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Il malinconico fiore di loto

15.05.2007    Da Trieste, scrive Melita Richter Malabotta

Jasenovac (foto L. Zanoni)
Un vasto spazio appoggiato alla riva della Sava fino al 1941 area di una fornace di mattoni, dal 1941 al 1945 campo di concentramento, divenuto sito memoriale e coacervo di segni, sedimenti e testimonianze. Il Premio internazionale Carlo Scarpa è andato al complesso memoriale di Jasenovac

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Il diciottesimo “Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino” è stato consegnato a Treviso il 12 maggio dalla Fondazione Benetton al complesso memoriale di Jasenovac, Croazia, e al suo grande interprete artistico, l’architetto belgradese Bogdan Bogdanović. La lettura della motivazione della giuria mette in risalto il significato profondo di questo vasto spazio pannonico appoggiato alla riva della Sava “fino al 1941 area di una fornace di mattoni, dal 1941 al 1945 campo di concentramento, divenuto sito memoriale, coacervo di segni, sedimenti, testimonianze, simboli che si sono stratificati nel tempo e, grazie alla sintesi inventiva di Bogdan Bogdanović e al lavoro educativo e museale in atto, ci aiutano il compito di mantenere e accumulare la memoria dei loro momenti più alti e più tragici”. Un compito eseguito con un gesto sorprendente di arte e la consapevolezza del suo ideatore che l’ispirazione per il monumento non andava cercata né trovata nel far rivivere il male.

Tra i meandri del fiume e i binari morti della ferrovia, affiorano i nomi di 69.842 vittime della macchina perfetta dell’industrializzata distruzione dell’Altro: 18.812 bambini, 18.453 donne, 32.577 uomini, ognuno con le proprie indiscutibili generalità. Luogo di sterminio e di grande crimine, quello ustaša, fascista, e, come dirà Nataša Jovičić direttrice del Complesso memoriale Jasenovac, un luogo di rapporti bestiali tra uomini, tra nazioni, tramutato in un simbolo che serba una promessa per il futuro. Lavoro arduo reso possibile grazie alla straordinaria intuizione creativa e conoscitiva dell’architetto Bogdanović, capace di evitare l’interpretazione simbolica limitativa che in modo forzato estrapola i simboli dal loro contenuto spirituale nascosto. La sua è una sintassi delle forme diversa, quella che scaturisce dalla terra, dagli specchi d’acqua e presenta il monumentum alla umanità umiliata in una forma organica in tutta la sua interezza.

Dunque, niente stelle a cinque punte, teschi, croci, pugnali, reperti fisici o narrazioni figurative dell’arte del socialismo reale, soltanto una meditata metafisica estetica che segna l’orizzonte e sul luogo del grande crimine propone un fiore, un malinconico fiore di loto in cemento di dimensioni gigantesche e di linee gentili alla cui realizzazione hanno contribuito le mani esperte dei costruttori di barche dalmati. Un fiore-memoria struggente e allo stesso tempo simbolo visionario della speranza. Segno catartico che non offende nessuno, non proclama, non minaccia, non addita i carnefici, non mostra le vittime, non indugia sulla loro sofferenza, non istiga alla vendetta. Ma non nasconde la verità. Solo memoria dell’umanità antropologica generale, non un mito. Una promessa minacciata ancora una volta nella guerra del ‘91 -95; il monumento fu danneggiato, ferito, restaurato, esposto all’aggressività del negazionismo e dei tentativi tudjmaniani di mescolamento ideologico delle ossa delle vittime con quelle dei carnefici. Una follia alla quale Bogdanović, architetto, urbanista, letterato, ex sindaco di Belgrado, ma soprattutto uomo e umanista, si era opposto con sdegno dalla sua casa viennese, dal 1992 divenuta luogo di esilio e di riparo dalle ossessioni nazionaliste che hanno tramutato la distruzione dell’Altro in parte costituente della “cultura della normalità” di una parte della società serba.

A una simile follia (non soltanto balcanica) che abita il concetto etno-nazionalista, Bogdanović non ha voluto accennare, né ricordare altri siti memoriali di cui lui è autore – ne contiamo ventuno creati lungo i quattro decenni sul territorio di tutta la Jugoslavia - che non ebbero la fortuna di essere preservati dalla furia distruttiva dei neo barbari. Dalla sua altezza morale e, aggiungiamo anche quella fisica, nonostante il tempo l’abbia leggermente piegato e costretto a poggiarsi al bastone (mentre guadagnava il podio sostenuto dall’emozione, questo bastone se l’era del tutto dimenticato), armato dall’ironia propria delle menti aperte, il maestro aveva raccontato un breve aneddoto. Che in sintesi diceva così: “In un’occasione pubblica mi si avvicina una donna relativamente giovane che voleva assolutamente comunicarmi in totale serenità, ‘sa, le devo dire che i miei genitori mi hanno concepita sul suo monumento a Mostar’. Ho interpretato questo fatto come il più significativo riconoscimento al mio lavoro, come la conferma della vita che si riproduce nei luoghi della memoria. Come del resto succedeva sulle tombe nell’antichità”. Oggi il monumento ai partigiani di tutte le appartenenze etniche costruito nelle vicinanze di Mostar è gravemente danneggiato.

Nella cornice festosa del Teatro Comunale di Treviso e in presenza di un vasto pubblico e di nomi illustri della cultura, alla consegna del sigillo scarpiano consegnato al parco memoriale di Jasenovac, è stata ricordata l’intera figura creativa di Bogdan Bogdanović, oggi ottantacinquenne, grande poeta della città e del pensiero urbanistico europeo, considerato uno dei nomi più significativi dell’architettura del ventesimo secolo.
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