La ownership locale, intesa come processo di riappropriazione della vita e dei destini del Paese, è un concetto di importanza fondamentale. Cosa succederà tuttavia quando il governatore internazionale della Bosnia Erzegovina se ne andrà? Un contributo al dibattito sulla Bosnia di Dayton
Christophe Solioz
Di Christophe Solioz*
Tradotto da: Daniela Mezzena
Riceviamo dall'autore e volentieri pubblichiamo
SARAJEVO, Bosnia Erzegovina — L’avvicinarsi del decimo anniversario dell’Accordo di pace di Dayton del novembre 1995 ci offre una buona opportunità per rivederne successi e difetti e per valutare le sfide che, sia la comunità internazionale che la Bosnia, dovranno affrontare nei prossimi anni.
Studi accademici sui processi di transizione suggeriscono che dieci anni di massiccio intervento straniero dovrebbero essere sufficienti per il consolidamento degli accordi post-bellici e per stabilire un ordine costituzionale permanente. È quindi ora di chiedersi se qualche aggiustamento strategico possa essere necessario per la fase finale di "peace implementation" in Bosnia.
RESISTENZA ALLE RIFORME
Prima di discutere della transizione in corso dal programma di Dayton ad un programma di integrazione europea, dobbiamo considerare che cosa renda l’attuale situazione almeno in parte insoddisfacente.
In primo luogo, si assiste ad una continua e significativa resistenza ai vari progetti di riforma per la Bosnia. Questo può essere in parte ricondotto all’iniziale ristrettezza di vedute della comunità internazionale ed alla sua inadeguata strategia nell’affrontare la situazione sul campo. L’originario approccio minimalista all’implementazione della pace deve essere criticato – ma non si tratta solo di questo. L’ostruzionismo bosniaco – causato soprattutto dalle forze etno-nazionaliste ancora in carica, da un economia di tipo mafioso, e dalla corruzione generale - ha puntualmente bloccato la transizione verso un’economia sostenibile ed uno Stato stabile.
La conseguenza – e lo scopo – di questa resistenza locale è quella di rinforzare varie forme di dipendenza sia durante che dopo la guerra. Non bisogna dimenticare che il nazionalismo etnico spesso è semplicemente una copertura per particolari interessi economici e lotte per il potere.
In secondo luogo, ci sono problemi di specificità e complessità. La specificità e la complessità del processo di transizione in Bosnia, che è diverso da quello dell’Europa centrale, sono dovute al passaggio della Bosnia da un’economia pianificata e da uno stato monopartitico, ad un’economia di mercato e ad una democrazia liberale affette da sottosviluppo. A questo si aggiungono elementi legati al vecchio socialismo e alla nuova criminalità, un fiorente mercato nero, e politici corrotti.
L’economista
Vladimir Gligorov ha sostenuto che il fallimento dell’iniziale transizione nei Balcani abbia posto la regione su una traiettoria diversa rispetto all’Europa centrale e che i paesi dei Balcani si debbano ora imbarcare su quella che ha definito una “seconda transizione".
Secondo Gligorov, le istituzioni finanziarie internazionali hanno fallito nel riconoscere le differenze fondamentali tra i paesi post-socialisti: ”Mentre la transizione è stata il problema dominante nell’Europa centrale, nei Balcani la questione più importante è quella dello sviluppo.”
Zarko Papic ha usato il concetto di “tripla transizione”: “dalla guerra alla pace, dall’assistenza di emergenza allo sviluppo sostenibile, e da un’economia pianificata e dal monopolio politico ad un’economia di libero mercato, democrazia, e società civile. Il secondo punto di Papic mette in luce una caratteristica specifica dello sviluppo della Bosnia nel dopoguerra: la transizione verso la sostenibilità e la piena sovranità. Così, da un punto di vista strutturale, gli attori internazionali e locali stavano affrontando una serie di sfide complesse e correlate.
