Di Paolo Rumiz*, il Piccolo, 28 marzo 2008
Signor Presidente, ora che pure Lei s’è affacciato sulla Frontiera col suo nero cappotto da cerimonia, vorrei porle una domanda semplice. Potrebbe farla anche un bambino, guardando la carta geografica. Come mai a Nord l’Unione Europea si è allargata di oltre mille chilometri e qui appena di trenta? Se Lei guarda il mare dalla costa triestina vedrà, oltre il golfo di Muggia e quello di Capodistria, una chiesa col campanile in cima a un promontorio. E’ la chiesa di Pirano, Slovenia. Ecco: l’Ue finisce lì.
Oltre è già Croazia, mondo extracomunitario. Ci pensi bene: mentre un tedesco può viaggiare senza passaporto fin quasi a San Pietroburgo, noi dobbiamo sottoporci a controlli già alle porte dell’Istria. Mentre a Nord è arrivata in dote la Polonia e le repubbliche baltiche, qui l’Italia ha solo il Paese di Lilliput. La Slovenia, due milioni di abitanti. Come un quartiere di Pechino. Pare che nessuno voglia notare questo squilibrio che passa per Trieste.
Eppure, lei ricorderà, nel Nord Europa ci fu la Cortina di ferro. Quella vera, con i cani-lupo, i Vopos, il Check-point Charlie e i cavalli di frisia. Qui, al contrario, era una pacchia: il confine più aperto col mondo comunista, le crociere a vela tra le isole dalmate, le spese oltreconfine senza il brivido di un controllo, i casinò dove migliaia di italiani si lasciavano spennare in allegria. La frontiera era diventata una barzelletta, ci facevano su persino delle canzoni.
Lei è del Sud, signor Presidente, forse non ha l’orecchio per le nostre consonanti e le nostre parole sdrucciole, ma ci provo lo stesso a dirgliene una, dedicata al lasciapassare per frontalieri, la cosiddetta “prepustnica”. Diceva così: «Alza la gamba Màriza, mostrime la propùsniza, se la xe timbrada mandila, a Nova Gòriza». La ricordo perché, nel celebrare l’ultimo allargamento a Oriente dell’Unione, ci dimentichiamo troppo spesso che qui, a differenza dei tedeschi, eravamo già abbondantemente allargati.
E’ adesso che la domanda si fa più tagliente. Essa riguarda non Trieste ma l’Italia. Come mai l’Europa ha conquistato tanto spazio vitale proprio nella terra del Grande Freddo, e come mai è rimasta ferma sul Mediterraneo, proprio dove esistevano i presupposti di un grandioso allargamento? Lei penserà: ma che mi chiede questo signore, non lo sa che a Sud-Est ci sono i Balcani? Se si esclude la Cecenia, è o non è stata quella l’unica guerra europea dopo il ’45?
Verissimo. Conosco l’instabilità balcanica, ci ho speso un pezzo di vita professionale. “Il Piccolo” era lì, in prima linea; ha fatto il suo dovere di cronaca fino alla fine, quando l’incendio s’è spostato a Sud, verso il Kosovo e l’Albania. “Colpa dei Balcani”: tutta la politica italiana ha questa risposta pronta, e – tutto sommato – comoda. Non dipende da noi, ma dagli slavi, se l’Europa unita finisce poco oltre il Carso.
Non dipende da noi – mi viene detto ad alti livelli – se l’Italia è assente dai Balcani, se il Corridoio ferroviario numero cinque (quello per Kiev) non arriva nemmeno a Trieste, se già a Capodistria la presenza commerciale tedesca e centroeuropea in generale è infinitamente più forte della nostra. Non dipende da noi se la Serbia sta per diventare un feudo putiniano, se l’Adriatico è un mare aperto alle mafie, se la Bosnia è ancora un limbo dove tutto può accadere, e se sui temi scottanti dell’ultimo dopoguerra non c’è ancora accordo perché non tutti gli archivi sono stati aperti. Dipende dai popoli slavi, dicono a Roma.
Come nel 1914 dell’attentato di Sarajevo, ci fanno capire, il male viene da quelle terre inquiete. Conseguenza: la nostra Ostpolitik ha fatto tutto quello che poteva fare. Di più era impossibile.
Ebbene, credo che le cose non siano affatto così semplici. Prima di scaricare le colpe sugli altri dovremmo guardare le nostre. Cercare nella nostra memoria. Ed è proprio la memoria il tema cruciale. So che non è popolare dirlo. Ma se la Germania ha pilotato un mega-allargamento ben oltre la linea dell’Oder-Neisse è anche perché ha ammesso le sue responsabilità storiche, e questa ammissione l’ha resa leggera e meno ambigua nella la sua politica estera.
L’Italia no. L’Italia continua a far finta di non essere stata fascista, mentre lo è stata; e continua a far finta di aver vinto la guerra, mentre l’ha persa, e l’ha persa tutta in queste terre. La Germania ha fatto dei suoi giorni della memoria il tempo della responsabilità e del pentimento. Noi mai. L’Olocausto? Colpa dei tedeschi. Le foibe? Colpa degli slavi. Abbiamo sempre in bocca l’autoassoluzione, il vecchio schema degli italiani brava gente.
Sappiamo che le cose non stanno esattamente così. Sia all’annientamento degli ebrei, sia alla tragedia delle foibe, ci sono italiani che hanno contribuito alla grande, e la storia di queste terre lo dice. Qui si è collaudata la politica della razza cambiando i cognomi e ricacciando in gola la madrelingua alle genti di frontiera. Qui la foiba è stata invocata come punizione per i nemici del popolo, per la prima volta, da un ministro del Duce, il triestinissimo Giuseppe Cobolli Gigli.
