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Bosnia Erzegovina: è crisi

07.11.2007    Da Sarajevo, scrive Zlatko Dizdarević
In Bosnia Erzegovina è in corso la più grossa crisi politica dalla fine della guerra. Una crisi creata da forze interne ed esterne al paese. Forse è giunto il momento di mettere finalmente in questione una situazione da tempo insostenibile
Tra le note teorie internazionali sulle crisi politiche ne esiste una largamente diffusa, secondo la quale una situazione annosa e irrisolta va portata fino alle sue estreme conseguenze, per far sì che si possa in seguito risolvere. Naturalmente, in questi casi si tratta di crisi controllate che difficilmente possono essere lasciate al caso.

L’attuale situazione in Bosnia Erzegovina in questo momento ha molti degli elementi di suddetto esempio. La crisi istituzionale è stata portata fin quasi al suo apice, ma agli analisti politici sembra ancora che “la cosa sia sotto controllo”.

L’acuirsi della crisi, ovviamente, ha il suo retroterra. La situazione attuale è stata generata dal fallimento del tentativo di introdurre la riforma della polizia in BiH. Solo una delle numerose riforme fallite in questi anni. Dato lo stallo delle istituzioni locali ci ha pensato l’Alto rappresentante della comunità internazionale in BiH Miroslav Lajcak, ovviamente su ordine di Bruxelles, a sbloccare i processi politici in atto.

Tra le misure adottate la modifica del regolamento del funzionamento del parlamento della BiH. Lajcak ha ristretto la cosiddetta “votazione delle entità” in Parlamento, che prevedeva che le leggi potessero essere adottate solo con la presenza di tutti i deputati. Questo aveva portato al boicottaggio dei lavori parlamentari, divenuto purtroppo una prassi, per bloccare qualsiasi legge di riforma. Il quorum alle sedute del Parlamento (ma anche al governo), secondo la misura di Lajcak, dovrebbe ora formarsi sulla base dei presenti alle singole sedute, e non sul numero assoluto dei deputati, come definito dall'attuale regolamento.

La misura di Lajcak è tecnica e non contravviene alla Costituzione. A nessuno toglie diritti, basta che ciascuno svolga il lavoro per cui è stato eletto. In Republika Srpska, l’entità minore della BiH, la decisione di Lajcak era attesa col “coltello tra i denti”. La conclusione di base di quasi tutti i politici che là si sono alzati in piedi è stata la seguente: “Un colpo meditato con l’intento di eliminare la Republika Srpska”. Lajcak è stato dichiarato “nemico dei serbi”, “indesiderato a Banja Luka”, ed è stato apertamente minacciato affermando che alle nuove misure adottate “si risponderà con una lotta con tutti i mezzi”.

Milorad Dodik, premier di questa entità e presidente del più forte partito politico di quest'ultima, l'SNSD, ha minacciato che i serbi si ritireranno da tutti gli organi comuni e dalla istituzioni politiche della BiH e che il suo partito passerà all’opposizione. Con toni a lui consueti ha affermato che la “Republika Srpska è una categoria durevole, mentre per la Bosnia Erzegovina si vedrà!”.

Ai membri del suo partito che ricoprivano funzioni statali in BiH ha chiesto di preparare le dimissioni “fino alla decisione finale di Lajcak che per forza di cose dovrà essere modificata”.

La crisi istituzionale ha subito ultimamente un’accelerazione. Benzina sul fuoco è stata gettata da Belgrado dal premier serbo Vojislav Kostunica che ha fortemente appoggiato Dodik, promettendo che “la Serbia non permetterà” ciò che la comunità internazionale sta cercando di realizzare attraverso Lajcak.

Nemmeno la dichiarazione di Zeljko Komsic, presidente della presidenza della BiH, è riuscita a calmare la situazione. Komsic ha invitato la Serbia a “togliere le mani dalla BiH e a non immischiarsi in questioni interne perché in caso contrario potrebbero ritorcerlesi contro”.

Nel frattempo dagli Usa il leader della Comunità islamica della BiH, il reis Mustafa Ceric, si è immischiato profondamente nelle questioni politiche appellandosi al “principio civile (!?): un uomo, un voto”. Tradotto nella variante bosniaco-erzegovese questo significa: siamo tutti uguali, solo che i bosgnachi sono un po’ più uguali perché sono più numerosi. Ricordiamoci che Milosevic sulla base di questo principio iniziò la guerra in Jugoslavia.