Questo aiuta a spiegare perché la Bosnia rimanga indietro rispetto alla Croazia e alla Serbia-Montenegro in ogni indicatore sociale, politico ed economico relativo al processo di transizione. Il paese progredisce di anno in anno, ma più lentamente di altri paesi nella regione.
In terzo luogo, c’è la natura problematica delle relazioni tra locali e stranieri. In questo contesto, è importante considerare innanzitutto una serie di fattori strutturali più tecnici: la limitata capacità del paese di introdurre ed implementare simultaneamente più programmi di riforma nel breve periodo; la scarsa capacità di indirizzare l’uso delle risorse con un occhio alla sostenibilità; e la mancanza di un supporto più mirato non solo riguardo alle riforme ma anche in termini di bisogni di sviluppo immediati. Un ulteriore fattore sta nel fatto che i programmi di riforma sono generalmente improntati alle priorità internazionali e non si preoccupano molto di rafforzare la ownership locale di queste riforme.
Secondo
Marie-Janine Calic, potremmo descrivere lo Stabilization and Association Process (SAP) dell’UE come troppo incentrato sull’integrazione. “L’Unione si è spostata velocemente dalla stabilizzazione e dalla ricostruzione verso l’armonizzazione e l’assistenza finalizzata all’accesso” e verso riforme strutturali di lungo periodo. In ogni caso, “i problemi urgenti (…) richiedono un intervento immediato e specifico che va oltre gli scopi e i mezzi del SAP”.
Perciò,
la contrapposizione tra influenze e priorità esterne da un lato, e attori locali e loro priorità dall’altro, deve essere analizzata in profondità. Ho evidenziato in altra sede che la dipendenza è un fenomeno complesso e che i suoi effetti perversi non possono propriamente essere spiegati con la mancanza di adattabilità di chi esporta o con il comportamento patologico di chi importa. Uno deve prendere in considerazione non solo la mancanza di funzionalità delle strategie o dei modelli imposti, ma anche il fatto che le varie logiche dell’importazione porteranno la Bosnia a inventare la propria pratica statale, trasformando così il modello promosso dagli accordi di Dayton ed implementato attraverso diversi programmi di riforma.
In opposizione a questo scenario, è discutibile se la diffusione di influenze esterne, anche se mediata da attori endogeni, rafforzi realmente l’autonomia locale potenziale.
Il futuro del paese dipende largamente dalla sua capacità di assumere gradualmente il controllo dei processi di riforma e di transizione. Il punto è che i Bosniaci non cercano di appropriarsi del futuro del loro paese perché non riescono a trovare un accordo tra di loro su come questo futuro debba essere. Perciò, la ownership e la volontà politica locale sono temi correlati e prerequisiti per ogni futuro sviluppo costruttivo.
In quarto luogo, l’intervento è un compito interminabile? C’è crescente preoccupazione sul fatto che il progresso in Bosnia sia stato disperatamente lento. Il paese ha tardato nel rispettare le scadenze sia esterne che auto-imposte. Ma
la lentezza caratterizza anche gli attori stranieri. La protesta di
Morton Abramowitz sul fatto che “la comunità internazionale sia stata eccessivamente lenta nell’incoraggiare e fornire alla popolazione del Kossovo i mezzi per potersi auto-gestire” si applica altrettanto bene alla Bosnia. I punti trattati sopra riguardo all’ostruzionismo (che spesso è dovuto a interessi privati), a strategie esterne inadeguate o sbagliate, a complessi processi di transizione e così via, possono in parte costituire una spiegazione. Ricordiamo la situazione della Francia alla fine della seconda guerra mondiale: nel 1945 la rimozione delle macerie, nel 1946 lo sminamento, nel 1947 la ricostruzione, nel 1950 la normalizzazione e solo negli anni Sessanta la piena ripresa! Lo storico francese
Danièle Voldman ricorda che la ripresa post-bellica fu un processo lungo e difficile, pieno di disillusioni. Perché dovrebbe essere diverso oggi, nei Balcani?
