Secondo informazioni ottenute presso la Corte Suprema della Federazione di Bosnia Erzegovina da Osservatorio Balcani, Hanefija Prijić è stato condannato in Appello dalla stessa Corte a 13 anni di carcere il 3 aprile 2002 per "crimini di guerra contro la popolazione civile". Questa sentenza è definitiva. Hanefija Prijić è detenuto nel carcere di Zenica dal 10 luglio 2001
Di: Piero Del Giudice
L'articolo di Piero Del Giudice sul processo di Travnik nei confronti di Hanefjia Prijić è stato pubblicato originariamente su Galatea, mensile svizzero di lingua italiana, nel maggio 2001, con il titolo “Il tempo degli orchi”.
Travnik
Travnik, poco più di un grosso villaggio di montagna, è un posto ricco di monumenti e di memoria, povero di abitanti. La gola di entrata dell’antico insediamento di Travnik è dominata dal tracciato potente delle mura – in rovina oggi, resti di pietre grige e nere – volute da re Tvrtko II (1338-1391), per il sistema di kastel che rese inespugnabile il cuore del regno di Bosnia. Dietro e sopra i bastioni, le punte dei minareti. In queste gole e con queste fortificazioni, la dinastia dei Kotromanić resisteva ai re cattolici ungheresi e alla pressione musulmana. Poi l’ultimo re, Stjepan Tomasević, viene sconfitto a Jajce e decapitato dai turchi. Bobovac, Travnik, Jajce e le altre castella medievali decadono, ma dopo tre secoli – quando Sarajevo ottomana viene ridotta in cenere da Eugenio di Savoia (1697) – Travnik viene eletta capitale dei pascià. Fioriscono allora le più belle moschee, tra cui splendida la moschea “šarena”, la moschea dipinta, dell’inizio del XVIII secolo.
Le mura, le antiche moschee, le fontane dell’acqua, i catafalchi funebri di due pascià, la torre antica dell’orologio solare, la fabbrica “Borac” di abbigliamento, infine il palazzo del Tribunale: un’anonima costruzione del socialismo su due piani con i buchi di una raffica di mitra sulla porta di entrata. Nell’aula n. 48 del Tribunale di Travnik, si svolge in questi giorni il processo contro Hanefjia Prijić, detto “Paraga”, ex-comandante dei “Berretti verdi” musulmani. Otto anni fa, nell’anno più torbido della lunga guerra civile bosniaca, sulla strada di Gornji Vakuf, la banda di “Paraga” ha sequestrato, rapinato e ucciso tre volontari italiani in missione di aiuto alla popolazione civile nella Bosnia in guerra: Fabio Moreni imprenditore di Cremona, Sergio Lana di 20 anni volontario della Caritas di Ghedi, Guido Puletti giornalista di Brescia. Alla strage sfuggono, in modo del tutto fortuito, due componenti della missione entrambi di Brescia: Christian Penocchio fotografo e Agostino Zanotti responsabile del “Coordinamento bresciano iniziative di solidarietà con la ex Jugoslavia”. Penocchio e Zanotti sono presenti al processo come parti lese e testimoni.
Prima di arrivare a Travnik, nella valle che precede, si attraversa Novi Travnik, la parte moderna dell’antico borgo. A Travnik i musulmani, a Novi Travnik i croati. Là le chiese cattoliche, qui le moschee. Tra queste montagne i croati ed i musulmani si sono combattuti per l’intera durata della guerra bosniaca: quando i croati e i musulmani nel resto del paese erano alleati e quando si combattevano. Qui, sulle montagne tra Travnik e Novi Travnik, il cannone non ha mai taciuto sopra la boscaglia che frange le cime, sopra i villaggi incassati nelle valli. Di villaggi si tratta, di borghi vuoi croati vuoi musulmani, di comunità stremate. Poche migliaia di abitanti negli elenchi dell’anagrafe, alcune centinaia i residenti di fatto. Quando la sera il traffico di Travnik viene interrotto lungo la strada centrale dalle 19 alle 23 per la bizzarra idea di farne un’isola pedonale, la differenza con il giorno non si avverte. Scalpiccii rapidi, il latrato dei cani, la voce su nastro del muezzin che prega su questo silenzio di gente che cammina in fretta. Qui, lontani da Sarajevo animata di ambasciate, di forzate allegrie di comitive di funzionari stranieri, la desolazione del dopoguerra bosniaco si fa acuta come un'allucinazione. Bosnia dei sopravvissuti.
