Di cosa si occupa il Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo?
La nostra organizzazione lavora nel campo della ricerca, in particolare relativamente al periodo della guerra 1992-1995 in Bosnia Erzegovina. Il nostro obiettivo è dare un contributo in due settori: quello dei processi per crimini di guerra, davanti ai tribunali internazionali e locali, e quello che definiamo la «constatazione della verità con l'aiuto dei fatti». Noi raccogliamo le prove dei crimini commessi, e le depositiamo in una base di dati. Inoltre, uno dei progetti più importanti a cui stiamo lavorando in questo momento è quello relativo al numero delle vittime. Cerchiamo di dare un'identità a tutte le persone che hanno perso la vita durante la guerra e di definire il numero delle vittime.
Collaborate con altre istituzioni a livello regionale?
Sì, per questo progetto lavoriamo in partenariato con la Fondazione per il diritto umanitario di Belgrado e Documenta di Zagabria. Noi, qui a Sarajevo, siamo i promotori e per primi termineremo la parte che ci compete: a fine giugno [oggi, ndr] presenteremo i risultati definitivi relativamente al numero delle vittime. Poi sarà la volta del Kosovo, di Serbia e Croazia. Così avremo per l’intera regione una lista di nomi e cognomi, di identità, un numero totale di vittime che in futuro potremo esporre in caso di manipolazioni o di memorie storiche inventate.
Quante sono le vittime della guerra 1992-95 in Bosnia Erzegovina?
Prima di costituire il nostro Centro, c’erano posizioni completamente contrapposte. Si andava dalla completa negazione che fossero avvenuti dei crimini, con numeri attorno alle 20, 25.000 vittime, bazzecole, fino all’esagerazione di 300-350.000 vittime e più. Noi siamo arrivati oggi ad individuare un numero di 98.000 [97.207 secondo i risultati finali presentati oggi dal Centro, ndr] cittadini della Bosnia-Erzegovina, civili e militari, che sono vittime dirette della guerra. Si tratta di persone uccise dai cecchini, dalle granate, dai proiettili, dalle bombe o nei campi di concentramento. Esiste poi un'altra parte di vittime, di cui ci occuperemo nel prosieguo delle nostre ricerche, che sono le cosiddette vittime indirette: morti per fame, per mancanza di aiuti sanitari o per i motivi assurdi per i quali si può morire durante la guerra, come quelli che spinti dalla fame sono morti mangiando funghi avvelenati, o il caso ad esempio dei 12 bimbi di Banja Luka che sono morti per la mancanza di ossigeno. La terza fase del progetto consisterà nel determinare la dimensione demografica della guerra, ovvero il calo naturale della popolazione determinato dalla guerra.
E per quanto riguarda gli scomparsi?
Il numero di cui vi ho parlato include anche le persone scomparse. Cioè nei 98.000 sono inclusi anche tutti gli scomparsi che, in Bosnia-Erzegovina, al momento sono più di 13.000. Queste in realtà non sono esattamente persone scomparse, ma persone uccise i cui corpi o resti non sono ancora stati ritrovati. Noi sappiamo chi sono queste persone e come sono state uccise. Collaborando con le istituzioni che si occupano della ricerca degli scomparsi, le sposteremo dalla categoria “scomparsi” a quella “uccisi”. Si tratta di esumare i corpi, dare definitivamente un’identità a questi resti e inserirli nella nostra base di dati.
Perchè avete iniziato a lavorare a questo progetto?
In questa regione, non solo in Bosnia Erzegovina ma nei Balcani in generale, il problema della manipolazione del numero delle vittime è emerso esplicitamente subito dopo la seconda guerra mondiale. Consideriamo ad esempio il caso di Jasenovac. Perfino nell'ultima manifestazione di Stato in cui sono stati ricordati quei tragici eventi sono state citate cifre che rispecchiano ipotesi mai confermate, 700.000 vittime. Ci sono ricerche scientifiche che parlano di un numero molto minore, tra le 70 e le 100.000. Si è trattato di una tragedia enorme, Jasenovac era un luogo di crimini orribili, ma abbiamo una situazione in cui esagerando di continuo i numeri o utilizzando ideologicamente la memoria si rischia di ottenere l’effetto contrario.
Ci sono state delle omissioni nelle politiche della memoria della Jugoslavia socialista?
In Jugoslavia, dopo la seconda guerra mondiale, non si è mai fatta una lista con i nomi delle vittime. E' stato utilizzato in maniera ideologica il numero delle vittime da un lato per sottolineare la grandezza della vittoria dei partigiani, dall'altro come strumento per ottenere più alte riparazioni di guerra dalla Germania. Inoltre sono stati costruiti monumenti che glorificavano la lotta partigiana dappertutto. Ovunque fosse caduto un partigiano, lì è stato eretto un monumento. Ma è pericolosa la mitizzazione del ricordo, e creare il mito di determinati avvenimenti storici produce ogni volta il suo contro-effetto e fa dubitare. Infine è stato lasciato uno spazio non chiarito, che è stato utilizzato dai nazionalisti alla vigilia delle guerre degli anni '90 per manipolare la gente, mostrando loro che erano minacciati di morte dai propri vicini.
