Il dolore degli altri
08.02.2008
scrive Michele Nardelli
"Memoria", Magritte
Una memoria che andrebbe coltivata, resa viva e feconda nel confronto con gli altri. Aperta al rigore della ricerca storica e capace di elaborazione collettiva. Una riflessione in occasione della ''Giornata del Ricordo''
Se la memoria individuale già fatica a fissare l’esperienza passata di ognuno focalizzandola nello spazio e nel tempo, nel coglierne cioè l’essenza attraverso la nostra capacità di elaborazione personale, quella collettiva è ancora più fragile e suscettibile di manipolazione. La memoria è una funzione difficile da maneggiare, si perde, può essere difettosa, ingannevole, incline alla rimozione.
Eppure non si vive senza memoria. Rappresenta qualcosa di essenziale per la crescita di un individuo come per una comunità di persone. Andrebbe coltivata, resa viva e feconda nel confronto con le esperienze e le memorie degli altri. Aperta al rigore della ricerca storica e capace di elaborazione collettiva.
Siamo invece in presenza di continui cortocircuiti della memoria, tanto che le nuove guerre si nutrono della distruzione della storia e i loro obiettivi sono diventate le biblioteche nazionali.
Di memoria, tuttavia, se ne parla, forse più che in passato. Ma ancora nelle ricorrenze e nelle celebrazioni, stupiti dell’oblio che ci circonda. Forse faremmo meglio a chiederci quali sono i luoghi di elaborazione collettiva…
L’istituzione delle giornate della memoria o del ricordo, a guardar bene, ci parlano di questa incapacità di indagare sui conflitti, dell’assenza di luoghi di elaborazione collettiva o dell’inefficacia di quelli sin qui istituiti.
E’ accaduto infatti che la retorica s’impadronisse della memoria, imbalsamandola in rituali sempre uguali a se stessi, mortificandola nell’iconografia di Stato, manipolandola per fini di lotta politica.
Non riuscendo, in altre parole, a fare della memoria una forma di educazione permanente, affinché le tragedie che hanno accompagnato l’umanità, le guerre e le “conquiste”, l’olocausto come i campi della morte e i gulag… – nel loro riapparire – divenissero un patrimonio condiviso ed elaborato, capace di generarne gli anticorpi necessari.
Era quel che si proponevano i Costituenti nel secondo dopoguerra, all’indomani di una immane tragedia che aveva devastato l’Europa e non solo, nell’intento di ripudiare la guerra, nel bandire il fascismo e il razzismo… per poi dover prendere atto che anche la Costituzione avrebbe potuto diventare carta straccia se non studiata, elaborata, resa viva nella cultura delle persone. Dovremmo dirci con severità e serenità che siamo caduti nella retorica delle ricorrenze, caricate di valore a seconda della sensibilità politica e culturale di chi è al potere.
Si dice bene che un paese senza memoria non ha futuro. Ma che cosa abbiamo saputo elaborare della storia di questo nostro paese? Delle inutili carneficine della “grande guerra”, delle nostre imprese coloniali che in nome della civiltà hanno fatto uso dei gas, del fascismo e dell’antisemitismo, dei campi della morte che “gli italiani brava gente” istituirono dall’altra parte dell’Adriatico, dell’italianizzazione forzata del Sud Tirolo, di una questione meridionale che ha diviso e ancora divide questo nostro paese?
E della tragedia delle foibe e dell’esodo di migliaia di italiani dall’Istria e dalla Dalmazia? Una vicenda che nel clima di riscatto dal fascismo è stata taciuta o negata. In un tempo di particolare furore ideologico c’era da costruire una difficile unità nazionale. Forti erano le connessioni con il ventennio che dell’italianizzazione di regioni adriatiche tradizionalmente miste aveva fatto vanto. Quell’esodo e quei morti risultavano ingombranti perché mettevano sotto accusa i vincitori, la loro ideologia comunista ma anche il progetto nazionalista anti-italiano e infine le loro ritorsioni in riposta ai crimini del nazismo e del fascismo.
Alla meticolosa ricostruzione degli avvenimenti si preferì il silenzio. Alle vittime non rimaneva che il dolore, l’umiliazione, il rancore.
Lungo gli anni qualcuno ha pure cercato di ricostruire con rigore e imparzialità le vicende che hanno segnato il confine nord-orientale del nostro paese, ma si trattava di una verità scomoda a destra, al centro e a sinistra. Un lavoro prezioso, che ci consegna una vasta bibliografia di ricostruzione degli avvenimenti e di testimonianze e che ci mette nelle condizioni di poter dar corpo – qualora ce ne fosse la volontà – ad una memoria condivisa di quella vicenda.
Per quest'ultima non serve la propaganda né la retorica del numero dei morti (come se il valore della vita delle persone o delle sofferenze dipendesse dalla dimensione della tragedia), ma un’elaborazione collettiva di quel conflitto. Servono luoghi nei quali sedersi e parlare, guardandosi negli occhi, riconoscendo in primo luogo il dolore degli altri. Non tanto per stabilire chi avesse ragione e chi torto, ma semplicemente per far emergere dalle narrazioni di ciascuno i possibili punti d’incontro di una memoria condivisa o almeno parzialmente condivisa. Riconoscendo, ad esempio, che la cultura della violenza era (ed è) insita nel nazionalismo e che da quell’incubo confinario facciamo fatica ad uscire anche oggi che a Gorizia ed altrove si sono eliminati i muri e i reticolati, se quei muri e quei reticoli rimangono nel nostro modo di pensare.
Credo che dovremmo usare le giornate istituite per il ricordo per interrogarci su quel che significa riconciliazione, parola vuota se non coniugata con il concetto e la prassi dell’elaborazione dei conflitti. Che non si fa con le corone di fiori sui luoghi della memoria una volta l’anno, ma lavorando sulla questione della memoria come parte della cultura di ognuno di noi. Un tema al quale come Osservatorio sui Balcani abbiamo dedicato, oltre al convegno annuale del dicembre scorso e un film (“Il cerchio del ricordo”), un’attenzione pressoché quotidiana.
Se poi vogliamo mettere anche un fiore in luoghi spesso dimenticati, penso che ciò non guasti affatto.