Francesca a Venezia
16.09.2009
Da Venezia,
scrive Nicola Falcinella
Un'immagine tratta dal film 'Francesca' di Bobby Paunescu
Per Francesca, ragazza romena, l'Italia è un sogno da sempre, ma quando trova lavoro attraverso un intermediario tutti la sconsigliano. E' il periodo della tensione tra Italia e Romania a seguito del brutale omicidio di Giovanna Reggiani. Una rassegna sui film balcanici presenti a Venezia
Fuori concorso, uno nella sezione "Orizzonti" l’altro nelle parallele "Giornate degli autori", due film balcanici hanno fatto parlare alla Mostra del cinema di Venezia. Senza dimenticare il vitale “Soul Kitchen” di Fatih Akin, tedesco di origine turca che ha raccontato di due fratelli di famiglia greca ad Amburgo.
Il primo film è “Francesca”, opera d’esordio del romeno cresciuto a Milano Bobby Paunescu, già produttore di Cristi Puiu. Il film ha ottenuto visibilità anche per le polemiche seguite alla richiesta di Alessandra Mussolini e del sindaco di Verona Flavio Tosi di bloccare il film. Tutto per le battute di alcuni personaggi che commentano le prese di posizione dei due politici sui romeni in Italia.
La trentenne del titolo, interpretata dall’affascinante Monica Birladeanu (che ha recitato anche negli Usa in “Lost” e in “Nip/Tuck”), è una maestra d’asilo che vuole venire da Bucarest a Sant’Angelo Lodigiano (che diventa “Lodinese” nel film) nel novembre del 2007. L’Italia è il suo sogno da sempre, in parte indotto da un vecchio amore della madre, ma quando trova un lavoro attraverso un intermediario tutti la sconsigliano, a partire da suo padre.
È un momento in cui i rapporti tra i due Paesi sono molto tesi dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani alla periferia di Roma. E questo è stato il punto di partenza di Paunescu nel concepire il film: cercare di far capire a entrambe le parti come stanno veramente le cose e superare paure e pregiudizi reciproci.
Il regista si rifà anche alle vere e irresponsabili dichiarazioni di nostri politici in quei frangenti e nel film c’è chi usa epiteti verso Alessandra Mussolini (aveva detto che i romeni hanno lo stupro nel Dna), che non si è sottratta alla moda del momento di denunciare per diffamazione il film e i suoi autori. La sala veneziana ha inoltre applaudito a scena aperta la citazione del sindaco leghista di Verona, che voleva cacciare i romeni dalla sua città, forse dimenticando che sull’Adige sono molti i lavoratori romeni senza i quali le aziende locali entrerebbero in grande difficoltà. Paunescu mostra nel fim una Bucarest un po’ fatiscente o piena di cantieri: “Ho scelto apposta queste zone della capitale per rendere la crisi d’identità che attraversa la Romania”. Nonostante qualche lungaggine, il regista si mantiene, anche appoggiandosi alla bellezza del viso dell’attrice, in equilibrio. Tra mille rischi racconta i sogni e le paure di chi emigra, senza mostrare i romeni come tutti buoni.
Buono il cast con Luminita Gheorghiu, Dorian Boguta, Teodor Corban, Doru Ana e Ion Sapdaru. La pellicola, che ben s’inserisce dentro il nuovo cinema romeno che negli ultimi anni ha raccolto premi in tutto il mondo, è stata acquistata per l’Italia da Fandango ma per l’uscita bisognerà aspettare che si esaurisca il polverone.
Intanto venerdì arriva nelle nostre sale “Racconti dall’età dell’oro” il divertente film a episodi scritto e prodotto da Cristi Puiu (Palma d’oro “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”) che è anche regista del corto più bello. Al suo fianco ci sono Hanno Hofer, Razvan Marculescu, Constantin Popescu, Ioana Uricaru e una schiera di attori ottimi, perché se sono i registi a trascinare l’onda romena, non potrebbero farlo senza interpreti di gran livello, sia tra quelli esperti sia tra quelli emergenti.
