C’è un cielo terso da far male agli occhi e soffia una leggera brezza la mattina del 22 aprile.
Arrivano a scaglioni pullman colmi di gente, automobili e furgoncini, macchine di autorità, tra le quali quella del Presidente della Repubblica di Croazia, Stipe Mesic. I pochi poliziotti presenti smistano il traffico sfoderando visi dai tratti distesi, quasi a voler contrastare la greve memoria di cui questo luogo è impregnato.
Atroce passato
Sono venuti in più di duemila, da diverse città e non solo della Croazia, per commemorare il 62° anniversario della rivolta organizzata dagli ultimi internati del campo di concentramento di Jasenovac, il 22 aprile del 1945. Un disperato tentativo di salvarsi dalla finale liquidazione di massa che gli ustascia si stavano preparando a perpetrare, per poi seppellire i corpi in fosse comuni e bruciare le baracche del campo. Stava arrivando l’esercito partigiano e le prove delle atrocità qui commesse dovevano sparire.
Nei cinque complessi che fungevano da campi di smistamento, lavoro e sterminio, costruiti nell’area di Jasenovac sulla sponda sinistra del fiume Sava, hanno trovato la morte tra il 1941 e il 1945 migliaia di ebrei, rom, serbi, musulmani, oppositori del regime ustascia di Ante Pavelic. Un regime nato il 10 aprile del 1941 con il sostegno della Germania nazista e dell’Italia fascista. La Repubblica Indipendente di Croazia [NDH], si estendeva dall’attuale territorio della Croazia – esclusa l’area occupata dall’esercito di Mussolini – alla Bosnia Erzegovina e parte della attuale Serbia.
“Siamo qui oggi, in presenza di importanti istituzioni croate e straniere, sopravvissuti, centri di ricerca e associazioni, per ricordare coloro che hanno subito la deportazione e l’eliminazione di massa”. E’ Natasa Matausic, membro del Consiglio del memoriale di Jasenovac a parlare per prima. Sotto un sole cocente, accalcati attorno al palco posto ai piedi del “Kameni cvijet” - maestoso Fiore di cemento costruito negli anni sessanta dall’architetto Bogdan Bogdanovic - uomini e donne, vecchi e giovani, ascoltano in religioso silenzio.
“Il 21 aprile venne liquidato l’ultimo gruppo di circa 700 donne. In base ai dati raccolti, gli internati ancora vivi erano 1073. Alle dieci del mattino del 22 aprile, un gruppo di 600 guidati da Ante Bakotic, cercò di raggiungere i cancelli della vasta area di concentramento, circondata da filo spinato e muraglia. Di essi solo 92 sopravvissero ai colpi delle mitragliatrici ustascia” continua Natasa Matausic. Scorre il racconto dei diversi tentativi di fuga di quel giorno, intessuto sulle testimonianze dei pochi sopravvissuti. Fino all’applauso contratto dall’emozione.
Memoria divisa
Una memoria, quella dei fatti di Jasenovac, che però è stata ed è tutt'oggi oggetto di controversie, strumentalizzazioni e tentativi di revisionismo storico. Lo ha denunciato Zorica Stipetic, presidente del Consiglio dell'area monumentale di Jasenovac. “Questo campo non era solo un mezzo della politica ustascia bensì la vera sostanza di quella politica. La triste storia di quest'area, non solo non ha chiarito i fatti e portato alla conoscenza, ma ha addirittura fortificato i pregiudizi, i traumi, le paure, i brutti ricordi, l'odio e la vendetta”. Si riferisce, la Stipetic, al duro scontro sulle cifre dei morti. “Vi sono ancora delle resistenze, esplicitamente o implicitamente politiche, a riconoscere la verità su Jasenovac. Si richiamano ai dubbi relativi alla lista ancora incompleta delle vittime di Jasenovac”. Dibattito duro già nella Jugoslavia del secondo dopoguerra, quello sul numero delle vittime che oscillavano da poche migliaia a quasi un milione. Tanto che, come dichiarato a Osservatorio sui Balcani dall'autore del “Fiore di Jasenovac", il monumento dovette aspettare più di un decennio da quel 22 aprile del 1945 per vedere la luce.
E' un fatto che solo nel nuovo museo, situato a poche decine di metri dal Fiore, si sia realizzata una lunga lista dettagliata delle persone deportate e uccise a Jasenovac. In base a ricostruzioni, accertate da più fonti, il numero è arrivato a circa 70.000. Certo, all'appello mancano molti nomi, come ci ha raccontato Djordjevic Stevo, rappresentante della Comunità Rom presso il Consiglio del complesso museale. “Abbiamo raccolto per la prima volta nome, cognome, luogo di deportazione, data di arrivo e di morte, in una lista accessibile al pubblico e questo è molto importante sulla strada della verità. Purtroppo mancano quasi tutti i Rom, perché non erano censiti e venivano immediatamente eliminati all'arrivo nel campo”.
Divisa la memoria anche nel giorno della commemorazione. Al di là del fiume Sava, ad una manciata di chilometri di distanza, si sta tenendo una commemorazione a sé stante. A Donja Gradina, nell'entità bosniaca della Republika Srpska [RS], rappresentanti dell'Assemblea Nazionale della RS e di associazioni di vittime, stanno ricordando Jasenovac come luogo del genocidio di 700.000 persone, per la maggior parte di nazionalità serba. E' inciso sulla grande targa di marmo nero, accanto ad una frase di Tito che ammonisce affinché tutto ciò non avvenga più, posta all'ingresso del bosco dove oggi piccole pietre bianche indicano i luoghi dei “grobljo polje” (campi di sepoltura).
Studi di diversi ricercatori hanno dimostrato che questo dato non può essere veritiero, considerato che si aggira sul milione il numero di tutti i morti del territorio jugoslavo durante il secondo conflitto mondiale.