L’INTEGRAZIONE EUROPEA
Il rapporto dell’Unione Europea del marzo 2004 sui risultati raggiunti dalla Bosnia nel processo di integrazione è deludente, ma la valutazione estiva dei progressi rispetto ai 16 punti d’azione dell’UE per la Bosnia sembra molto più incoraggiante. In soli pochi mesi, le autorità bosniache hanno fatto considerevoli progressi nel raggiungimento dei requisiti legali dello studio di fattibilità a livello statale.
La Direzione bosniaca per l’integrazione europea appoggia questa visione ottimistica: entro il 31 luglio 2004, prima di aggiornarsi per l’estate, le due camere del parlamento hanno adottato 21 delle 40 leggi in agenda, e le restanti 19 erano sottoposte all’iter legislativo.
Successivamente, il rapporto sottolinea l’importante fatto che l’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR), non abbia imposto nessuna di queste leggi. L’OHR è l’agenzia internazionale a cui spetta implementare gli accordi di Dayton e dispone di considerevoli poteri nel censurare o rimuovere gli ufficiali eletti e nel redigere – e spesso imporre – le leggi.
Anche se la comunità internazionale è spesso responsabile nel promuovere l’adozione e l’implementazione di questo pacchetto di riforme, soprattutto attraverso la redazione del 60% circa delle leggi sopra citate (spesso con una partecipazione solo minima da parte dei funzionari bosniaci), da parte della Direzione per l’integrazione europea vengono fatti reali sforzi per sviluppare gradualmente e sistematicamente le basi legali e formali per strutture istituzionali in linea con i requisiti di ammissione.
Queste riforme non devono rimanere sulla carta, ma devono essere implementate. Devono anche essere consolidate: deve essere trovato un meccanismo internamente sostenibile per assicurare l’effettiva implementazione delle riforme nello Stato, nell’entità e nei livelli di governo più bassi e per aumentare le chances che i traguardi ottenuti con le riforme durino effettivamente.
Nei successivi 12 mesi, l’OHR dovrà dedicarsi all’implementazione del pacchetto di riforma, ma la logica delle riforme richiede anche che, in questa fase, i funzionari internazionali lavorino a stretto contatto con le autorità bosniache. Se questi recenti sviluppi si svolgono come anticipato, potremo osservare la maturazione di un consenso sul programma di riforme e quindi di una condizionalità proforma che si avvicina all’effettiva ownership.
Il 1 settembre 2004, l’attuale Alto Rappresentante, Paddy Ashdown, ha espresso il suo ottimismo a questo proposito, affermando che il governo bosniaco stava per concludere la maggior parte del lavoro. Ma non è certo che sia proprio così –
in questo momento sembra molto improbabile che la Bosnia riesca a rispettare la scadenza del 18 novembre 2004 fissata dall’UE.
Il portavoce della delegazione dell’UE a Sarajevo,
Frane Maroevic, ha suggerito che la metà del 2005 potrebbe essere una scadenza più realistica. Qui potrebbe essere utile considerare che i paesi dell’Europa Centrale hanno impiegato 15 anni di dure scelte e profondi mutamenti prima di essere accettati nell’UE. Questo potrebbe aiutare tutti gli interessati ad accettare l’ovvio fatto che la strategia di accesso della Bosnia necessita di tempo per essere completata.
C’É VITA DOPO L’ALTO RAPPRESENTANTE?
Entro la fine del 2004, la Bosnia diventerà il primo paese esterno all’UE nel quale tutti gli strumenti del “secondo pilastro” dell’Unione - Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD) – verranno utilizzati sul campo.
In aggiunta alla Missione di Monitoraggio dell’Unione Europea (EUMM) e alla Missione di Polizia dell’Unione Europa (EUPM), una forza di pace guidata dall’UE - nome in codice ALTHEA ma è conosciuta come EUFOR - subentrerà alla Forza di Stabilizzazione (SFOR) sotto il comando della NATO alla fine del 2004. Dal maggio 2002, l’Alto Rappresentante Ashdown ha esercitato anche la funzione di Rappresentante Speciale dell’Unione Europea e gradualmente si concentrerà su questo secondo incarico;
ciò che attualmente è l’Ufficio dell’Alto Rappresentante (OHR) diventerà progressivamente l’Ufficio del Rappresentante Speciale dell’Unione Europea (EUSR) e coordinerà e guiderà le agenzie dell’Unione Europea che operano nel paese.
