Cosa abbiamo imparato?
23.02.2007
Una riflessione di Melita Richter che prende spunto dalla recente polemica Mesic-Napolitano in occasione del Giorno del Ricordo. E' possibile, si chiede la Richter, archiviare tutto con i titoli cubitali: ''Mesic fa marcia indietro?" o ''L'impasse è stata superata?''
Di Melita Richter*
Durante un viaggio a Salerno nel maggio del 2001 di uno dei più grandi poeti jugoslavi, Izet Sarajlic, autore amato anche a Trieste per i suoi versi di intensa umanità, Sinan Gudzevic, il suo traduttore, lui stesso poeta, filologo e autore di “Epigrammi romani”, ha raccolto la seguente testimonianza. Il tratto che riportiamo si riferisce al dialogo che nel bar “Coppola” di Salerno, il poeta condusse con una giovane donna ucraina. Il tema non poteva non addentrarsi nella questione bosniaca. Ma tocca anche noi, aggiunge una riflessione preziosa alle recenti polemiche scoppiate tra Italia e Croazia provocate dalle parole pronunciate dai due presidenti.
- Quale Bosnia, cara Oxanuska? Un paese di cui non possono individuare le frontiere sulla carta geografica? Io con il mio passaporto bosniaco posso andare al massimo al supermercato senza visto d’entrata. Sai, la Bosnia è un pullman in fiamme e l’Italia è quel martello con il quale si rompe il vetro per salvarsi.
- Non sono stati proprio alcuni italiani a uccidere suo fratello?
- Sì, cara signora, questi “alcuni” si chiamavano le camicie nere. Nel 1942 hanno fucilato mio fratello Ešo. Aveva diciannove anni. Non aveva fatto loro nulla di male, oltre a essere un membro della gioventù comunista jugoslava. E sai, mia cara, che i miei genitori per molte estati dopo la guerra trascorrevano le loro vacanze nella riviera montenegrina e per lo più di fronte all’isola di Mamula dove era stato fucilato il loro figlio. Si mettevano a sedere a guardare verso l’isola. Così anno per anno passavano le vacanze dei miei genitori. Ma devi anche sapere questo: dopo l’uccisione di mio fratello, un soldato del 55° reggimento italiano veniva sempre a casa nostra per avvisarci quando si preparavano le razzie. Quando bussava alla porta, io, allora fanciullo di dodici anni, chiedevo chi era e la sua voce diceva: io. Da quei giorni, l’Italia è stata per me quell’IO. La mia famiglia non si mise ad odiare l’Italia, anzi: mia sorella Raza si è dedicata alla letteratura e alla cultura italiana. Ha tradotto La storia di Elsa Morante e anche Pinocchio. E anche io, cara Oxanuska, anch’io ho dato qualche contributo all’amore per questa nostra Italia. Qui, a Salerno, ho avuto un magnifico amico, Alfonso Gatto, che veniva anche da me, a Sarajevo. Egli è stato un poeta senza pari, un “Vesuvio di talento” artistico. Quando veniva a casa mia si metteva a dipingere mia figlia. E sai come le faceva i ritratti? In tre o quattro pennellate. E quante volte cantavamo insieme le arie di Albinoni! A casa mia venivano a trovarmi Gianni Rodari, Luciano Morandini, poi Toni Maraini, che chiamo sorella dopo che sono morte entrambe le mie. Hai capito perché l’Italia è per me quel martello?
Chi può dire quante memorie simili giacciono nel fondo del cuore delle genti dall’altra parte del confine chiamato “orientale”? Forse ogni famiglia che vive sul palmo amaro dei Balcani ha una sua memoria che custodisce nello scrigno sigillato da dolorose elaborazioni, schegge inflitte dalla seconda guerra mondiale. Negarle? Tentare di interpretare la storia con le scorciatoie di un vittimismo unilaterale per lo più sfruttato da correnti politiche di una destra estrema? Insorgere contro i silenzi e le rimozioni storiche pretendendo silenzi e rimozioni delle memorie dell’Altro? Simili tentativi parlano del grado della maturità democratica di una nazione. Il concetto di responsabilità nel mondo democratico è altro.
