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La voce scomoda della Clessidra

04.11.2009    Da Belgrado, scrive Cecilia Ferrara
flod/flickr
Peščanik, la Clessidra. Uno dei più discussi programmi radiofonici trasmessi in Serbia. Crimini di guerra, privatizzazioni, politica e giustizia sono tra i temi affrontati settimanalmente dalle giornaliste Svetlana Lukić e Svetlana Vuković. Nostra intervista
“Ako vam je dobro, onda ništa”, se vi va bene, allora niente. Questo il motto di Peščanik “Clessidra” un programma radiofonico che va in onda dal 2000. Qualcosa di più un gruppo di intellettuali che cerca di far capire che forse non va tutto bene, anche se non c’è più la guerra, Milošević è morto e non bombardano più. Peščanik è a metà strada tra un programma cult, ascoltato dai giovani, dai progressisti, dagli intellettuali e da 400 mila persone ogni settimana, e un programma scomodo che nessuno vuole troppo polemico, politicamente scorretto, fastidioso. Tra i partecipanti al programma ci sono i più importanti intellettuali di sinistra da Biljana Srbljanović a Ivan Čolović, Vesna Pešić, Vladimir Gligorov, Teofil Pančić, solo per citarne alcuni. Ogni anno viene pubblicato un libro con le interviste delle trasmissioni, che viene promosso in incontri in tutta la Serbia. Gli incontri sono sempre più spesso fonte di attacchi di gruppi nazionalisti e ultra religiosi. Svetlana Lukić è la conduttrice, giornalista che cominciò con Radio Beograd nel 1989 e nei primi anni ’90 seguì i conflitti in Croazia e in Bosnia. Informando sulla guerra finì nella “lista nera” dei giornalisti “nemici del popolo”. Nel 1992 viene definitivamente espulsa da Radio Beograd e inizia a lavorare per radio B92, tra le pochissime radio indipendenti dell’era Milošević, dove continua ad occuparsi delle guerre nei Balcani e delle responsabilità della Serbia in queste ultime. Osservatorio Balcani e Caucaso l'ha incontrata insieme alla collega Svetlana Vuković, redattrice, che condivide con la stessa Lukić gran parte del percorso giornalistico e l’avventura di Peščanik.

Come è nato Peščanik?

Peščanik è nato nell’ambito della campagna elettorale anti-Milošević. Da una parte c’era Otpor, il movimento studentesco, dall’altra c’era una campagna dei media all’interno della quale si inseriva il programma radiofonico che andava in onda su B92 e su altre radio in tutta la Serbia.
Dopo la caduta di Milošević ci siamo iniziate ad occupare di temi che riguardavano più la transizione, la giustizia, le privatizzazioni, con l’idea di vivere ormai in un Paese democratico. Nel 2003 però fu ucciso il primo ministro Zoran Ðinđić e improvvisamente gli anni Novanta tornarono attuali. Fu chiaro che c’era una continuità tra il regime e il post-regime in particolare nella relazione tra il governo ed i criminali di guerra. Qualcuno definì l’omicidio di Ðinđić l’ultimo crimine di guerra. In quel momento capimmo che il nostro lavoro non era finito.

Qual è la differenza tra lavorare come giornalisti di opposizione ad un regime e il lavoro che svolgete oggi?

Per noi era molto più facile negli anni Novanta perché era tutto molto più chiaro. Da una parte c’erano quelli contro Milošević, ci conoscevamo eravamo una piccola comunità, dall’altra c’erano Milošević e il suo popolo. Allora avevamo molto più appoggio anche a livello internazionale, ora i problemi sono spesso gli stessi ma si fa finta che vada tutto bene. La comunità internazionale pensa che Tadić sia il massimo che noi serbi possiamo avere e allora va bene anche per l’Europa.
Senza contare che negli anni Novanta non eravamo trattati come estremisti: oggi a destra ci sono Obraz e gli altri gruppi ultranazionalisti e a sinistra ci siamo noi.

Quali sono gli argomenti per voi più pericolosi da trattare?

www.pescanik.net
Prendere in giro Tadić è la cosa più pericolosa che facciamo. Svetlana Lukić è molto dissacrante, nei suoi editoriali che aprono i novanta minuti di Peščanik può succedere che invece di esprimere un giudizio dica che Tadić è “bleah” o qualcosa del genere. Questo li fa imbestialire.
Ma non ci sono tabù per le trasmissioni. Sappiamo che la gente è molto sensibile agli attacchi alla Chiesa e noi lì facciamo senza problemi ma cerchiamo di usare molto tatto. È importante ricordare le responsabilità che la Chiesa ha in alcuni casi di crimini di guerra e di pedofilia.

