Si moltiplicano le richieste di modifica dell’assetto istituzionale della Bosnia Erzegovina. Un autorevole centro studi europeo avanza la propria proposta. Un nostro commento
La proposta Esi
Dopo alcuni mesi di consultazioni con personalità politiche e istituzionali, lo European Stability Iniziative (Esi) ha presentato la propria proposta di riforma per la Bosnia Erzegovina. L’idea è semplice: abolire la Federazione Croato Musulmana, una delle due Entità nelle quali risulta diviso il Paese, e con essa la stessa nozione di Entità. Resterebbero tre livelli di governo: quello centrale, 12 unità cantonali (gli attuali 10 cantoni della Federazione più il distretto di Brcko e la stessa Republika Srpska) e quello municipale.
Secondo il documento, “
Making Federalism work – a radical proposal for practical reform”, una simile prospettiva sarebbe bene accolta sia a livello centrale che cantonale, e infine anche da parte serba, croata e musulmana. Le diverse opzioni, che in parte corrispondono agli attuali livelli di governo in parte agli equilibri etnici, sono riassunte simbolicamente da Esi nella prospettiva di Sarajevo, di Banja Luka, di Grude e di Tuzla. La Bosnia Erzegovina diverrebbe un normale sistema federale europeo (il paragone è con la Svizzera) con istituzioni centrali, regionali e municipali.
Le Entità
Le Entità (nel documento una “
curiosa invenzione degli accordi di Dayton”), sono in realtà state introdotte come categoria dall’accordo di Washington del 1994 con la firma (1° marzo) tra Silajdzic (per i Bosniaco Musulmani), Zubak (per i Croato Bosniaci) e Granic (Ministro degli Esteri di Zagabria) dell’intesa che istituiva la Federazione croato musulmana. Tudjman presentò il tutto come un grande successo che aveva il merito di inserire i musulmani bosniaci nell’orbita occidentale. Gli americani, a suo dire, gli avevano “
chiesto il consenso alla [creazione della] Federazione perché fosse impedito il sorgere di uno stato islamico in Europa” (Joze Pirjevec, “
Le guerre jugoslave 1991-1999”, Einaudi, pag. 368). La costituzione della Federacija BH rappresentò probabilmente uno dei documenti più atipici del suo genere. Scritta in inglese, solo in seguito venne tradotta nelle lingue locali.
A Dayton questo assetto venne confermato. Accanto alla Federazione furono introdotte la Republika Srpska (RS) e il distretto internazionale di Brcko, area strategica il cui destino veniva rimandato ad un arbitrato, oggi distretto unitario sotto supervisione internazionale.
Nasceva così la Bosnia di Dayton, una federazione “sui generis” dato che le sue parti costitutive – le Entità – erano di fatto dotate di maggiori poteri del governo centrale. In pratica, alle Entità erano attribuiti tutti i poteri non espressamente assegnati al governo centrale, che nella fattispecie erano la politica estera, il commercio con l’estero, le comunicazioni e gli affari civili.
L’ultimo piano – rigettato dalle parti - proposto dalla comunità internazionale prima del “successo” degli accordi di Washington era stato il cosiddetto piano “Vance Owen”, che riconosceva uno Stato unitario – senza Entità - suddiviso in dieci province fortemente autonome. Un’idea, ripresa nel 1999 anche da International Crisis Group (“
Is Dayton failing? Bosnia four years after the peace agreement”, ICG Balkans Report n. 80, Sarajevo Oct 1999), non molto distante da quella in discussione oggi. Stiamo tornando indietro nel tempo?
La Bosnia di oggi
Perché oggi i Serbi accetterebbero che la Republika Srpska – istituzione che, secondo la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa, “
ha la struttura di uno Stato indipendente” (Congresso dei Poteri Locali e Regionali d’Europa, “
Report on Local and Regional Democracy in Bosnia and Herzegovina”, 7 Marzo 2000) - venga equiparata ad un semplice cantone? La politica dei Serbi in Bosnia Erzegovina, dal 1996 in poi, è sempre stata ispirata alla difesa della ampia autonomia della Republika Srpska attraverso una stretta interpretazione di Dayton.