Alla fine del secolo appena concluso, la scia dei nazionalismi contrapposti accompagnati da creazioni di miti fondanti di identità omologate, collettive, ha portato alla guerra i popoli slavi del sud, ha insanguinato un’altra volta il ventre molle dell’Europa. Allo stesso tempo, dai bui scenari dei Balcani ci arrivavano fiammelle di una società diversa, della possibile opposizione alla militarizzazione delle menti. Ci giungevano nette le posizioni dei movimenti pacifisti, delle donne e degli intellettuali liberi che hanno ripetutamente esaminato se stessi/e sulla questione della responsabilità e tuttora continuano a sollevarla come una delle questioni di maggior rilievo politico.
Hanno puntato il dito contro il nazionalismo, non quello degli altri, ma del proprio. Hanno denunciato l’inaudita indifferenza verso i destini di centinaia di migliaia di persone che la parte nazionalista serba aveva gettato nel lutto e resi infelici. Hanno chiesto che alle vittime venga restituita la dignità umana. Hanno combattuto contro la relativizzazione del crimine non permettendo di rimuovere una guerra con l’altra. Non hanno permesso che venisse steso un velo sul crimine commesso a loro nome. E nelle piazze e nelle strade di Belgrado, dal 1991 fino ad oggi, continuano a ripetere: “non a nostro nome”. Hanno visitato i luoghi “ostili”, quelli trovatisi in Stati-Nazione “nemici”, luoghi difficili dove il male è stato commesso dai loro connazionali, dai “difensori della patria”. Hanno preso parte nelle commemorazioni delle vittime dell’Altro. Si sono riappropriati della responsabilità e la esigono dagli altri. Hanno portato le donne di Srebrenica a testimoniare in pieno centro di Belgrado nell’aprile del 2002, per ascoltarle, per raccogliere il loro dolore, per rispettare la loro dignità. Per ampliare le loro voci affinché nessuno osi più dire: “Non lo sapevamo”. Ci hanno insegnato che il dissenso dalla follia è possibile. Io, donna croata, ho ammirato il loro coraggio.
L’attuale polemica tra i due presidenti in occasione del Giorno del Ricordo, a noi, cosa ha insegnato? La scia degli interventi sulla stampa ha contribuito forse alla consapevolezza del crimine inflitto all’Altro a nome della propria identità etnica, nazionale, ideologica, culturale? E’ possibile archiviare tutto con titoli cubitali: “Mesic fa marcia indietro” o “L’impasse è stata superata”… Mesic non sarà stato un bravo diplomatico, da presidente ha sbagliato. Mesic potrà un domani non fare più il presidente della Croazia. Rimarrà Stipe Mesic, uomo e antifascista. Come lo sono ancora milioni di cittadini nell’Europa, nei Balcani, nell’Istria croata e slovena, in Italia. Si potrà occultare la loro memoria storica? Si potranno proporre le mezze verità e le verità dimezzate come verità assolutizzanti? Come miti di un patriottismo fondato sul vittimismo?
Sapranno mai i giovani da una e dall’altra parte del confine che cosa ha significato il ventennio fascista nelle terre di confine? L’espressione “olio di ricino” assumerà lo stesso significato da una e dall’altra parte? Non soltanto del discorso del Duce del 1920 tenuto a Pola in cui annunciava quella che divenne la sua politica in queste terre: “Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”, gli alunni italiani non troveranno traccia nei libri di testo, non dell’incendio del Narodni Dom di Trieste, della Camera di lavoro di Pola, della Casa del Popolo di Dignano, delle tipografie dei giornali “Il Proletario”, “Edinost”, delle Sedi Riunite dei sindacati a Fiume, delle scorrerie delle squadre fasciste di Domenico Giunta, delle spedizioni punitive, del memoriale di Italo Sauro sui provvedimenti da adottare per una rapida snazionalizzazione delle popolazioni slovene e croate della Venezia Giulia, di quel programma “legale” di snazionalizzazione nei confronti degli sloveni e croati che il Trattato di Rapallo aveva destinato a vivere dentro i confini dello stato italiano, come scrive Enzo Collotti in “Antifascismo e resistenza nella Venezia Giulia”.
