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Dicembre in Kosovo

17.12.2007    Da Kosovska Mitrovica, scrive Tatjana Lazarević
Kosovska Mitrovica
Passato il 10 dicembre, da molti considerato erroneamente come il D day per il Kosovo, c’è ancora parecchia incertezza sul futuro status della provincia. Come vivono i serbi del Kosovo la situazione attuale, quali sono le aspettative, quali i timori?
È passato anche il 10 dicembre. Il giorno in cui è terminato ufficialmente il mandato della troika di mediatori, ossia la fine dei negoziati, che qualcuno ha erroneamente, per caso o intenzionalmente, presentato come D day.

Per i media locali e internazionali è stata comunque una buona occasione di lavoro. Avevano di che scrivere. Decine di equipe giornalistiche hanno visitato il Kosovo alla vigilia del 10 dicembre. Senza dubbio, i giornalisti, fotoreporter e cameraman sono stati la forza dominante per le vie del Kosovo.

Nel nord del Kosovo, dove risiede la maggioranza della popolazione serba, le agenzie di stampa internazionali annotano la riposta ad una sola domanda: “Cosa faranno i serbi del nord quando gli albanesi dichiareranno l’indipendenza?”. I locali li correggono: "se" al posto di "quando", perché i serbi di qua si arrabbiano quando non si fanno domande col condizionale, e non si preoccupano nemmeno di rispondere.

Quale sarà il futuro delle enclave al sud e al centro del Kosovo, come vengono definiti eufemisticamente i ghetti a sud del fiume Ibar, in cui vivono i due terzi della restante popolazione serba della provincia? Questa domanda non si pone con piacere, e ancor più difficilmente le si dà una risposta. La sopravvivenza delle enclave non è aiutata nemmeno dalle novità linguistiche della comunità internazionale. Sarà un’indipendenza coordinata e controllata, selettiva, unilaterale, sorvegliata o condizionata? È tutto uguale per i serbi rimasti in un contesto albanese, perché nel piano esistente di soluzione dello status del Kosovo le enclave difficilmente resteranno.

Alla vigilia del 10 dicembre, era partita una campagna pubblica tra la comunità serba, con la quale i leader serbi e i capi delle istituzioni pubbliche hanno chiesto ai cittadini di restare tranquilli nello loro case e nei loro posti di lavoro, di non temere e di non aspettarsi disordini.

Il dieci dicembre anche il ministro serbo per il Kosovo e Metohija, Slobodan Samardzic ha visitato coi suoi collaboratori il territorio di cui il suo ministero è competente. Il ministro ha consegnato i computer per le scuole in alcuni villaggi, ma lo scopo principale della sua visita è stata l’apertura dell’ufficio di questo ministero a Kosovska Mitrovica.

L’unità territoriale del ministero è stata aperta nella parte più problematica di Kosovska Mitrovica, nella Bosnjacka Mahala (quartiere bosgnacco), come viene definito questo quartiere, a causa della sua composizione multietnica, la sensibile posizione strategica data dalla prossimità dei due ponti principali che dividono in due la città, così come le arcaiche architetture delle case fitte e delle numerose vie strette e contorte. Con ciò sono iniziati i lavori di ricostruzione al primo piano e all’ingresso dell’esistente palazzo, che si trova davanti al mercato multietnico, dove la gente convive spontaneamente.

I serbi comprano i prodotti dagli albanesi a prezzi inferiori di quanto vengano venduti al mercato “serbo”, a soli duecento metri di distanza. Si paga in dinari o in euro, si parla perlopiù in serbo, perché sono rari i serbi che parlano albanese, e il pienone si raggiunge il sabato, quando è giorno di mercato, così è stato anche alla vigilia del 10 dicembre, quando nella corsa contro il tempo si stavano preparando gli spazi per l’arrivo del ministro di Belgrado.

A soli duecento metri di distanza si trovano i resti del mercato multietnico “legale”, un progetto costoso che non ha mai funzionato, uno dei numerosi progetti della comunità internazionale falliti e dimenticati.

Attorno all’edificio si costruiscono in fretta delle unità abitative, per le persone sfollate dalle altre parti del Kosovo, come si dice in pubblico, motivo per cui i serbi sotto i colpi dell’opinione pubblica albanese e dei politici sono accusati di cementare la divisione della città. Gli albanesi, che la parte serba negli anni scorsi ha accusato di trasferirsi strategicamente nel quartiere di Bosnjacki Mahala e di spingere ancora di più i serbi a nord, adesso avvertono la pressione del cambiamento di composizione etnica di questo luogo.

In Kosovo ogni parte si dà da fare per vedere in tutto questo ciò che lo distoglie dal proprio insuccesso: così gli stranieri con simpatia osservano la comunicazione da mercato tra serbi e albanesi, nonostante sia nata senza la loro mediazione. In Kosovo d’altra parte è raro che non si immischino gli “esperti” da fuori. Forse è anche per questo che la comunicazione da mercato è riuscita.

I serbi di qua vedono nella recente apertura dell’ufficio del ministero un sostegno alla loro causa in un momento cruciale. La parte serba chiede il proseguimento dei negoziati, con l’appoggio della Russia lotta accanitamente per arrivare alla continuazione della discussione. I kosovaro albanesi, dall’altra parte, con il forte appoggio della maggior parte dei paesi europei, e in particolare degli USA, ripetono che con la Serbia possono trattare solo sulla creazione di relazioni tra due paesi sovrani e indipendenti e che sono esaurite tutte le possibilità di negoziazione.