I Bosniaco Croati, dal canto loro, con il venir meno del legame federativo, non sarebbero forse tentati di ricercare la agognata unione con la Croazia, almeno nei Cantoni 2 (Posavina), 8 (Erzegovina Occidentale) e 10 (Livno)?
Gli effetti domino innescati da cambiamenti degli assetti balcanici – la storia insegna – possono essere deleteri. Nello scenario regionale, le aree di instabilità lasciate in eredità dal decennio di conflitti sono molte. Lo scenario politico attuale, infine, non è dei migliori. I vincitori delle ultime tornate elettorali in Bosnia Erzegovina, Croazia e Serbia sono gli stessi che hanno condotto le guerre.
E’ pur vero che in Bosnia, 9 anni dopo Dayton, molte cose sono cambiate. Anche le parti tradizionalmente avverse alla affermazione di una unità statale centrale, governata da Sarajevo, sono oggi più inclini a credere che “
lo Stato bosniaco è qui per restare” (“
Making Federalism Work”, Esi, Gen 04). In questi anni, infine, si sono affermati alcuni elementi che tipicamente sottolineano la esistenza di uno Stato: la moneta unica (il marco convertibile); il passaporto unico; la unificazione del registro automobilistico (targhe uniche); un servizio di polizia di frontiera integrato, composto da poliziotti delle diverse etnie.
La celebre sentenza (1 luglio 2000) della Corte Costituzionale bosniaca, che ha imposto di emendare le Costituzioni delle due Entità per assicurare la piena uguaglianza dei tre popoli costituenti in tutto il territorio del Paese, ha suscitato da ultimo grandi speranze nei fautori di una Bosnia unita.
L’Alto Rappresentante Ashdown
Rafforzare lo Stato sembra essere la priorità dell’azione dello stesso Alto Rappresentante. Diversamente dal suo predecessore, Wolgang Petritsch, che aveva avviato una sorta di partnership con la multietnica “Alleanza per il cambiamento”, Ashdown ha preso atto senza scandalo del collasso della Alleanza e della vittoria elettorale dei nazionalisti (Ottobre 2002) iniziando a lavorare con loro sulla base di una agenda molto pragmatica, volta soprattutto alle riforme economiche (in senso neoliberista), e alla normalizzazione dello Stato. “
Quello di cui la Bosnia ha bisogno - ha sostenuto Ashdown in un famoso intervento (cit. in “
Travails of the European Raj”, di G. Knaus e F.Martin, Esi, 2003),
non è la politica, ma le riforme, e in particolare le riforme economiche. La domanda fondamentale che ogni ministro di ogni governo nel Paese dovrebbe rivolgersi ogni giorno è: “Cosa posso fare oggi per fare in modo che la Bosnia Erzegovina diventi un posto migliore in cui fare business?”.
Ashdown ha recentemente concentrato la propria azione su 4 settori, per ognuno dei quali è stata creata una apposita Commissione: tassazione indiretta; difesa; intelligence; Mostar. L’obiettivo di fondo di ognuna di queste commissioni, sinteticamente, potrebbe essere considerato proprio la razionalizzazione dell’esistente nella direzione del rafforzamento delle istituzioni centrali. In particolare, la questione di Mostar, città simbolo della divisione tra Croati e Musulmani, che nel progetto della Commissione Ashdown dovrebbe avere un solo Municipio invece dei sei attuali, può rappresentare un banco di prova interessante per valutare le possibilità di riuscita della proposta Esi. Per adesso, i Croato Bosniaci (Hdz) hanno indetto un referendum contrario da tenersi entro la fine del mese.
Successi sembrano invece provenire dal fronte della unificazione fiscale e delle forze armate. Solo pochi giorni fa, infatti, è stata approvata la legge sulla unificazione delle amministrazioni doganali, volta a introdurre un unico sistema di tassazione indiretta, che in pratica sarà avviato entro il 2006. Per quanto riguarda invece l’esercito - oggi la BH ha ufficialmente 2 eserciti, uno della Republika Srpska e uno della Federazione, quest’ultimo a sua volta separato in due componenti – a partire dallo scorso dicembre, dopo la approvazione degli emendamenti alla costituzione della RS e della nuova legge nazionale sulla difesa, la Presidenza bosniaca ha assunto maggiori poteri di controllo sulle forze armate. Si va di fatto verso un esercito unico.
