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Tutto fermo, tutto cambia

20.12.2007    Da Bruxelles, scrive Tomas Miglierina

Seduta del Consiglio di Sicurezza
Come previsto, la riunione del Consiglio di Sicurezza dello scorso 19 dicembre ha dimostrato l’impossibilità di arrivare ad una nuova risoluzione ONU per il Kosovo. L'Unione europea è però decisa ad inviare nella regione quella che sarà la più grande missione di politica estera della sua storia
La scorsa settimana i capi di Stato e di governo dei 27 hanno firmato solennemente a Lisbona il trattato riformatore dell’Unione europea, che istituisce tra l’altro un alto rappresentate per gli affari esteri (la Costituzione parlava di un “ministro”, ma il termine è stato cancellato, ritenendolo troppo evocativo di poteri statali). Il giorno dopo quegli stessi protagonisti hanno discusso a Bruxelles di come muoversi nell’intricata questione del Kosovo, il prossimo test della politica estera europea. La partita si giocherà nelle prossime settimane e con le regole attuali, dal momento che - nella migliore delle ipotesi - il trattato di Lisbona entrerà in vigore solo all’inizio del 2009. Inoltre, anche nella nuova Unione riformata, le decisioni di politica estera continueranno ad essere prese all’unanimità.

I parallelismi non sempre sono incoraggianti: nel febbraio 1992 con il trattato di Maastricht (che sarebbe entrato in vigore l’anno dopo) gli allora 12 si dotarono per la prima volta di una politica estera e di sicurezza comune (PESC) creando tra l’altro la figura dell’Alto rappresentante. Due mesi dopo scoppiava la guerra in Bosnia Erzegovina, che di una politica estera europea dimostrò tutto il bisogno e la mancanza.

L’unico atto concreto compiuto venerdì scorso dal Consiglio europeo è stato il lancio di una missione civile europea per il Kosovo. Un gesto politico, giacché tutti i dettagli della missione, compreso il nome, dovranno essere definiti nella prossima riunione dei ministri degli esteri, in agenda per il 28 gennaio. E dal momento che la riunione cadrà proprio in mezzo alle elezioni presidenziali serbe (primo turno il 20 gennaio, ballottaggio il 3 febbraio) è possibile che una parte delle decisioni slitti a metà febbraio.

In realtà i preparativi sono in corso da oltre un anno ed il reclutamento del personale è in fase inoltrata. In tutto circa 1800 persone prenderanno gradualmente la staffetta dall’UNMIK, la missione ONU: poliziotti, magistrati, esperti di amministrazione civile. Sarà la più grande missione PESC nella storia dell’UE e vi prenderanno parte anche paesi che non fanno parte dell’Unione, come la Svizzera.

Non è semplice lanciare operazioni simili, ma e lo è ancora meno quando le basi legali sono incerte e il paese che esercita la sovranità formale sul territorio (la Serbia) vi è apertamente ostile: Vojislav Kostunica non ha aspettato due ore per denunciare la decisione degli europei. Il dispiegamento – ha dichiarato il premier di Belgrado - creerebbe uno stato fantoccio su una parte di territorio serbo.

Mercoledì 19 dicembre, come ampiamente previsto, la riunione del Consiglio di sicurezza ha dimostrato l’impossibilità di arrivare ad una nuova risoluzione ONU. In mancanza di meglio, agli europei non resta che appoggiarsi su quanto c’è: la risoluzione 1244. Nella migliore delle ipotesi Ban Ki-Moon potrebbe, con una dichiarazione, invitarli esplicitamente a prendere l’iniziativa; in questo senso la decisione di avviare la missione è stata anche un mezzo per fare pressioni sul Segretario generale. Ma Ban-Ki Moon è sottoposto a pressioni di segno opposto dalla Serbia e della Russia.

La risoluzione 1244 stabilisce in Kosovo una “presenza civile internazionale” in termini sufficientemente ambigui per consentire delle interpretazioni creative, almeno secondo la maggioranza dei diplomatici europei. Uno dei quattro pilastri dell’UNMIK, la ricostruzione e lo sviluppo economico, è già guidato dall’Unione europea mentre un altro – la democratizzazione e il rafforzamento delle istituzioni - è stato affidato all’OSCE. In entrambi i casi non c’è stato bisogno di far intervenire il Consiglio di sicurezza. Il problema semmai è altrove: il riferimento, nel preambolo della risoluzione, alla sovranità e all’integrità territoriale della Serbia. Non sarà semplice trovare una formula che consenta la creazione istituzioni come il rappresentante civile internazionale a cui il piano Ahtisaari affida “forti poteri correttivi” sulle decisioni dei governanti del Kosovo per garantire il successo del piano stesso.

Le basi legali della missione sono un punto su cui i 27 dovranno trovare un consenso. Il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo riguarda invece i singoli Stati, non esistendo un riconoscimento europeo. Londra non aspetterà, mentre Cipro – visti i problemi domestici - non riconoscerebbe il Kosovo nemmeno se lo facesse Belgrado. La solidarietà starà nell’evitare che questa divergenza di approccio possa diventare un fattore di divisione.

Resta, da ultimo, la questione di cosa fare con la Serbia. Fortemente sostenuta dall’Italia, l’idea di accelerare la marcia di Belgrado verso l’Unione europea raccoglie sempre più consensi. Le conclusioni del Consiglio europeo parlano esplicitamente di concessione dello status di paese candidato: mai prima d’ora i 27 si erano spinti cosi in là. L’ostacolo si chiama cooperazione con il Tribunale penale internazionale, ovvero l’arresto almeno di Ratko Mladic, ed è cosa non da poco. Ormai però sembrano essere rimasti solo Olanda e Belgio a sostenere una interpretazione rigida della condizionalità, secondo cui la firma degli accordi con Belgrado deve dipendere non già dagli sforzi per l’arresto di Mladic ma dal loro effettivo successo. Da gennaio il tribunale dell’Aja avrà un nuovo procuratore, il belga Serge Brammertz. Molto dipenderà dalla sua impostazione: se manterrà la linea di Carla Del Ponte o se pronuncerà quelle poche parole che permetterebbero agli europei di cambiare politica pur pretendendo di non averla cambiata.
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