Qual è la rappresentazione ufficiale della guerra 1992-95 in Bosnia Erzegovina oggi?
La battaglia politica sul tema del ricordo continua. E il modo in cui si spiega il passato di questo Paese rischia di determinarne il futuro: una memoria distorta, un'errata ricostruzione dei fatti, troppo scarse sentenze per crimini di guerra. L’impunità si accompagna alla distorsione dei fatti.
Che tipo di monumenti vengono costruiti in Bosnia Erzegovina oggi, per ricordare le guerre recenti?
Purtroppo, nella storia recente della Bosnia-Erzegovina, sono avvenute cose ancor peggiori rispetto al periodo successivo alla seconda guerra mondiale. In molti luoghi si erigono monumenti che glorificano i crimini commessi. Se andate a Prijedor, in centro trovate un monumento all’uomo che ha ispirato i crimini che sono stati commessi nell’intera regione: Jovan Rašković. Troverete monumenti dedicati ai fascisti della seconda guerra mondiale, come quello a Draža Mihailović vicino al confine con la Serbia, nei pressi di Višegrad. Ci sono diversi monumenti che esaltano i criminali e i loro crimini senza prendere in considerazione le vittime. Potočari può essere un esempio di monumento dedicato alle vittime, anche se non è ancora stato terminato. Le manifestazioni che avvengono nel periodo in cui viene messo in rilievo il genocidio di Srebrenica, tuttavia, spesso assumono una dimensione politica. Credo che noi dobbiamo liberare questi avvenimenti dall’utilizzo politico. Srebrenica e il monumento di Potočari devono servire a farci ricordare il genocidio. Non si deve partecipare con qualche programma politico.
Come dovrebbero essere i monumenti che ricordano le guerre degli anni '90?
Secondo me il memoriale di Potočari è un buon esempio. E' il luogo in cui sono state sepolte le vittime, e allo stesso tempo è anche un luogo di espressione artistica, in cui gli artisti possono in qualche modo rendere onore alle vittime. Penso che sia un buon esempio proprio perchè le vittime si trovano qui, insieme. La gente viene il giorno del ricordo per rendere omaggio. Questo per me è molto importante. Ovviamente le vittime sono riconosciute, qui si trovano le tombe di queste persone, con nomi e cognomi. Spero che si prosegua con la creazione del Parco, nel nome del rispetto dei fatti. E’ estremamente importante che vengano date informazioni su quanto è avvenuto e in quali circostanze. Da questi posti non deve uscire alcun tipo di messaggio ideologico. La caratteristica dei monumenti dopo la seconda guerra mondiale era il fatto di mandare dei messaggi che difendevano una determinata ideologia. In questo caso io credo che non sia assolutamente necessario. Dobbiamo scegliere molto attentamente il modo in cui conserveremo il ricordo delle vittime di questa città estrema.
Qual è la metodologia di lavoro del vostro Centro?
Quando abbiamo iniziato questo progetto sulle vittime eravamo consapevoli della sua complessità e, soprattutto, del fatto che avrebbe richiesto un intenso lavoro di ricerca sul campo. In qualche modo abbiamo combinato la metodologia di ricerca quantitativa con quella qualitativa. Abbiamo usato la tecnica quantitativa prendendo le basi di dati esistenti in Bosnia-Erzegovina, basi di dati di organi ufficiali, informazioni pubblicate sui media. Poi abbiamo utilizzato moltissime interviste, più di 8.000, con le famiglie delle vittime. Abbiamo cercato non solo di determinare nomi e cognomi, ma anche di accertare le circostanze delle violenze, lo status delle vittime prima della guerra, cosa facevano, chi erano... Abbiamo cercato di raccogliere fotografie di queste persone e di determinare i luoghi in cui sono state seppellite, insomma di completare la loro storia. La grande maggioranza di loro è stata uccisa in maniera criminale, un determinato numero invece è morto in combattimento. Questa identificazione, questa restituzione dell’identità alle vittime, è estremamente importante. Noi crediamo sia una sorta di Memoriale. Stiamo cercando di erigere una sorta di Memoriale in cui vengono custoditi i nomi delle persone, che verrà utilizzato in modo scientifico e storico. La gente può venire e vedere questi dati, e questo è davvero importante.
In che modo le famiglie delle vittime contribuiscono con questo lavoro?
Noi ci basiamo principalmente sulla comunicazione con le famiglie delle vittime. I familiari hanno le informazioni, sanno chi erano queste persone, hanno le foto, sanno cos’è accaduto alle loro vittime. Noi viaggiamo nelle varie comunità locali, cerchiamo di capire cos’è accaduto in questa o quella regione. Abbiamo uffici a Brčko, Prijedor, Goražde, un grande ufficio che copre tutta la zona della Podrinje. Abbiamo visitato più di 360 cimiteri, civili e militari, trovando anche lì molte informazioni.