Quando avete iniziato a fare le promozioni del libro?

Dal 2005. Abbiamo fatto centinaia di promozioni in tutta la Serbia e anche in Bosnia Erzegovina, ma adesso la scorta della polizia è troppo invadente, intimidisce il pubblico, quindi abbiamo deciso di fermarci. Senza contare che dopo l’omicidio di Taton loro sono ancora più pericolosi.

Quando dite “loro” chi intendete?

“Loro” sono vari gruppi, Obraz (Orgoglio, gruppo ultra-nazionalista), Dveri Srpske (legato alla chiesa), 1389 (gruppo ultra-nazionalista), gli hooligan, ma sono anche i servizi segreti e una parte dell’establishment, come certi tycoon connessi tra loro che hanno come unico scopo quello di fare soldi e preferiscono di gran lunga che la situazione attuale resti in mano ai monopoli piuttosto che una vera liberalizzazione del mercato con l’eventuale entrata in Europa.

Come giudicate il comportamento del governo in questi ultimi avvenimenti sul gay pride, la morte di Taton e l’ondata di violenze legate ai tifosi e ai nazionalisti?

Con la morte di Brice Taton si sono spaventati e hanno organizzato quella manifestazione contro la violenza (il primo ottobre scorso ndr.). Tadić ha fatto effettivamente un discorso che nessuno aveva mai fatto prima. Ha parlato di un filo che legava la violenza degli anni Novanta dei crimini di guerra a quella di oggi. Ma sapeva bene che era quello che una certa parte della Serbia voleva sentirsi dire ed una frase senza conseguenze non costa nulla. Rientra in un sistema di democrazia basato sulla finzione.

La nostra società è diventata profondamente razzista perché è basata su una serie di bugie che vengono raccontate fin da bambini, dalla storia dei serbi alle storie della Chiesa. Sono 20 anni di indottrinamento che hanno prodotto una narrativa nazionalista che, combinata con l’impossibilità di viaggiare, crea quasi una categoria clinica. In effetti siamo una società malata, ci hanno cancellato la possibilità di futuro.

Come vedete la situazione dei media, anche in seguito alla nuova legge sull’informazione?

La libertà di espressione in Serbia è in uno dei suoi momenti peggiori, per la prima volta in 10 anni abbiamo avuto la sensazione che potremmo chiudere. Abbiamo offerto la trasmissione a tutte le radio e solo tre l’hanno accolta (Radio 021 di Novi Sad, Radio Sto Plus di Novi Pazar e OK radio di Vranje). Chi ci trasmette rischia.
Per quanto riguarda la nuova legge è una sorta di ricatto verso alcuni media, probabilmente anche se è passata non verrà applicata ma è sufficiente per imporre ai mezzi di informazione un’auto-censura.

Cosa significa per la Serbia il processo a Karadžić?

Qui non avrà assolutamente nessun significato. È importante per le vittime, ma la Serbia ancora non riesce ad affrontare il proprio passato. In questi giorni Bilijana Plavšić (1) è stata accolta a Belgrado come una star, Milorad Dodik è andato personalmente a prenderla all’aeroporto per portarla nel suo appartamento in centro a Belgrado. Nessuno del governo ha pubblicamente salutato la Plavšić ma è anche vero che Dodik sembra sempre più un pupillo di Tadić.

Invece sono anni che giace in Parlamento la risoluzione su Srebrenica che ratifica la sentenza della Corte internazionale di giustizia dell’Aja. La sentenza dice che la Serbia non è responsabile per il genocidio di Srebrenica ma che è responsabile per non averlo impedito, questa cosa viene costantemente ignorata. Ma se non si fanno i conti con il passato non si può andare avanti.

La liberalizzazione dei visti cambierà qualcosa secondo voi?

Assolutamente sì, se non si conosce il mondo se ne ha paura ed è più facile essere manipolati dai discorsi nazionalisti. Se i giovani escono capiranno molte cose. Ad oggi le statistiche ci dicono non solo che il 70% dei giovani non ha il passaporto, ma che il 70% non sa nuotare quindi non è neanche mai andato al mare in vacanza.

(1) Ex presidente della Republika Srpska, condannata nel 2003 dal TPI dell'Aja per crimini contro l’umanità durante la guerra in Bosnia Erzegovina, rilasciata lo scorso 27 ottobre da un carcere svedese.
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