Hanefjia Prijić detto “Paraga”
Travnik, il processo a Prijić: la Corte (foto Almin Zrno)
Quando nell’aula 48 del Tribunale di Travnik, non più grande di un’aula scolastica, di sobrio immacolato mobilio, il giudice presidente signora Nidžara Zlotrg, apre il processo contro Hanefija Prijić, detto “Paraga”, con le parole “si constata che sono presenti Hanefija Prijić, l’avv. Edina Rešidović per la sua difesa, Christian Penocchio e Agostino Zanotti parti lese, gli avvocati Žarko Bulić e Lorenzo Trucco per la loro tutela”, il comandante “Paraga”, nato il 4 marzo 1963 nel villaggio di Jagnjid, sulle montagne di Gornji Vakuf, non è più comandante. Le ballate di guerra scritte su di lui si sono perse tra le valli e sono morti o dispersi nel mondo o testi dell’accusa gli uomini del battaglione di “Berretti Verdi” che “Paraga” comandava il 29 maggio del ’93. Una banda, non un battaglione; alcune decine di montanari scesi in armi ai passi della strada di Gornji Vakuf. Ora “Paraga” è di fronte ad una Corte di giudici della nuova magistratura del paese per cui dice di avere combattuto, seduto, o in piedi quando interrogato, sempre tra due guardie del carcere di Zenica, dove è rinchiuso dal settembre dell’anno scorso. Scuro di pelle, statura media, capelli neri con incipiente calvizie, “Paraga” conserva la felinità per cui si esibiva di fronte ai ragazzi italiani prigionieri della sua banda quando, loro sotto la minaccia delle armi, simulava il passo della pantera, mostrava gradi ed armi, mostrava la sua donna Rasema in divisa, dava ordini, muovendo di continuo come adesso gli occhi che sembrano bistrati e mandano lampi che inquietano.
I fatti
“Paraga” sino a questo processo ha sempre negato anche solo di avere sentito parlare della strage di Gornji Vakuf. Eppure fu una tragedia che scosse le cronache cruente della guerra civile bosniaca, fu una notizia di sangue giunta in tutto il mondo. Un fatto eccezionale, l’unico episodio in cui vengono uccisi volontariamente dei pacifisti europei nella lunga guerra bosniaca.
Oggi, davanti ai giudici di Travnik e soprattutto di fronte alla puntuale ricostruzione già in istruttoria dei due volontari italiani sopravvissuti e presenti in aula, “Paraga” ammette di essere stato presente ai fatti, ma non ne ha – dice - responsabilità alcuna, né esecutiva nè di comando. Responsabili sarebbero altri che, nel frattempo, sono morti. Non erano suoi i soldati che hanno sparato e ucciso, non ha dato lui il comando, lui, “Paraga”, voleva anzi aiutare i volontari.
Il 1993 è anno di guerra totale in Bosnia - tutti contro tutti, croati contro serbi, serbi contro musulmani, serbi e croati contro musulmani. Sulla strada di Gornji Vakuf, il 29 maggio del 1993, le cose sono andate così.
Verso le quattro del pomeriggio di quel giorno, un convoglio proveniente da Spalato, composto da un camion e rimorchio con targa italiana e contrassegni della croce rossa e una Lada Niva blu targata Spalato con contrassegni “Press” e “Caritas”, supera il check point delle Nazioni Unite all’altezza di Gornji Vakuf, e procede sulla strada chiamata
Diamond Route. E’ una giornata piena di luce e i componenti il convoglio contano di arrivare entro sera al villaggio musulmano di Zavidovići, obbiettivo della missione.
Sul camion Fabio Moreni alla guida e Sergio Lana, sul fuoristrada Zanotti alla guida, Puletti e Penocchio. Portano aiuti umanitari agli abitanti di Zavidovići da tempo assediati, hanno – in viaggi precedenti – stabilito una evacuazione di donne e bambini dalla zona. Di queste persone hanno l’elenco dettagliato, i permessi sia delle autorità croate che musulmane e dell’Onu. Insieme a viveri, carte, certificazioni, i volontari hanno con sé una notevole quantità di danaro necessaria alla complicata operazione di soccorso ed evacuazione.
Ad una curva della
Diamond, all’altezza di un sentiero che sulla sinistra sale sulla montagna, un gruppo di armati senza divisa e contrassegni ferma il camion e il fuoristrada. Il convoglio viene costretto a dirottare sulla montagna, le tracce delle gomme sulla strada sterrata e sul sentiero vengono cancellate. Li comanda senza dubbio alcuno un uomo “dagli occhi esaltati, di media statura, di carnagione scura” in divisa, con un berretto verde con sopra una spilla con la mezzaluna e la stella. Zanotti e Penocchio, i sopravvissuti, riconosceranno poco tempo dopo in un video “l’uomo magro, di carnagione scura, dagli occhi magnetici”, è “Paraga”, al secolo Hanefjia Prijić.