Prime reazioni della stampa bosniaca alla proposta
La proposta Esi è sata ampiamente ripresa dalla stampa bosniaca. Il sarajevese Dani l’ha presentata pubblicandola per intero, ed è interessante notare come il documento sia stato ripreso anche in Republika Srpska. Il 12 gennaio, V. Popovic ha intervistato per Nezavisne Novine Gerald Knaus, presidente di Esi. L’intervista, forse con un po’ di malizia, è intitolata: “
Abolire la Federazione è vantaggioso per la Republika Srpska” (Nezavisne Novine, 12 gen 04).
A Belgrado infine, nella stessa giornata di lunedì, Danas ha evidenziato la richiesta di alcuni deputati del parlamento europeo di rivedere l'accordo di Dayton. Tra i firmatari di tale proposta, che prevedrebbe una nuova conferenza internazionale con la presenza di Stati Uniti, Unione Europea e Russia, anche l’europarlamentare Doris Pack.
Dayton, Ohio
Il trattato di Dayton costituisce un documento atipico nella storia dei trattati internazionali. Da un lato consiste delle previsioni tipiche di un normale trattato di pace (cessate il fuoco, definizione dei confini, controllo degli eserciti). Accanto a questi aspetti, tuttavia, Dayton si prefigge l’ambizioso compito di porre gli elementi della costruzione dello Stato bosniaco.
L’architettura istituzionale introdotta dal trattato (il cui Annesso 4 è semplicemente la Costituzione della Bosnia Erzegovina) ha come ragione ultima quella di mantenere sul piano politico gli equilibri raggiunti sul campo dagli eserciti. Il bizantinismo del sistema, tuttavia, porta con sé la prevedibile degenerazione. Il mantenimento delle rappresentanze etniche ha infatti creato una struttura artificiale, che non può che essere sotto tutela della comunità internazionale. Alcuni organi (la Dom Naroda centrale, quella della Federazione o lo stesso Ufficio di Presidenza) sono costituiti secondo criteri di “razzismo istituzionale”.
Oggi, in Bosnia, essere Serbo, Croato o Musulmano è diventata una qualifica professionale. Ci sono persone – notano i critici – che siedono sulla tale poltrona in ragione della loro appartenenza etnica, non per la competenza o responsabilità dimostrata. E’ un sistema bacato. E poi, che dire delle altre minoranze o di chi non si riconosce nei tre gruppi maggioritari, magari perché appartiene ad una famiglia multietnica?
Dayton ha avuto il merito fondamentale di fermare il massacro in corso nel Paese. Ma il prodotto di questo sistema sono stati 9 anni di “pace fredda” (v. “
Pace fredda in Bosnia Erzegovina”, intervista al prof. Gajo Sekulic, Osservatorio Balcani 3 Dic 02), in una Bosnia sostanzialmente governata dalla comunità internazionale.
Poteva essere altrimenti? L’accordo di Dayton è un documento sottoscritto negli Stati Uniti da alcuni criminali di guerra chiusi all’interno di una base aerea dell’Ohio. L’obiettivo fondamentale che attraversa tutto il trattato è quello di sottrarre la Bosnia Erzegovina ai cittadini per affidarla ai gruppi etnici (che ritornano in quanto tali in tutti i principali livelli di governo) e alla comunità internazionale.
Il meccanismo interno che, si pensava, avrebbe potuto rompere la prospettiva etnica era quello dell’Annesso 7. E’ la parte più famosa del corpus del trattato, quella dedicata ai ritorni, che all’articolo 1 afferma il “
diritto di tutti i rifugiati e sfollati a ritornare nelle proprie case di origine”. A 9 anni di distanza, la chiave per poter valutare il successo o l’insuccesso di Dayton – e di sue eventuali riforme - sta proprio nella analisi dell’Annesso numero 7.
