Amore e altri crimini
30.09.2009
scrive Mauro Cereghini
L’inquietudine davanti ad un passato fallimentare, un presente grigio ed un futuro incerto. Una giornata della Belgrado di periferia, tra amori, tradimenti e sogni di riscatto. La Serbia di oggi nel film “Amore e altri crimini”, uscito in Italia questa estate. Nostra recensione
Ma è Belgrado questa città? O meglio, sono Belgrado questi pochi grigi palazzoni di periferia popolare, attorno a cui ruotano i centocinque minuti del film “Amore e altri crimini”? Una pellicola presentata molti mesi fa al festival di Berlino, ma uscita in (qualche) sala italiana solo questa estate. Opera prima di un giovane regista, Stefan Arsenijevic, forse difficile, sicuramente non scontata.
Racconta uno spazio urbano anonimo che potrebbe stare in un qualsiasi paese post-comunista, o forse in una qualsiasi città europea tout court. Piccola malavita di quartiere, abitanti abbruttiti dalla routine della vita, speranze e illusioni di chi cerca una fuga altrove. È una Belgrado vera, sincera, ma fuori dagli schemi dell’iconografia balcanica tradizionale. Niente canzoni gitane o turobofolk dirompente, niente frenesia metropolitana, nessuna immagine di Kalemegdan, del Danubio o di Kneza Mihailova. Piuttosto un ritmo lento, un respiro quasi claustrofobico. E la tristezza di “Bésame mucho” a fare da sottofondo musicale, per una storia di rimpianti e fallimenti. Un film sugli sconfitti – e forse in questo ritrova la sua “serbitudine” – e sulla paura di cercare un riscatto.
L’azione si svolge in un’unica giornata, densa di malinconia, sentimenti e un pizzico di humor nero. Anica, la donna di un boss di quartiere invecchiato e stanco, progetta di fuggire con i soldi della cassa. Stanislav, un giovane guardiaspalle, le dichiara timido il suo amore. Milutin, il capo, osserva ma non parla, piegato dal silenzio di una figlia traumatizzata e dagli abbandoni di una vita intera. Persone sconfitte, che non sanno se resistere o lasciarsi andare. Magari si illudono come la madre di Stanislav, che canta per un pubblico immaginario solo grazie ai soldi pagati dal figlio sottobanco ad un locale. O si barricano nel micro-universo del proprio baracchino, come i commercianti taglieggiati e insieme difesi dagli uomini di Milutin. O ancora si perdono tra soap opera latinoamericane e filmini del passato familiare. Manca in tutti loro il futuro, il senso di riscatto.
Lo sguardo del regista è spietato, anche se dolce. Vuole bene ai personaggi, eppure non dà loro una chance diversa dalla fuga. Per alcuni nella follia, per altri all’estero e senza neppure troppa gloria. Emblematico che l’unica scena girata fuori dal quadrilatero di palazzoni grigi sia quella finale all’aeroporto. La Serbia, sembra dire Arsenijevic, è bloccata dentro al suo passato e ne coltiva la tristezza. Non c’è più neppure il senso di ostilità al mondo intero indotto per resistenza dai bombardamenti Nato di dieci anni fa. Solo un frammento ironico li ricorda, ma come di cosa passata: “Non riuscivo a dormire e andai in bagno, tirai lo sciaquone e tremò l’intero palazzo”, ricorda così Stanislav, allora adolescente, le prime bombe.
Certo non tutto è immobile nella Belgrado del film. Ci sono cambiamenti, come il grande centro commerciale che sta per aprire accanto al quartiere. Ma questi lasceranno ai margini molte persone e creeranno nuovi esclusi. Lo avvertono inconsciamente gli abitanti del quartiere, fra cui cresce l’inquietudine. Perfino la malavita locale sarà superata, con i suoi codici spietati ma anche la sua dimensione domestica e conosciuta.
Lo spaesamento è un sentimento che attraversa tutto il film. Trovarsi a Belgrado e avere come colonna sonora un lento spagnolo. Colori grigi con qualche fiocco di neve anch’essa grigia, ma raccontare una storia di emozioni e sentimenti caldi. Soprattutto, vedere attorno a sé il mondo che cambia e non saper intervenire. Sta finendo il potere di Milutin, ma ciò che verrà è ignoto. E il giovane guardiaspalle è smarrito davanti all’impotenza del suo capo. Come le nuove generazioni lo sono davanti all’incertezza politica dei propri padri. Ancora una metafora forse su una Serbia in cerca della sua strada. O su un’Europa tutta spaventata e ignara davanti al nuovo millennio.
Certo, per leggere il film non c’è solo la chiave politica. Il racconto è anche una storia individuale, di amicizie e tradimenti molto personali. Una storia di donne forti – Anica su tutte, ma anche la figlia del boss che si fa forza del suo mutismo – e uomini che lo appaiono soltanto. Alla fine c’è chi riesce a decidere di prendere l’aereo e andarsene, e chi finisce per restare legato al proprio passato. C’è l’amore ingenuo e quello disilluso. Ci sono la vita e la morte. E c’è, sui personaggi e su tutta la storia, un rimpianto latino che si imparenta con la tragicità balcanica. “Bésame, bésame mucho / Como si fuera esta la noche / la última vez”. Il domani arriva, ma cosa porta è difficile saperlo.