Essi non potranno neppure vedere il documentario “Fascist Legacy” sui crimini di guerra italiani nei Balcani e nell’Africa documentati dalla BBC (e non prodotti dagli “slavo-comunisti”), il documentario tuttora interdetto al pubblico italiano perché erode il mito accomodante di “italiani brava gente”. Non potranno neppure interrogarsi come mai i gerarchi fascisti, i 1200 italiani criminali di guerra non sono mai stati giudicati da un tribunale allo stesso modo dei gerarchi nazisti? E dell’esodo, delle foibe, avranno un insegnamento storico coretto? Quello che riconosce l’ingiustizia inflitta, le sofferenze degli innocenti e il crimine commesso in nome delle ideologie estremizzate, un insegnamento non strumentalizzato per fini di fazioni politiche parziali. Citiamo ancora lo storico Collotti che a questo proposito scrive: “Continuare a deprecare le foibe senza porsi l’obiettivo di contestualizzarne l’accaduto contribuisce a fare retorica, ad alimentare il vittimismo e a offendere ulteriormente la memoria di chi è stato coinvolto in una atroce vicenda e soprattutto di chi ha pagato, innocente, per responsabilità altrui.”
Se non siamo capaci di imparare la lezione dalla storia da soli, prendiamo l’esempio da altri. Prendiamo l’esempio dall’insegnamento del rispetto delle memorie separate nelle terre che sanguinano tuttora, un esempio di straordinario significato che portano avanti dodici insegnanti israeliani e palestinesi delle superiori che non cercano di unificare le memorie, e tanto meno di cancellarle, ma di metterle a confronto, di raccogliere la narrazione dell’altro. Consapevoli che ambo i popoli sono stati traumatizzati, gli Israeliani dal ricordo del genocidio, i Palestinesi da quello dell’espulsione, si sono resi conto che sarebbe puerile chiedere loro di scrivere la stessa storia. Hanno redatto un manuale scolastico che raccoglie il racconto degli eventi storici contemporaneamente da due punti di vista, dando così la possibilità agli insegnanti e agli allievi di poter rimettere in questione i fondamenti delle prospettive storiche da ambo le parti. Per i momenti fondamentali nella storia dei due popoli sono stati scelti: la dichiarazione Balfour, la guerra del ‘48 e la prima Intifada. Due versioni, in arabo e in ebraico, due testi sul vissuto dei due popoli attorno agli stessi avvenimenti, a confronto, la versione israeliana e palestinese, di pari diritto. Al centro di ogni pagina uno spazio bianco che separa le due versioni in modo da consentire a maestri e allievi di scriverci le proprie osservazioni. Per correggere, completare, arricchire i testi scolastici con il vissuto delle persone in carne e ossa. Il progetto porta i nomi che godono di grande prestigio da ambo le popolazioni: Dan Bar-On, Sami Adwan, Adnan Musallam, Eyal Naveh.
Sarebbe possibile “da noi”, intendendo qui un “noi” plurale, non omologante? Probabilmente no. I nostri ragazzi sono esposti alla balia della polemica mediatica lontana da un vero dibattito e all’insegnamento della storia rimossa dalle fiction televisive in bianco e nero che più nero non si può. Eppure, loro hanno sviluppato le armi dell’autodifesa. Lo dicono le testimonianze degli studenti delle scuole superiori italiane e slovene di Gorizia e Nova Gorica. Riportiamo una voce tra le tante:
“La travagliata storia di queste terre ci ha fatto guardare chi abita al di là del confine con aria di superiorità, dall’alto al basso, come chi guarda gli sconfitti, anche se poi siamo sconfitti dalla storia un po’ tutti”.
* Melita Richter è sociologa e scrittrice