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Emigrazione forzata

23.03.2007    Da Istanbul, scrive Fabio Salomoni

Due recenti ricerche fanno breccia nel muro di silenzio che ha a lungo circondato la realtà dell’emigrazione forzata delle popolazioni curde, rivelando le dimensioni e le cause di questo drammatico fenomeno
“Persone trasferite dai loro luoghi di residenza per ragioni di sicurezza”. Dietro quest’espressione dall’apparenza fredda e neutrale dei documenti ufficiali si cela la realtà drammatica degli effetti collaterali di una guerra. In questo caso “la guerra a bassa intensità”, per usare un’altra espressione popolare tra gli ambienti ufficiali turchi, che dal 1984 al 1999 ha opposto il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e le forze di sicurezza di Ankara.

Bassa intensità solamente sulla carta però perché il bilancio di quindici anni di scontri e violenze oscilla, a secondo delle fonti di riferimento, tra le 30.000 e le 32.000 vittime. Se la crudezza di questo bilancio è ormai da alcuni anni entrata a far parte della coscienza collettiva del paese, a volte finendo persino per essere utilizzata con cinica disinvoltura per sostenere questa o quella tesi politica, degli effetti collaterali si è a lungo taciuto. In particolare la drammatica realtà delle decine di migliaia di persone che nel corso degli anni hanno abbandonato le regioni teatro degli scontri per andare ad ingrossare le periferie delle principali città del paese, contribuendo ad incrementare un fenomeno, quello dell’emigrazione interna e dell’urbanizzazione massiccia, che caratterizza gli ultimi decenni della storia turca.

Il primo contributo nel far breccia nel muro di silenzio che ha a lungo circondato la realtà dell’emigrazione forzata delle popolazioni curde è arrivato dalla commissione parlamentare di inchiesta istituita nel 1998.

Il rapporto elaborato dalla commissione rivelava come dal 1984 al 1997 fossero stati evacuati 905 villaggi e le persone costrette ad emigrare fossero circa 378.000. L‘anno successivo il ministero degli interni avviava un programma di sostegno per coloro che volessero ritornare nei propri villaggi (KDRP). Iniziative sporadiche che acquistavano una maggiore sistematicità solamente nel 2002 quando veniva invitato in Turchia il rappresentante speciale delle Nazioni Unite Francis Deng, un gesto con il quale di fatto le autorità turche riconoscevano l’esistenza del problema.

Il rapporto elaborato da Deng ha costituito lo stimolo per una serie di iniziative realizzate negli anni successivi: un accordo di collaborazione tra il ministero degli esteri turco e l’United Nations Development Programme, la realizzazione di un’inchiesta statistica su scala nazionale per verificare le dimensioni qualitative e quantitative del fenomeno, l’approvazione nel 2004 da parte del Parlamento di una legge per il risarcimento “dai danni prodotti dal terrorismo e dalla lotta-antiterrorismo”.

Nel 2005 poi un accordo con un nuovo rappresentante delle Nazioni Unite fissava gli obbiettivi prioritari per l’azione del governo: l’eliminazione degli ostacoli che impediscono il ritorno ai villaggi, la realizzazione delle infrastrutture necessarie, l’assistenza a coloro che non hanno intenzione di rientrare nei villaggi di origine, l’applicazione della legge sui risarcimenti. Passi importanti la cui concreta applicazione si presenta però alquanto problematica.

Prendiamo ad esempio la ricerca su scala nazionale raccomandata dal rapporto Deng. Affidata all’Istituto di studi demografici dell’Università Hacettepe di Ankara (HÜNEE) ha visto la collaborazione delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dell’Istituto per la Pianificazione statale (DPT). Nonostante essa sia stata ultimata nel febbraio 2006 i suoi risultati sono stati resi noti solamente nel dicembre dello stesso anno, grazie alle pressioni della società civile e tenendo conto che la sua pubblicazione era imposta dal protocollo d’intesa firmato con le Nazioni Unite.

Il dato più interessante è rappresentato dalle dimensioni del fenomeno. Smentendo i dati tradizionalmente forniti dal ministero degli Interni, il rapporto rivela che le persone emigrate per ragioni di sicurezza sono state tra 953.000 e 1.200.000 unità, più del quadruplo dei dati ufficiali. Il rapporto precisa che l’87% delle persone intervistate è emigrata contro la propria volontà. Inoltre la metà degli intervistati si dichiarava all’oscuro dell’esistenza di una legge che risarcisse dai danni materiali subiti.

Il rapporto mantiene poi un atteggiamento reticente rispetto alle cause che hanno portato all’abbandono dei villaggi. Si parla di generiche richieste a sgomberare i villaggi oppure di difficoltà generate dai divieti di utilizzare gli alpeggi ed a rifornirsi di alimenti, senza mai esplicitamente citare da chi questi divieti e queste richieste siano arrivate.

