andreas dresen
Con un bilancio positivo si è concluso giovedì 21 gennaio il Trieste Film Festival. Pubblico in crescita, soprattutto tra gli stranieri, e molti buoni film. Primo premio tra i lungometraggi al tedesco Andreas Dresen con “Wolke 9 – Al settimo cielo”
Pubblico in crescita, soprattutto tra gli stranieri - anche grazie ai giovani delle scuole di cinema che hanno partecipato alla EastWeek – film in gara molto buoni e sezioni interessanti al 20° Trieste Film Festival conclusosi ieri sera. Un bilancio positivo per una manifestazione che si è ritagliata un ruolo unico in Italia come apertura al vicino Est e che sta riuscendo negli anni ad aggiornare le proprie proposte. Non solo film, ma anche le Masterclass con tre importanti maestri quali Jerzy Stuhr, Marta Meszaros, Andrej Zulawski e poi il serbo
Dinko Tucakovic. A seguirli un buon numero di giovani delle scuole di Serbia, Bosnia, Montenegro, Germania, Albania e Slovenia.
Il concorso lungometraggi presentava 12 lavori, quasi tutti passati nei maggiori festival internazionali e in prima italiana. La giuria ha assegnato il premio a “Wolke 9 – Al settimo cielo” del tedesco Andreas Dresen, un triangolo amoroso tra ultra settantenni. Una pellicola delicata, di piccole cose e grandi sentimenti, che rompe il tabù del sesso nella terza età, senza morbosità, mostrando i corpi che la passione fa quasi tornare giovani. Il film in Germania ha avuto un grande e sorprendente successo di pubblico e meriterebbe una distribuzione italiana.
I giurati hanno poi assegnato due menzioni ad altrettante opere prime già segnalate dal festival di Sarajevo. “März” dell’austriaco Händl Klaus racconta l’elaborazione del lutto da parte di una piccola e chiusa comunità alpina per tre giovani che si sono suicidati con il gas di scarico.
Ha colpito sia la giuria sia il pubblico, che gli ha assegnato il voto medio più alto e il relativo premio, la sensibilità di Aida Begić nell’affrontare in “Snijeg – Neve” l’immediato dopoguerra in un isolato villaggio della Bosnia orientale dove sono rimaste solo donne, bambini e un vecchio.
A conferma della particolare sensibilità del pubblico triestino verso la ex Jugoslavia, la seconda pellicola più votata è stata “Turneja – Tournée” del serbo Goran Marković. Uno dei cineasti più importanti della scena balcanica ha raccontato ancora una volta, ma con forza, garbo e padronanza del racconto, l’assurdità della guerra e le basi comuni di popoli che si sono massacrati a vicenda. Siamo nell’inverno 1993, un impresario teatrale buono a nulla conduce la propria compagnia a fare degli spettacoli nella Bosnia serba. Il tema del teatro dentro il cinema con compagnie scalcinate o rappresentanti di tante tipologie umane è già stato usato molte volte, da Angelopoulos a Kenneth Branagh. Marković trova una chiave sincera e lucida: i combattenti sono tutti uguali e gli attori che vengono dalle città e quasi da un altro mondo non capiscono che accade intorno a loro.
La metafora riesce invece poco alla bulgara Sophia Zornitsa che in “Prognoza” raduna giovani di tutte le nazioni dell’area su un’isola turca dell’Egeo, poi ci aggiunge un estraneo (un reporter croato che vive a Londra che vuol cancellare la sua origine) e li fa litigare. Ma tutto è strumentale e prevedibile, oltre che a tratti non convincente nella recitazione.
Anche le repubbliche ex sovietiche hanno avuto gloria. “Tulpan” del kazako Sergej Dvortsevoy è stato, con “Quattro notti con Anna” del grande polacco Jerzy Skolimowski (tornato dietro la macchina da presa dopo 17 anni con un film cupo e potente), il maggiore escluso dai premi, ma sarà distribuito in Italia. La coproduzione Estonia – Finlandia “The revolution that wasn’t” di Aljona Polunina ha vinto il concorso documentari facendo emergere, dalla storia di due oppositori di Putin che affrontano le elezioni 2007, le tensioni della società russa contemporanea e l’eredità del passato recente. Sull’epoca comunista, con tanti materiali d’archivio, si è concentrato il russo Sergej Loznica in “Predstavlenje”, menzione speciale.
Il pubblico dei documentari ha invece apprezzato lo slovacco “Slepe Lasky” di Juraj Lehotosky, già premiato in molti festival, e l’italiano “Mostar United” di Claudia Tosi. Quest’ultimo, in gara assieme al buon “La guerra delle onde” di Claudia Cipriani sulla radio del Pci che trasmetteva da Praga negli anni ’50, è tra i pochissimi documentari italiani realizzati sulla Bosnia con un senso, una coerenza, uno sguardo rigoroso e un vero rispetto della materia trattata. Curando molto le immagini e concentrandosi su Mensud, l’allenatore della scuola calcio del Velez Mostar, Tosi (già autrice di “Private Fragmets of Bosnia”) racconta le assurdità della città lacerata dalla guerra.
Tra i cortometraggi premiati il ceco-americano “A Day’s Work” di Edward Feldman, il romeno “Balastiera #186” di Adina Pintilie e George Chiper, il polacco “Moj Brat” di Jan Wagner per la narrazione convincente e la maestria con cui sono stati diretti i piccoli attori e il russo “Resolution” di Pavel Oresnikov. Il pubblico ha invece privilegiato la lezioncina storica contro i pregiudizi “Meseld el…” dell’ungherese András Salomon e il simpatico “Fata galena care rade” del romeno Constantin Popescu: padre e madre cercano di comunicare via computer con il figlio emigrato.
Per la prima volta il festival, che ha ospitato anche una retrospettiva su Walerian Borwczyk, un omaggio al triestino Giacomo Gentiluomo e una sezione su James Joyce e il cinema, ha assegnato premi per “Zone di cinema”, che riunisce le produzioni friulane e giuliane dell’anno.
Il primo premio è andato a “Il perdente gentiluomo”, storia dell’attore Antonio Centa partito dal Friuli per diventare a Roma “il bello” dei telefoni bianchi, una storia raccontata dal tocco inconfondibile di Gloria De Antoni e Oreste De Fornari. Secondo “La debole corrente” di Nicole Leghissa sullo straordinario esploratore Pietro Savorgnan di Brazzà e terzo posto “Caffè Trieste” di Andrea Magnani e Raffaele Rago, sul locale di San Francisco punto di riferimento della cultura beat e non solo.