“Honeymoons”, il nuovo lavoro di Goran Paskaljević, racconta di due coppie, una albanese e una serba. Nik (Jozef Shiroka) vive a Kukes con i genitori e la bella Maylinda (Mirela Naska), fidanzata del fratello Ilir scomparso 3 anni prima mentre cercava di raggiungere l’Italia. La madre dei ragazzi non si rassegna alla morte del figlio, a costo di frustrare la vita della giovane, vedova senza essere stata moglie e rinnegata dalla famiglia d’origine. La famiglia sale su un pullman e parte per Tirana per partecipare al matrimonio di un parente con la figlia di un ministro. Per i quattro contadini l’incontro con la città e i nuovi ricchi è uno shock, anche se il padre Rok, che era stato in galera durante il comunismo dice: “Questi sono gli stessi che mi avevano incarcerato”.
Nik ha però un piano, ha ottenuto visti per se stesso e per Maylinda alla quale conta di dichiararsi. Partiranno di nascosto ma all’arrivo in Puglia troveranno una situazione ancora più difficile del previsto e le cose precipitano.
Ha uno schema simile la metà serba del film (quella albanese è stata scritta dal regista con Genc Permeti), che prende avvio nella stessa giornata, mentre in Kosovo (il nodo di tutto) un attentato di cui non si conosce il colpevole ha ucciso due soldati italiani della Kfor. In questo secondo caso la coppia è già sposata (di nascosto). Marko (Nebojsa Milovanovic) è un musicista belgradese e Vera (Jelena Trkulja) è di un paese della Vojvodina: tornano a casa di lei per il matrimonio della cugina. Il problema è la rivalità tra il padre della ragazza (Petar Bozovic) e lo zio (il grande Lazar Ristovski sovreccitato al punto giusto), nata per motivi politici: uno è un perdente che ne ha fatto una malattia, l’altro ha messo da parte gli scrupoli per fare strada e denaro. I giovani vogliono guardare avanti e superare le vecchie rivalità, ma una frase di Marko in una kafana (“Non si sa chi sia stato” ribatte ai ragazzi che invece accusano gli albanesi dell’attentato) lo mette nei guai. I due sposi riusciranno a partire in treno (il musicista ha un provino alla Wiener Philarmonik) ma alla dogana si trovano in un pasticcio simile a quello dei ragazzi albanesi.
Quanto a Nik, detenuto in Italia in attesa di accertamenti con altri stranieri, si sente rivolgere da un connazionale una battuta corrosiva: “Gli italiani sono razzisti, dicono di essere nostri amici ma poi ci mettono in cella con i neri”. Paskaljević gira con la solita maestria ricoperta di semplicità, dipinge caratteri veri, li affida ad attori convincenti, non calca troppo la mano e non risparmia le cattiverie (il matrimonio illirico è accompagnato da musiche serbe, in quello in Vojvodina spuntano pistole da ogni tasca). Il quadro sconfortante che ne esce corrisponde a quello che molte persone vivono quotidianamente, nelle campagne, nelle città irriconoscibili (Rok torna a Tirana dopo 15 anni e si perde) e alle frontiere.
Per una volta l’ottimismo viene da Akin che nei film precedenti, come “La sposa turca”, non aveva risparmiato i drammi. In “Soul Kitchen”, che ha ricevuto il premio speciale della giuria, il tono resta tutto sommato leggero. Della terra d’origine turca resta uno spezza schiene che guarisce il protagonista dall’ernia al disco, metafora di un peso troppo grande da portare. Le musiche sono scelte benissimo, trascinanti, i protagonisti (su tutti Adam Bousdoukos circondato da tre ragazze bellissime) perfetti, la storia regge fino alla fine tra gag sorprendenti ed esilaranti e si crea quella magia che lascia credere che per una volta possano vincere i buoni.