E’ una ricerca realizzata dalla TESEV, Fondazione per gli studi economici e sociali, sempre nel 2006 a fornire un quadro più dettagliato dell’intero fenomeno.

Fin dal titolo “Fare i conti con l’emigrazione forzata” la ricerca mostra di avere un approccio diverso da quella realizzata dall’HUNEE. Essa consiste in una parte introduttiva di carattere storico-teorico ed una ricerca sul campo attraverso interviste realizzate con gli emigrati a Istanbul Diyarbakir, Batman ed Hakkari, oltre che con esponenti della società civile ed amministratori locali.

Nella ricerca vengono elencate senza reticenze le cause che hanno spinto la popolazione ad emigrare: l’evacuazione forzata con l’incendio delle abitazioni da parte delle forze di sicurezza, le pressioni fisiche e psicologiche esercitate dalle forze di sicurezza che spesso mettevano gli abitanti di fronte alla scelta tra l’essere arruolati tra i guardiani di villaggio o l’emigrazione, la generale situazione di insicurezza ed infine le pressioni del PKK.

La ricerca contiene importanti informazioni per quanto riguarda il problema del ritorno nei villaggi di origine. In primo luogo mostra come il desiderio di ritornare non sia unanimemente condiviso ma riguarda soprattutto le persone più anziane. Per i giovani e le donne la nuova vita in un contesto urbano, nonostante le innumerevoli difficoltà – la disoccupazione, la difficoltà di accesso alle cure mediche, la scarsità di opportunità scolastiche per i bambini, la precarietà abitativa - rappresenta una prospettiva più allettante rispetto a quella del ritorno in un ambiente rurale. Le difficoltà poi per coloro che vogliono comunque rientrare nei villaggi di origine sono molteplici: in primo luogo il clima di insicurezza creato dalla presenza dei guardiani di villaggio.

Il sistema dei guardiani di villaggio è stato introdotto con una legge del 1985. Con esso lo Stato fornisce salario ed armamento agli abitanti dei villaggi con lo scopo di autodifendersi dagli attacchi del PKK e di collaborare alle operazioni militari. Nel 2006 i guardiani di villaggio ancora in attività erano 57.174, nonostante Nazioni Unite ed Unione Europea abbiamo più volte raccomandato lo
scioglimento di queste milizie paramilitari ed iniziative governative volte a creare opportunità di lavoro alternative per i loro membri.

Nonostante le assicurazioni fornite dal ministro degli Interni il rapporto TESEV sottolinea come non ci siano segnali che facciano pensare ad uno scioglimento imminente. La presenza ed i soprusi spesso commessi da questi miliziani, all’aprile 2006 5.000 di loro avevano commesso un qualche reato, sono spesso indicati dagli intervistati come una delle fonti principali di insicurezza che impedisce il loro rientro nei villaggi natali.

La ricerca conclude individuando una serie di priorità e indicazioni per le autorità: per quanto riguarda il rientro nei villaggi d’origine in particolare l’abolizione del sistema dei guardiani di villaggio, la creazione delle necessarie infrastrutture – elettricità, strade, acqua potabile - nelle zone rurali, specifici programmi di sviluppo economico indirizzati al settore agricolo e all’allevamento, lo sminamento dei villaggi minati dalle forze di sicurezza, il rafforzamento dei servizi sanitari e scolastici. Per quanto riguarda le zone urbane che hanno assorbito l’emigrazione si sottolinea l’importanza di programmi di assistenza sociale, programmi di sviluppo tesi a facilitare l’integrazione socio-economica, programmi ed iniziative mirate in particolare all’istruzione di donne e bambini.

Accanto a questi elementi la ricerca sottolinea l’importanza di iniziative volte ad affrontare quella che viene definita “riabilitazione psicologica e sociale”, attraverso la creazione di centri di assistenza medico-psicologica anche in collaborazione con le associazioni della società civile.

Più in generale le conclusioni della ricerca insistono sulla necessità che lo stato riconosca in toto e pubblicamente la responsabilità per le violazioni di fondamentali diritti costituzionali delle popolazioni della regione e che si adoperi per perseguire penalmente i responsabili di queste violazioni.

Alla presentazione della ricerca HÜNEE il ministro degli interni Aksu aveva promesso che avrebbe tenuto in considerazione le conclusioni del rapporto. In un convegno internazionale organizzato lo scorso dicembre sempre dalla TESEV un rappresentante del ministero degli interni a proposito dell’emigrazione forzata aveva dal canto suo riconosciuto come lo stato non sia stato in grado di prevedere e di gestire la crisi. “Prendiamo nota, è necessario seguire da vicino gli sviluppi” ha commentato Dilek Kurban, una delle ricercatrice della TESEV.