Nikola Spiric, premier della BiH e membro del partito di Milorad Dodik, ha presentato le sue dimissioni alla Presidenza della BiH. Il parlamento della RS ha appoggiato le sue dimissioni e ha proclamato una “seduta permanente”.

Con le dimissioni di Spiric si è bloccato l’intero governo centrale, ossia il Consiglio dei ministri della BiH. Dalla scorsa settimana, dopo le dimissioni di Spiric, il governo centrale funziona su “mandato tecnico”. Nella realtà bosniaco-erzegovese ciò significa che non funziona per niente.

La Presidenza della BiH come reazione iniziale alle dimissioni aveva deciso, prima di discutere, di “chiamare Spiric per un colloquio” ma alla fine non è stato fatto. Spiric se ne è ritornato a Banja Luka e a Sarajevo per il “colloquio” non è ancora stato chiamato. Nel frattempo Haris Silajdzic, membro della Presidenza della BiH, è andato in America e tutti si domandano come possa tenersi il famoso colloquio con Spiric senza che la Presidenza sia al completo.

Un aspetto particolare di questa crisi è il tentativo di Dodik e dei suoi collaboratori a Banja Luka di organizzare ciò che un tempo, nel periodo dell’espansione di Milosevic in Jugoslavia, si chiamava “evento del popolo” [dešavanje naroda]. Per le vie di alcune città della Republika Srpska sono scesi cittadini con cartelloni in mano per dare “pieno appoggio alla difesa della Republika Srpska”. Questi cittadini che sono andati per le strade, apparentemente sotto l’organizzazione di ONG locali, erano molti di meno di quelli che ci si aspettava e meno di quelli che la polizia ha comunicato come presenti.

I “meeting” perlopiù con la presenza di studenti, portati via dalle lezioni scolastiche, e dei noti eterni dimostranti, sono durate circa quindici minuti, e agli studenti sono stati distribuiti dei cartelloni con messaggi contro la BiH e contro l’Europa! E persino gigantografie di Vladimir Putin! Chiaro e trasparente.

I fatti in questo momento sono chiari e inequivocabilmente dicono quanto segue: la comunità internazionale, compresa l’UE e gli Stati uniti, col proprio rappresentante Miroslav Lajcak, ha appena iniziato la grande operazione riformatrice di “pulizia” della BiH e a quanto pare questa volta non si fermeranno. Mai nei dieci anni dopo la guerra Bruxelles e Washington sono stati così uniti sulla questione delle riforme in BiH. In questo senso è stato inviato un messaggio del tutto chiaro ed aperto a Belgrado. La BiH non può più essere ostaggio dei negoziati sul Kosovo. Non è più possibile collegare le “due crisi” con l’intento di assicurare una migliore posizione negoziale di Belgrado alla vigilia della fase conclusiva dei negoziati sul Kosovo.

Oggi l’Europa in BiH difende i propri interessi, principi e futuro. Le immagini dei meeting a Banja Luka hanno chiaramente suggerito che tipo di gioco si è iniziato a giocare con quel futuro, da Mosca a Belgrado attraverso Banja Luka. Il pericolo di una “falla strategica” attraverso l’Europa sud orientale fino ai mari caldi ha innervosito tanto la NATO quanto l’UE nella misura in cui la situazione in BiH non è più un problema a sé stante. Detto con franchezza, niente di ciò che accade su un ampio spazio attorno alla BiH è casuale e senza pericolo.

Questa è la base per poter credere che questa volta l’Europa si spingerà là dove per oltre un decennio non ha avuto né la forza né la ragione per arrivare: il mostruoso impianto costituzionale di Dayton inizia a minacciare la stabilità della regione ed oltre. In tutta questa storia Dodik, ma anche i suoi simili in altre parti della regione, non sono che piccoli esecutori sul campo. Loro, però, non sono un problema strategico. Ecco perché si può tranquillamente credere che la recente crisi, benché seria, sia ancora sotto controllo. Essa si risolve in altri luoghi, e non a Sarajevo e non di certo a Banja Luka.
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