E' chiaro che dallo stallo sullo status non si esce se non con un compromesso. La recente proposta di adottare il modello "Hong Kong" potrebbe rappresentare l'idea che scardina le attuali rigidità di Pristina e Belgrado?
Lo scorso 24 settembre, nel cuore di Pristina, un attentato dinamitardo ha devastato un'area commerciale, seminando di nuovo morte e panico nel capoluogo del Kosovo. Quest'ultimo precede di qualche giorno la ripresa dei negoziati diretti tra Serbia e Kosovo sul futuro della regione. Ad oggi non conosciamo la natura di questo atto criminale. Ma tanto sia ascrivibile alla tensione politica dovuta alla situazione di stallo nelle trattative sullo status o piuttosto – come sembra più probabile – ad un regolamento di conti fra bande per il controllo dei traffici commerciali, lancia un messaggio inquietante sulla stabilità di questo paese.
Qualsiasi sarà la soluzione relativa allo status del Kosovo, con questa situazione di degrado politico, economico e sociale si dovrà fare i conti. Otto anni di protettorato e di cooperazione internazionale ci consegnano infatti una regione dove si sono accumulate macerie su macerie. Non quelle delle case, dove pure rimangono ancora visibili le ferite della guerra e ricostruite senza una vera pianificazione urbanistica ed architettonica. Ma quelle di una società dove tutto avviene all’insegna del più sfrenato liberismo, come se al fervore della ricostruzione mancasse una guida politica e culturale.
Molto spesso dall’interno della comunità kosovara si sono addebitate queste difficoltà alla condizione specifica del protettorato, al carattere farraginoso dell’amministrazione Unmik e alla conseguente mancanza di sovranità. Argomenti che hanno un loro fondamento. Ma io credo ci sia dell’altro, ascrivibile al contesto dei moderni dopoguerra: l’invasività dell’emergenza, la fragilità delle istituzioni, la pervasività della criminalità organizzata, che si accompagnano al venir meno delle energie vitali, dei saperi e della volontà.
Credo abiti essenzialmente qui il fallimento del protettorato internazionale. Non sono certo mancati gli aiuti internazionali, anzi sono stati fin troppi. Per questo è necessario segnare un punto fermo di svolta. Ma in quale direzione? Personalmente ritengo la soluzione sia quella dell’autogoverno, inteso cultura diffusa che vada nel senso della riappropriazione delle proprie risorse vitali da parte della comunità regionale e delle comunità locali. Fino ad oggi invece si è giocato con la questione dell’indipendenza come se questa rappresentasse la panacea di tutti i mali. Come se la rappresentazione simbolica facesse svanire d’incanto tutte le difficoltà emerse nel corso di questi anni.
Ma fin quando ci sarà da agitare in maniera propagandistica la questione della sovranità nazionale, questa sarà la coperta di Linus dei mali profondi che si fa finta di non vedere e che non si vogliono affrontare. Dunque per liberare il Kosovo dai propri incubi è necessario togliere di mezzo questa coperta. Sollevarla, non tirarla da una sola parte, perché una soluzione unilaterale avrebbe l’effetto di rinfocolare il rancore nazionalistico, lasciando aperto un vulnus che legittimerebbe un irredentismo permanente, da una parte o dall’altra.
In questa direzione andava la proposta che Osservatorio sui Balcani ha lanciato più di due anni fa e ripreso in un convegno del dicembre 2006. Uno scarto di pensiero in grado di far evolvere una contraddizione altrimenti insanabile: il Kosovo come regione europea. Il perdurare dello stallo indica l’incapacità di sbrogliare il nodo senza introdurre un fattore nuovo, tanto che negli ultimi mesi aveva ripreso corpo l’opzione della spartizione, ovvero la soluzione che metterebbe il sigillo internazionale alla pulizia etnica.
Negli ultimi giorni nel dibattito sullo status del Kosovo si è inserito un fattore nuovo: ne ha dato notizia il quotidiano belgradese Blic che, riferendo di fonti vicine al Gruppo di Contatto, ha riferito come si sia iniziato a discutere dell' “ipotesi Hong Kong”, dal modello utilizzato nel processo di definizione dello status della città–stato cinese.
Uno status speciale procrastinato nel tempo che avrebbe gli elementi sostanziali dell’indipendenza in presenza di un forte ancoraggio europeo, la partecipazione autonoma nell’ambito delle istituzioni internazionali (ma non l’ONU) e la piena facoltà di sottoscrivere accordi economici bilaterali o multilaterali. Alla fine del quale il Kosovo potrebbe decidere il proprio status, auspicando che nel frattempo l’Europa sia diventata quel soggetto politico che ancora non riesce ad essere.
Una soluzione che andasse in questa direzione potrebbe rappresentare il punto d’incontro fra le posizioni di Belgrado ed il superamento della risoluzione 1244 richiesto a gran voce dalla popolazione albanese del Kosovo, ratificando anche sul piano del diritto internazionale una sovranità sostanziale della regione ma in prospettiva europea. Insomma una soluzione negoziale, che potrebbe togliere di mezzo gli alibi ad entrambi i nazionalismi. E molto utile alla stessa comunità internazionale che – in assenza di una soluzione condivisa – si troverebbe di fronte alla reale possibilità (sostenuta anche da Bush in occasione della sua recente visita in Albania) di una dichiarazione unilaterale d’indipendenza, con effetti imprevedibili e laceranti, soprattutto per l’Unione Europea. Bruxelles infatti non potrebbe esercitare alcun ruolo di accompagnamento senza un esplicito mandato delle Nazioni Unite. La soluzione “Hong Kong” - opportunamente adattata al contesto kosovaro – consentirebbe infine di ancorare il processo di transizione e di integrazione del Kosovo e dell’insieme della regione nell’Europa politica.
Chissà che forse la politica non riesca ancora a battere un colpo?