Chi vi sostiene finanziariamente, lo Stato bosniaco?
L’intero progetto è finanziato dal governo norvegese, lo Stato bosniaco purtroppo non ci ha dato un solo euro. Il problema sono le scaramucce politiche. Esistono delle élite etno-nazionali, o etno-religiose, che vogliono tenere le vittime divise secondo un criterio etnico. Il grande problema è che ogni gruppo etnico, religioso, ha utilizzato il numero delle vittime in modo diverso. Per la prima volta, con questo progetto, noi abbiamo messo tutte le vittime, cittadini della Bosnia-Erzegovina, nello stesso posto. E questo è estremamente importante. Le vittime si possono dividere secondo criteri ideologici, come ha fatto Tito dopo la seconda guerra mondiale. Tito non aveva fatto scrivere tra le vittime i soldati collaborazionisti dei fascisti. Quindi, in pratica, i cittadini jugoslavi che avevano collaborato coi fascisti erano stati dimenticati. Come se non si trattasse di esseri umani. Questa è stata una sorta di discriminazione ideologica, di separazione ideologica delle persone. Nel nostro caso, qui, oggi, c’è invece un approccio etnico-religioso alle vittime, e si cerca di tenerle separate in questo modo. Noi non abbiamo considerato se le vittime fossero serbi, croati, bosgnacchi, albanesi, oppure ortodossi, cattolici, musulmani, ebrei: tutti sono stati messi assieme nella nostra base di dati. Non abbiamo permesso una tale divisione dei cittadini della Bosnia-Erzegovina.
Perché lei, Mirsad Tokaca, ha cominciato questo lavoro?
La mia famiglia viene dalla Bosnia orientale. I cetnici hanno ucciso quasi tutti i miei familiari durante la seconda guerra mondiale, mia mamma è sopravvissuta per miracolo. Suo padre e i suoi fratelli sono stati uccisi. Questa però è sempre stata una memoria interna alla nostra famiglia, non c’è mai stato un riconoscimento del crimine né tanto meno una punizione. Quando è arrivato il 1992, e le stesse cose sono cominciate ad accadere, ho iniziato a lavorare come segretario generale della Commissione di Stato per i crimini di guerra. Ho mantenuto questo ruolo fino alla fine della guerra, quando lo status di questa Commissione è stato messo in discussione e sono cominciate le pressioni politiche. Allora ho deciso di creare il Centro di ricerca e documentazione, per continuare a lavorare in maniera indipendente e su basi durature al problema dei crimini di guerra. I miei motivi sono questi. Provengo da una famiglia che è stata vittima nella seconda guerra mondiale e che non ha mai avuto la soddisfazione di vedere giustizia, che la memoria della tragedia fosse custodita e che i responsabili dei crimini venissero puniti.
Come è accolto il vostro lavoro nella società bosniaca?
Nonostante l’opposizione, le minacce, pressioni di vario tipo, io sono soddisfatto. Dopo più di 3 anni che lavoriamo a questo progetto di ricerca, la maggior parte della società bosniaca ha preso consapevolezza della necessità di fare questo tipo di lavoro. La gente percepisce che con la verità dei fatti si restringe lo spazio per nascondere quanto è avvenuto. Questa verità porta a ciò di cui le persone hanno bisogno: gli arresti e i processi di quanti hanno commesso crimini, la riconciliazione sociale, la giustizia.
Che giudizio date del lavoro dei Tribunali?
Nonostante la sua debolezza, nonostante il fatto che ad oggi Karadzić e Mladić non siano ancora stati catturati, penso che possiamo dare un voto molto positivo al Tribunale dell’Aja. Ha avuto un ruolo particolarmente importante nel mandare questo semplice messaggio: i crimini non resteranno impuniti. Il processo Krstić ha confermato che a Srebrenica è stato commesso un genocidio. Attraverso le inchieste e i processi sono stati ricostruiti determinati fatti storici, in un modo che inciderà con forza sulla memoria della gente. Non si tratta di un percorso concluso, dovremo occuparci dei crimini di guerra in Bosnia-Erzegovina ancora per più di un decennio. I Tribunali bosniaci, la giustizia, le leggi di questo Paese contribuiranno alla memoria.
La memoria sarà modellata dal lavoro dei Tribunali?
Esistono altri aspetti: il contributo che ad esempio arriva da parte delle associazioni. In Bosnia-Erzegovina è molto forte il movimento delle vittime e dei familiari. Ance noi naturalmente, in quanto primo Centro di ricerca indipendente, daremo il nostro contributo. Soprattutto, è importante che si parli, che il dibattito a livello sociale su quanto è avvenuto durante la guerra resti aperto. Non si deve permettere che lo Stato, l’ideologia, i partiti politici, abbiano il diritto esclusivo a testimoniare il passato. La società intera deve partecipare al dibattito su quanto è avvenuto. Solo in questo modo saremo in grado di sviluppare ciò che io vorrei definire una “cultura della memoria”, non la politica ma la cultura della memoria.