Giunti al campo base della banda, ai volontari vengono sequestrati i passaporti e tutti i documenti, automezzi, carico e beni personali. Il sequestro prosegue con un nuovo spostamento, sempre più lontano dalla
Diamond. “Paraga” si mette alla guida della Lada Niva blu con a fianco una donna in divisa, poi riconosciuta come Rasema Hajdarević, emigrata negli USA e residente a Portland, i cinque volontari italiani - Moreni, Lana, Puletti, Penocchio e Zanotti - vengono costretti a salire su un trattore sotto la scorta di due armati di kalaschnikov, con alla guida un terzo armato.
Dopo un’ora, lo strano convoglio giunge sulla spianata di una miniera abbandonata – sarà riconosciuta nel sopralluogo come la miniera Radova. Qui “Paraga” consegna con un ordine secco gli italiani ai due del trattore che, armati, uno davanti alla fila e l’altro dietro, li conducono verso un bosco che costeggia un dirupo. Moreni e Lana pregano. Sono le sette di sera e quando uno dei due armati di scorta mette il colpo in canna Guido Puletti grida: “Ci ammazzano! Scappiamo!”.
Partono i primi colpi che falciano subito Moreni e Puletti; Penocchio, Zanotti e Lana - ma Lana viene ferito mentre si getta lungo il dirupo – fuggono in direzioni diverse. Zanotti, nascosto tutta la notte in un torrente coperto di rami e di foglie, riesce a muoversi di notte e a raggiungere una unità dell’esercito regolare bosniaco all’alba, Penocchio vaga per due notti e un giorno sulla montagna, si affida anche lui a soldati dell’esercito bosniaco e poi si ricongiunge a Zanotti.
Lana viene raggiunto dopo poche decine di metri di fuga e ucciso. Penocchio, nascosto in un grosso cespuglio, sente i passi e le voci dei membri della banda che li stanno cercando.
Le interpretazioni e la verità processuale
Piero Del Giudice, autore di questo articolo, ha recentemente pubblicato in Italia Romanzo balcanico (Aliberti editore, 2009) sulla vita e le opere di A. Sidran
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La strage di Gornji Vakuf è un fatto di sicura eccezionalità. Nella Bosnia Erzegovina attraversata dalla guerra civile e dalle secessioni alimentate dalla Croazia e dalla Serbia, sono accorsi migliaia di volontari. In prevalenza cattolici, ma numerosa è stata anche la rappresentanza laica. Non erano insolite compagnie umanitarie come quella intercettata dalla banda di “Paraga” composta da cattolici praticanti come Moreni e Lana e laici per i diritti civili come il gruppo di Brescia. Il pericolo che i convogli umanitari potevano correre era quello del furto, della rapina parziale o totale del trasporto, non quello dell’assassinio. E’ per questo che i fatti di Gornji Vakuf hanno sollecitato più di una interpretazione. Una delle più acute è quella che il giornalista Luca Rastello espone nel libro
La guerra in casa (Einaudi). Rastello ricostruisce i fatti e sottolinea come a Spalato il gruppo degli italiani abbia avuto rapporti con l’organizzazione francescana “il pane di Sant’Antonio”. La stessa organizzazione che la magistratura di Brindisi persegue per trasporto e contrabbando d’armi; armi trovate nei cassoni di camions diretti in Kosovo sub specie umanitaria con le insegne del “pane di Sant’Antonio”, camions intercettati dalla polizia all’imbarco del porto di Brindisi. Se è vero che nella storia il noleggio a Spalato di un automezzo con targhe croate e le insegne Caritas sovrapposte sono una grave imprudenza, è vero che la comunità di Zavidovići è una comunità musulmana, che lì erano diretti gli aiuti e che l’elenco delle donne e dei bambini da evacuare non poteva nutrire dubbi.
Sulla strada di Gornji Vakuf il 29 maggio si è consumata una rapina ai danni di un convoglio di aiuti alla popolazione civile e si è decisa una strage per cancellare ogni traccia di questa rapina. Il sedicente comandante “Paraga” e la sua banda non hanno alibi politici, neppure quelli della “bettola balcanica”.
Travnik, il processo a Prijić: testimoni e avvocati (foto Almin Zrno)
I giudici del Tribunale di Travnik stanno facendo un buon lavoro. La ricostruzione emozionata ma precisa, fotografica, di Penocchio e Zanotti, ha permesso alla presidente del Tribunale, al giudice a latere, all’accusa e alla difesa, di porre decine di domande, anche sui dettagli, di quella giornata iscritta con sangue di giovani italiani nella tragedia bosniaca. Le deposizioni già acquisite agli atti vengono ripetute in aula e passate al vaglio. E più si parla qui nell’aula 48 del Tribunale di Travnik, più prende corpo e spazio una magistratura ordinaria appena ricostituita nella Bosnia del dopoguerra, il paese virtuale voluto dagli accordi di Dayton. La sentenza sui fatti del maggio 1993 è attesa per la fine di questo mese.
