partito era quella di promuovere una memoria collettiva jugoslava sul conflitto, ciò nonostante i particolarismi erano presenti e difficili da integrare. Quando l'autogestione portò una maggiore autonomia alle case di produzione repubblicane - all'epoca ne esisteva una per ogni capitale - l'immagine “jugoslava” della guerra iniziò a risentirne, le repubbliche cominciarono a rappresentare una lotta sempre più rispettivamente slovena, macedone, croata, etc.
Nella rappresentazione cinematografica dell'esperienza bellica l'allineamento di un mezzo d'espressione come il cinema presentò altre complicazioni per il regime. Verso la metà degli anni '60 le ulteriori aperture che conobbe l'industria del settore portarono il cinema a divenire, in alcuni casi, uno strumento di critica della visione ufficiale. I protagonisti del nuovo cinema jugoslavo, di quella che venne chiamata “Onda nera”, realizzarono pellicole, come
Tri di Aleksandar Petrović (1965), che misero in evidenza le contraddizioni e i dubbi della morale della Lotta Popolare di Liberazione. Non a caso in seguito a queste derive il regime reagì con un inasprimento della censura e con grandi produzioni celebrative come (Bulajić,1968) e (Delić, 1973). Per un certo periodo comunque le sale cinematografiche si trasformarono da luoghi in cui si assorbiva il “verbo” del partito a spazi in cui veniva promossa una visione più critica di quel periodo.
Le memorie della Seconda guerra mondiale, come noto, divennero negli anni '90 strumento di affermazione di posizioni nazionaliste. La cinematografia fu quindi nuovamente coinvolta in più ampie dinamiche politiche ed in diversi casi partecipò alla revisione del passato. Gli esempi non mancano: da
Gluvi Barut (Čengić,1990) che rivalutava la resistenza cetnica, a
Cetverored (Sedlar,1999), focalizzato sui crimini partigiani di Bleiburg contro i croati. Fortunatamente negli anni '90 il cinema balcanico ha saputo spesso ritornare ad essere voce critica davanti alla realtà. La memoria della Seconda guerra mondiale rimane tuttavia materiale politicamente “caldo” che, in ex Jugoslavia come altrove, non ha smesso di essere oggetto di strumentalizzazioni.
* Marco Abram ha condotto a Belgrado una ricerca di tesi sulle politiche della memoria nella Jugoslavia di Tito