Quanti sono coloro che hanno dovuto abbandonare le proprie case in conseguenza della pratica della pulizia etnica? Secondo le stime, più di metà della popolazione bosniaca, circa due milioni e duecentomila persone. Al 30 Novembre 2003 sono poco meno di un milione (982.120, Unhcr 30.11.03) quelli che sono tornati. Il risultato è un chiaroscuro, l’operazione è riuscita a metà.
Oggi, a nove anni dalla fine delle ostilità, non esistono dati su quanti siano i Bosniaci in giro per il mondo o gli sfollati interni che hanno abdicato alla speranza di tornare. La comunità internazionale preme per chiudere la questione dei ritorni entro il 2006. La Reconstruction Return Task Force (RRTF, organismo di coordinamento tra le varie istituzioni ed agenzie nazionali ed internazionali preposte a favorire i ritorni) ha chiuso i battenti il 31 dicembre scorso. Le sue funzioni sono state rilevate dal Ministero Bosniaco per i Diritti Umani e i Rifugiati.
Centri studi come padri costituenti/Il livello locale
Lo European Stability Iniziative, Esi, è un centro studi che alcuni mesi fa ha catalizzato l’attenzione dei media pubblicando un documento che paragonava scandalosamente l’Alto Rappresentante della Bosnia Erzegovina ad un Raja imperiale nell’India del XIX secolo. Secondo Esi, i poteri della comunità internazionale in BiH non hanno chiari limiti, né in termini temporali né di attribuzioni, l’Alto Rappresentante si trova nella posizione di non dover rispondere a nessun elettore e la sua prassi è quindi fondamentalmente antidemocratica. Il documento – interpretato come una forte critica nei confronti del tipo di intervento attuato dalla comunità internazionale in BiH – sottolinea la impossibilità di favorire una transizione democratica in questo modo.
Molti hanno letto la pubblicazione come un ammonimento nei confronti di un eccessivo interventismo, e un richiamo alla necessità che siano i Bosniaci ad occuparsi del proprio Paese. Questa nuova proposta (“Making federalism work”) non ci riporta verso uno scenario in cui sono i centri studi internazionali a definire gli assetti istituzionali di Paesi terzi?
Il documento Esi ha un pregio fondamentale: provoca (sta già provocando) dibattito, pone questioni fondamentali che non possono essere eluse. Il limite di tutte le proposte calate dall’alto, però, è che difficilmente tengono in considerazione quello che c’è in basso. Nella realtà della Bosnia Erzegovina di oggi, il livello fondamentale è quello locale. E’ qui che avvengono – se avvengono – i ritorni. Sono i sindaci a firmare gli ordini di sgombero degli appartamenti occupati a seguito della pulizia etnica, per restituirli ai legittimi proprietari. E’ qui che avvengono, se avvengono, veri processi di riconciliazione, non nelle conferenze internazionali a Sarajevo. E’ da qui che può ripartire lo sviluppo del Paese, non certo agganciando gli ex kombinat statali alle reti lunghe della globalizzazione. Purtroppo, il livello locale non è preso in considerazione dal documento. Siamo ancora al livello delle alchimie istituzionali fatte dalla comunità internazionale.
Al centro del dibattito
Abolire le Entità in sé non significa molto, se questo non permette di innescare un processo di uscita dall’incubo nazionalista, e di restituzione dello Stato ai cittadini. Perché questo sia possibile, al centro del dibattito devono esserci proprio loro, i cittadini. Si tratta di una sfida che non riguarda solamente la Bosnia, ma lo stesso scenario dell’Europa dei migranti. Il punto di partenza non sono gli assetti istituzionali, ma i diritti di cittadinanza, da declinare apertamente su base laica, sganciandoli dalle appartenenze nazionali o religiose. Se questo processo si afferma dal basso, nella società, le istituzioni dovranno esserne conseguenti, divenendo espressione di cittadini, non di collettività etniche. Difficile che avvenga il contrario.
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Making Federalism work – a radical proposal for practical reform
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Accordi di Dayton
Vedi anche:
- Dayton ha fatto il suo tempo? - 3
- Dayton ha fatto il suo tempo? - 2