La Bosnia di oggi e la giustizia
A cosa può servire ripercorrere, in un’aula sperduta di un villaggio sperduto tra le montagne della Bosnia centrale, passo dopo passo, uno dei più feroci fatti di sangue della guerra di Bosnia, consumato otto anni fa, tra queste forre e questi boschi, con la morte di tre giovani italiani? “Alla giustizia”, rispondono i giudici del Tribunale di Travnik attraverso la presidente Nidzara Zlotrg, “a punire i colpevoli e a impedire che si torni a versare sangue” dice il pubblico ministero – musulmano “ma per me tutti sono eguali” – Behaija Knijc. Dopo otto anni i boschi sopra Travnik, le strade buie nella sera che entrano ed escono dai villaggi vicini, fanno ancora paura e la giovanissima magistratura della Repubblica, ora virtuale ora reale, di Bosnia Erzegovina, lo sa. E’ per questo che il processo che si svolge a Travnik contro l’ex-comandante dei “Berretti verdi” Hanefija Prijić detto “Paraga”, si sta svolgendo in modo minuzioso e non sommario, carico di tensione e persino eccessivo nella richiesta di dettagli, informazioni, precisazioni. Ha parlato “Paraga”, hanno parlato i superstiti del gruppo dei volontari italiani. Le deposizioni hanno come teatro queste montagne; nel racconto la parola che ricorre di più è “bosco”, “foresta”. Una storia di giovani delle città europee che si addentrano con un camion e rimorchio e un fuoristrada in una regione di orchi. Si sa tutto e si sapeva tutto dei fatti di Gornji Vakuf del maggio ’93, ma le ricostruzioni lasciano il segno: il giovane Sergio Lana che riesce a fuggire dall’improvvisato plotone di esecuzione insieme a Zanotti e Penocchio per poi essere ucciso, i sopravvissuti nascosti, i corpi degli uccisi gettati nella macchia, uno della banda agli ordini di “Paraga” che intona un canto ritmato, una sorta di nenia funebre prima di sparare.
Cosa ci facevamo qui? Cosa ci facevano migliaia di volontari per lo più cattolici che percorrevano con ogni mezzo un paese in guerra villaggio per villaggio, con bande composte da branchi consanguinei come quella di “Paraga” che conta tre cugini tra i fedelissimi, portando aiuti, spesso irrisori e inadeguati, qualche volta decisivi, qualche volta morendo qui, come i tre trucidati sulle montagne tra Travnik e Gornji Vakuf, o come Moreno Locatelli ucciso da un cecchino su un ponte di Sarajevo mentre sventolava uno striscione con scritto “Mir”, Pace?
C’è qualcosa che ha a che fare con il mistero in queste vite che sono andate a spegnersi nella guerra civile bosniaca.
Ed è mistero la lunga guerra civile che ha attraversato i Balcani, la ferocia e belluinità che si è scatenata, dispiegata, per lunghi inesausti anni. Mistero sono le politiche che l’Europa ha fatto o non ha fatto qui, preventive di pace, di intermediazione durante il conflitto, di ricostruzione nel dopoguerra. Politiche a dire poco confuse, visto che – ancora una volta in Bosnia e proprio in queste settimane, nonostante la presenza delle truppe Nato/Sfor – si riaccende il conflitto tra croati e musulmani.
Ma misterioso è anche che gli amici di Puletti, Moreni e Lana abbiano continuato e continuino il lavoro nel villaggio di Zavidovići dove erano diretti nel maggio del ’93, prima di incappare nella banda di lupi di “Paraga” Hanefjia Prijić che in aula chiede di essere chiamato “signore”.
Mistero è il fatto che gli amici bresciani di Moreno Locatelli, ucciso a Sarajevo, abbiano donato nell’immediato dopoguerra alla città una linea di panificazione e cottura che ha rimesso in piedi la “Velepekara” la fabbrica del pane della città che ha come simbolo una spiga di grano.
Che il poco grano che cresce in questa impervia natura e freme al vento vi accompagni volontari italiani caduti qui, che la montagna ingrata vi protegga dai lupi. “Mai e poi mai – scrive il poeta Abdulah Sidran di Sarajevo – potrà cessare / la lotta tra il Bene e il Male”.