Le cose saranno più chiare dopo la seduta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dedicato al Kosovo, fissata per il 19 dicembre, quando sono attesi gli interventi del premier serbo Vojislav Kostunica e del presidente kosovaro Fatmir Sejdiu.

Nel frattempo, l’Unione europea lavora faticosamente al raggiungimento di una posizione unitaria sulla questione del futuro status del Kosovo, sì da inviare il più velocemente possibile la nuova missione nella provincia nel momento in cui è atteso che i kosovaro albanesi dichiareranno l’indipendenza. Questo è la sostanza del nuovo concetto di “indipendenza controllata e coordinata”.

A differenza dell’estate scorsa, questa volta sembra che l’Ue sia pronta ad inviare una nuova missione anche senza l’avvallo del Consiglio di Sicurezza, ossia senza una nuova risoluzione.

La Serbia è fortemente contraria all’invio di una missione europea in Kosovo, perché ciò significherebbe l’accettazione del piano Ahtisaari, che i serbi hanno rigettato, e che negli ultimi giorni è ritornato di attualità.

Ciò che gli stranieri per anni hanno smentito in pubblico, adesso è diventata un’esplicita offerta: una via più facile per la Serbia verso l’Unione europea, come ricompensa per la perdita del Kosovo.

L’ex membro del team negoziale della Serbia per lo status del Kosovo, Leon Kojen, in un’intervista per il quotidiano serbo “Vecernje Novosti” afferma che, “se dovesse esserci una dichiarazione parlamentare con la quale la Serbia rifiuta di firmare l’accordo sull’ingresso dell’UE, che molti già interpretano come ricompensa per il Kosovo, allora l’UE sarebbe costretta a scegliere”

Il deputato slovacco al parlamento europeo e responsabile per la Serbia, Jelko Kacin per la radio statale slovacca annuncia una fase turbolenta e dice: “In Serbia in questo momento regna uno stato nevrotico, e nessuno dei politici ha il coraggio di dire che nei Balcani nascerà un nuovo stato e che la comunità internazionale lo riconoscerà”.

In Serbia è iniziata anche la campagna elettorale per le presidenziali, il giorno dopo l’inaspettata indizione delle elezioni presidenziali, avvenuta il 12 dicembre scorso. E all’incirca nello stesso momento, dall’Ue è giunto un chiaro segnale che dice che la decisione sullo status del Kosovo si rinvia all’inizio della primavera, dopo le elezioni presidenziali in Serbia, nonostante precedentemente si fosse detto che la decisione sarebbe seguita in gennaio o al massimo in febbraio.

I serbi del Kosovo già da anni sono in uno stato nevrotico, di cui forse parla Kocin, ma sono anche profondamente apatici. Dalla completa amnesia però li preserva l’adrenalina, che in Kosovo c’è in abbondanza.

“Invidio tutte quelle persone che possono andare a dormire e che sanno che fra un mese o due a partire da oggi il loro futuro è certo. Mentre io non so se qualcuno nei prossimi trenta giorni avrà il potere di cacciarmi da qua”. È il contenuto di un messaggio SMS di Marijana Scekic, trentenne di Zvecan, un luogo a 3 chilometri da Kosovska Mitrovica, che lei ha inviato ad alcuni suoi amici.

“Stavo male quella sera. Forse era anche il 10 dicembre. Ho pensato al Capodanno e al Natale e ho desiderato sentire il calore e la consolazione, che queste feste portano con sé. Ho scritto un SMS ai miei amici. Il giorno dopo ero già di nuovo ottimista”.

“Il Capodanno si avvicina, ed io penso soprattutto alla corrente elettrica, saranno lunge le restrizioni? La corrente elettrica per noi è il punto di contatto col mondo, e la TV è letteralmente l’unica finestra sul mondo, e finché funzionerà regolarmente, l’immagine e il suono della TV saranno in grado di portare un’atmosfera più festosa nelle nostre case”, in modo parco e silenzioso dice Mila Banasevic, una bella e moderna ventottenne che già da otto anni vive nella più grande enclave serba a Strpce, ai piedi della bella Sar Planina. Mila nel ’99 è fuggita in questo villaggio dalla città kosovara di Urosevac. Lei è comunque fortunata, perché aspetta il suo fidanzato di Novi Sad, tranquilla città del nord della Serbia, che arriverà qui per passare il capodanno in questo luogo di montagna. “Lui non ha di questi problemi, ma la nostra sfortuna gli fa male”, ha aggiunto Mila.

Per i serbi del Kosovo nessuna politica è abbastanza alta, perché ogni decisione che venga da Bruxelles, Washington o Mosca li riguarda.

Quelli che sono rimasti nel ’99 nella provincia e desiderano tuttora rimanervi, e che quotidianamente discutono collettivamente e interpretano i rapporti e le dichiarazioni sul Kosovo, temono una nuova ondata di violenze, temono le immagini di ondate di profughi degli anni ’90, dalla Croazia, attraverso la Bosnia Erzegovina fino al Kosovo,.

Per i serbi del Kosovo, questo dicembre non è l’ultimo mese dell’anno, bensì l’inizio di un periodo inquieto e turbolento, di cui forse parlava il deputato slovacco, ma per alcuni forse è l’ultimo dicembre nella propria casa del Kosovo.
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