Qui proprio a Trieste – esattamente settant’anni fa – Mussolini ha proclamato le leggi razziali, qui gli ebrei furono cacciati da scuole, università, società assicurative e di navigazione. Qui abbiamo avuto un campo di sterminio e campi di concentramento dove sono morte migliaia di persone. Non siamo stati solo brava gente, l’Etiopia lo conferma.
Perché se ne parla così poco? Perché continuiamo riesumare le tragedie del ’45 come se fossero nate dal nulla? Chi ha voglia di ricordare davvero l’anniversario della vergogna nazionale da cui, proprio a Trieste, ebbe inizio la persecuzione contro ebrei e slavi nelle nostre terre? La risposta non è troppo difficile.
In una storiaccia dove hanno responsabilità pesanti sia fascisti che comunisti italiani, in una vicenda dove le colpe sono in primo luogo politiche, fa comodo a troppi che alle vicende intorno alla seconda guerra mondiale si dia una lettura solo etnica. Dire: “Noi buoni, loro cattivi”, è il modo perfetto per non guardare onestamente nei nostri archivi.
Col beneplacito degli Alleati, l’Italia non ha avuto una sua Norimberga. Ma è proprio per questo che oggi non ha l’autorevolezza per chiedere ai vicini di fare pulizia nella loro memoria. E’ questo il tappo micidiale della nostra politica estera. E’ questa mancata ammissione che avvelena i rapporti di frontiera e rende spesso irrespirabile il clima politico giuliano.
Lo sanno tutti: a causa dell’emergenza titina alle frontiere, nel ’45 a Trieste anche i peggiori fascisti hanno potuto riciclarsi come patrioti. Così su tutto è sceso il cloroformio dell’amnesia. Ma ora, dopo sessant’anni, perché non se ne parla? Succede perché nemmeno la sinistra ha interesse che si ricordino i tempi in cui il Partito comunista italiano avrebbe sacrificato Trieste senza girarsi indietro, per regalarla al compagno Tito.
E allora c’è stato come un baratto tra i due ex del tempo totalitario: il silenzio sul fascismo in cambio del silenzio sul comunismo. Non era solo un patto di accreditazione vicendevole, quello siglato dieci anni fa al teatro Verdi di Trieste da Luciano Violante e Gianfranco Fini.
Possibile che un simile fattore immateriale pesi tanto? Pesa eccome. Per quale altro motivo i porti di Trieste, Capodistria e Fiume non riescono a fare sistema? E perché Trieste ha subìto anziché cavalcare l’abbattimento delle frontiere lo scorso 20 dicembre? E perché, mentre la Slovenia festeggiava in massa la sua promozione nel club della bandiera stellata, Gorizia – a confronto di Nova Goriza, allegra come Las Vegas - sembrava una livida Germania Est? Per quale motivo se non per questa zavorra nella memoria?
E’ per questo che il giorno del ricordo è destinato a riaccendere ogni anno le tensioni con i vicini. Anche nel 2009, c’è da giurarci, Zagabria si irriterà per la nostra presunzione di innocenza. La mina innescata è la stessa che rallenta la collaborazione economica, la stessa che lascia l’Adriatico un mare di serie B e impedisce al Corridoio Cinque di diventare, non dico realtà, ma persino progetto. C’è un rapporto molto profondo, caro Presidente, tra il micro-allargamento della Unione oltre Trieste, e i giorni della memoria (ma li chiamerei dell’autoassoluzione) che lei vidima con la sua autorevole presenza.
La controprova? Chiediamoci come ha fatto Berlino a ritrovare un dialogo e poi a sfondare economicamente in un Paese – la Polonia - dove aveva liquidato milioni di uomini a partire dagli ebrei. Lo ha fatto ammettendo la sua colpa, senza scappatoie. Eppure avrebbe avuto di che fondare una sua «revanche», visto che milioni di esuli (milioni, si badi bene, non centinaia di migliaia, portati con i vagoni piombati, gli stessi di Auschwitz!) erano stati cacciati dalle terre del Baltico, uomini che avevano la sola colpa di essere tedeschi.
Berlino ha fatto una scelta. Ammettere la sua colpa politica. «Mesch, keine Schuld, Bomben sind nicht genug gefallen», dicevano nel ’45 sotto le bombe alleate i tedeschi allibiti da quanto avevano fatto. Uomo, nessun perdono; di bombe non ne sono cadute abbastanza. La memoria stava già allora diventando responsabilità e pentimento.
Oggi i figli e i nipoti di quegli esuli che – nonostante i torti subiti - ebbero il coraggio di ammettere quella smisurata colpa collettiva, stanno tornando in Polonia, senza fanfare e senza proclami politici. Molti di loro pilotano joint ventures con i figli di coloro che li odiarono a morte. I nostri esuli, dopo essere stati usati come massa di manovra elettorale, non solo non tornano, ma non hanno visto la soluzione di uno solo dei loro problemi.
Pochi hanno interesse a risolverli davvero, per tenere in ostaggio all’infinito la politica estera di questo Paese.
*Paolo Rumiz, nato a Trieste, inviato speciale de “la Repubblica” ed editorialista del “Piccolo” di Trieste, esperto del tema delle Heimat e delle identità in Italia e in Europa, dal 1986 segue gli eventi dell’area balcanico-danubiana. Ha vinto il premio Hemingway nel 1993 per i suoi servizi dalla Bosnia e il premio Max David nel 1994 come migliore inviato italiano dell’anno. Ha pubblicato, tra l’altro, Danubio. Storie di una nuova Europa (1990), Vento di terra (1994), Maschere per un massacro (1996), La linea dei mirtilli (1993; 1997), Tre uomini in bicicletta (2002), Est (2003), È oriente (2005), Gerusalemme perduta (2005).