Vittime e carnefici
“Mi chiamo Atijas Jakob. Sono nato a Sarajevo in una famiglia di lavoratori. Mio padre faceva il barista, mia madre era casalinga”. Inizia così la testimonianza di un sopravvissuto al campo di Jasenovac. In piedi di fronte al microfono del palco, guardando dritto negli occhi chi lo ascolta, snocciola con voce emozionata la sua storia.
“Il 3 settembre del 1941 la polizia ustascia ha arrestato me, mia madre, mio fratello e mia sorella minore. Siamo stati deportati al campo di concentramento bosniaco per ebrei di Krusica, vicino a Travnik, dove ho visto per l'ultima volta mia madre e mia sorella”. Moriranno ad Auschwitz, mentre Atijas verrà smistato a Jasenovac assieme al fratello, il quale morirà ucciso a Jasenovac solo per aver nascosto nella tasca alcune patate e due pannocchie.
“Ci hanno portato nel complesso di Brocice dove lavoravamo alla costruzione della diga. Picchiavano e uccidevano quotidianamente. Porto sul collo e sulla mano i segni dei coltelli degli ustascia. Ho conosciuto ebrei come me, croati e serbi antifascisti, cechi, musulmani. I rom li portavano direttamente alla morte. Le loro vite valevano per gli ustascia ancora meno delle nostre”. Chiude la sua testimonianza pubblica esortando a non dimenticare, ma anche sottolineando a voce alta: “Facciamo in modo che i nostri diversi pensieri si esprimano. Ma senza essere nemici, perché la convivenza è necessaria. Senza di essa non potremo mai esistere su questo pianeta”.
Nonostante la gravità dei fatti avvenuti a Jasenovac, sono ricorse forti le strumentalizzazioni e la deformazione della storia per fini politici, come ha insistito il Presidente croato Mesic intervenuto in seguito. Interrotto da uno scrosciante applauso al momento del suo saluto “Signore e signori, compagne e compagni”, Mesic ha tenuto lungo il suo discorso la linea della dura denuncia: “Negli ultimi vent'anni qui da noi sono stati distrutti centinaia di monumenti alle vittime del fascismo. E' il risultato delle concessioni fatte nel 1991 ai revisionisti storici, e la conseguenza del flirtare con la filosofia ustascia. Si iniziò a cantare le canzoni in onore dei criminali ustascia, e ciò avviene ancora oggi”.
“In questa società c'è qualcosa che non funziona se sui media Ante Pavelic viene presentato come un patriota che è un po' ‘uscito di carreggiata’”, ha ribadito Mesic, per poi aggiungere che si tratta di singoli incidenti ma comunque gravi e da considerarsi un attacco alle radici democratiche della Croazia, di cui oggi non si deve e non si può dubitare.
“Sono stati perpetrati dei crimini anche da parte antifascista e questo non va dimenticato. Ma la differenza è che il fascismo e la politica ustascia si basava su di un'idea criminale, mentre l'antifascismo in quanto ideale era pulito”. Accolta questa sua affermazione con un lungo applauso, Mesic ha concluso appellandosi alle nuove generazioni, chiedendo loro di impegnarsi a guardare in faccia la verità per creare un futuro comune. “Nessuno ha il diritto di ostacolare l'ingresso della Croazia in Europa con questi atteggiamenti e idee fasciste, né qui in Croazia né nell'intera diaspora”.
Sulle note del “Va pensiero” di Verdi, cantata dal coro Lira, la parola viene lasciata ai rappresentanti delle comunità religiose locali: ebraica, ortodossa, musulmana, cattolica. Prima della preghiera il rabbino Kotel Da Don, portavoce della comunità ebraica di Croazia, prende il coraggio a due mani e racconta: “Dopo aver sentito il discorso del Presidente voglio raccontare un fatto recente, di cui finora non ho mai parlato a nessuno. Mentre entravo in sinagoga con mio figlio, da un bar è uscito di corsa un uomo. Ha alzato il braccio nel saluto nazista e ha urlato ‘Shalom’. Mio figlio mi ha chiesto ‘Papà, cosa vuol dire?’. La sorpresa di un bambino di fronte ad un gesto che non appartiene alla sua memoria”.
C'è chi invece questa memoria l'ha vissuta e mai potrà cancellarla. Mentre sul palco si succedono decine di persone a posare corone di fiori ai piedi del monumento di Bogdanovic, la folla si incammina affaticata lungo la passerella di legno che porta al museo. Un vecchio, che porta al bavero il cartellino ufficiale “sopravvissuto al lager di Jasenovac” mi si appoggia al braccio. Fa molto caldo e le due ore in piedi sotto il sole sono pesate a tutti.
Ma lui porta il peso di ciò che ha visto e subito negli anni da internato. “Cosa devo dirti di me, cara. Sono A.M. sopravvissuto ad un lager, non basta?”. Poi per caso mi si avvicina Mile e comincia a parlare. Anche lui con l'etichetta ufficiale, quasi ad assicurare la provenienza “doc” del suo racconto, nel caso ce ne fosse bisogno. “Avevo 8 anni quando mi hanno rinchiuso. Un giorno, avevo sete e ho pregato una guardia ustascia di darmi dell'acqua”. Il suo sguardo si abbassa sulla sua mano che fa il gesto di accarezzare la tesa di un bambino immaginario, se stesso. “Mi ha dato una carezza così... poi ha detto 'Hai l'età di mio figlio. Chissà se lo rivedrò mai più'. E intanto tutto intorno a me massacravano la gente”. Le parole si interrompono inghiottite da un pianto incontrollabile. Proprio come quello di un bambino disperato, che non ha mai dimenticato.