Dato che l’UE è ora maggiormente coinvolta e visibile in Bosnia, il ruolo dell’Alto Rappresentante diventerà meno interventista; egli dovrà ricorrere in misura minore alla propria considerevole autorità – aumentata nel 1997 con i cosiddetti “poteri di Bonn” – e invece ricoprire il ruolo di facilitatore. Mentre il SAP spinge le strutture politiche domestiche alla competenza e alla responsabilità, l’uso dei poteri di Bonn rinforza la dipendenza e l’irresponsabilità. Questa contraddizione ora deve essere superata:
i poteri di Bonn dovrebbero essere usati solo in circostanze eccezionali e dovrebbero essere ceduti al più tardi entro la fine del 2005, dal momento che solo uno Stato pienamente sovrano può candidarsi ad entrare in Europa.
Quello che serve è, in effetti, un mutamento istituzionale. L’anno 2005 dovrebbe essere – e si spera sarà - una pietra miliare per il paese: gli attuali, per lo più informali cambiamenti che stanno avvenendo all’interno dell’OHR dovranno essere definitivamente istituzionalizzati. L’OHR stesso dovrebbe chiudere entro la fine del 2005 e passare la maggior parte delle proprie prerogative alle autorità locali; quelle restanti saranno trasferite alla funzione di supervisione dell’EUSR. Le autorità dovranno accollarsi queste responsabilità e assumere la piena ownership del paese; allo stesso tempo dovranno iniziare un processo di riforma costituzionale che coinvolga tutte le forze politiche, compresa la società civile.
Il maggiore coinvolgimento dell’UE dovrebbe convincere i bosniaci scettici che l’UE rimane pienamente impegnata nell’integrazione europea del paese. Il fatto che la nuova Commissione europea abbia trasferito la responsabilità per la Bosnia dalla propria Direzione Generale per le relazioni estere alla Direzione Generale per l’allargamento è un chiaro segnale che Bruxelles si sta muovendo nella direzione giusta.
Tuttavia, ci sarebbero da fare ulteriori passi concreti: andrebbe sviluppato un approccio settoriale per implementare la cooperazione funzionale, dovrebbe essere fornita un’assistenza pre-accessione aggiuntiva, andrebbe sciolto il regime dei visti e offerta l’inclusione in un limitato numero di programmi comunitari e comitati.
Ma la partnership non è abbastanza: quello che conta è la ownership.
L’alternativa alla condizionalità propria dell’intervento esterno non consiste né in una condizionalità favorevole alla ownership, né in una condizionalità positiva, ma piuttosto si tratta di concentrarsi su processi che sostengono la ownership domestica basata sul consenso. Questo richiede, primo, un’ampia partecipazione che promuova un dialogo domestico aperto, coesione sociale e consenso; secondo, un mutamento nel modo in cui l’assistenza esterna interagisce con gli attori locali; e terzo, politiche e strategie basate sul consolidamento democratico e che portino ad una crescita economica di lungo periodo.
Perciò, l’implementazione e il consolidamento delle riforme possono essere raggiunti solo attraverso una reale ownership dei programmi di riforma che, in questo caso, sono stati iniziati con l’aiuto di una limitata condizionalità.
Quello di cui c’è urgentemente bisogno ora è di rovesciare la relazione tra condizionalità e ownership. Senza questo cambiamento la Bosnia non progredirà.
*Christophe Solioz è Direttore del Forum per le Alternative Democratiche Sarajevo/Ginevra/Bruxelles e Direttore esecutivo dell’Associazione Bosnia Herzegovina 2005. Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non necessariamente riflettono il punto di vista delle organizzazioni cui appartiene. Solioz parteciperà al convegno annuale di Osservatorio sui Balcani a Venezia il 3 e 4 dicembre prossimi.