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Una separazione consensuale

19.12.2006   

"Sarebbe auspicabile arrivare presto ad una decisione chiara sullo status del Kosovo, che però non sia una imposizione unilaterale fatta ai serbi". Pubblichiamo il testo dell’intervento del professor Roberto Morozzo della Rocca al Convegno di Osservatorio sui Balcani “Kosovo, regione d’Europa”, tenutosi a Roma il 15 dicembre scorso
Di Roberto Morozzo della Rocca*

Roberto Morozzo della Rocca
Prima di entrare nella discussione del momento diplomatico e politico del Kosovo può essere bene citare brevemente due giudizi sul destino del Kosovo espressi da validi studiosi nel 1991, quando il Kosovo era lontano dall’assurgere a questione universalmente nota. E quando l’assenza di riflettori internazionali, in certo senso, rendeva più semplice e comprensibile la contesa fra albanesi e serbi.

Osservava allora Paul Garde che il Kosovo era nella Jugoslavia quello che per i francesi sarebbe stata “l’Algeria nell’Orléanais”. Percorrendo le piane del Kosovo dappertutto apparivano a Garde “gli stessi ingredienti: un passato serbo, un presente albanese”. Era un giudizio respinto sia dai serbi sia dagli albanesi: i serbi volevano anche il presente, gli albanesi volevano anche il passato. Eppure era questo il giudizio spontaneo di molti che allora visitavano il Kosovo, senza dedurne chi dovesse possedere la regione. Infatti sia il passato sia il presente garantivano diritti.

L’altro studioso che vorrei citare è Marco Dogo, le cui demitizzazioni hanno talora infastidito gli albanesi. A conclusione del suo libro del ’91 sul Kosovo, Dogo scrive:

“Quello del Kosovo è un conflitto etnico […] già vinto per gli albanesi; il loro certificato di vittoria è contenuto nelle cifre del censimento del 1991, che quando saranno pubblicate li vedranno attestarsi […] su percentuali superiori al 90% […] Non resta che sperare che la leadership politica e intellettuale serba sia indotta a chiedersi un giorno se davvero il Kosovo valga il prezzo sempre più alto che tutti, albanesi e serbi, stanno pagando per esso; e che in un atto di realismo – non di giustizia, non di conciliazione, ma di realismo estremo – essa si disponga a far accettare al suo pubblico quell’epocale correzione di rotta che sarebbe l’abbandono del Kosovo al suo destino, un’autoamputazione forse appena lenita da rettifiche territoriali minori e integrata da uno scambio di popolazioni […] e dalla sottoposizione dei monumenti della cultura serba in territorio ‘alieno’ alla tutela [internazionale]”.

Veniamo all’oggi. La decisione sullo status del Kosovo era attesa per questa fine d’anno. Lo si è tanto ripetuto nel 2005. Questa decisione è ora di nuovo rinviata. Da un anno nella comunità internazionale la linea prevalente, non però unanime, è quella, ben nota ormai, della cosiddetta indipendenza condizionata. Si tratta di capire quanto debbano essere vincolanti le condizioni. Agli albanesi danno malumore, ma alcune sono benaccette. Come la presenza militare internazionale che garantirebbe sicurezza e flussi di denaro. Gli albanesi possono sempre temere un ritorno offensivo serbo in avvenire (lo promette per esempio il partito di Seselj qualora vincesse le elezioni del 21 gennaio prossimo in Serbia). Soprattutto gli albanesi vogliono che resti Bondsteel con gli americani.

Ma ora, con l’avvicinarsi del momento di decidere, le carte si rimescolano. Non essendoci una soluzione logica che accontenti le due parti e le potenze loro retrostanti, sembra si stia andando ad una soluzione antinomica: da una parte un largo autogoverno kosovaro albanese, una indipendenza di fatto anche se forse non la si chiamerà tale, e dall’altra il perpetuarsi di un processo di implementazione dei noti standard e dello stesso status d’indipendenza. Gli albanesi dovrebbero essere contenti dell’indipendenza di fatto, e scontenti perché non de jure. I serbi dovrebbero essere scontenti dell’indipendenza de facto, e contenti che non ci sia de jure.

Lo status, parola magica per gli albanesi che agognano l’indipendenza, cesserebbe di essere un qualcosa da deliberare, da decidere, per divenire un processo. Christophe Solioz ha ben sottolineato come Kai Eide, prima di passare il testimonio ad Ahtisaari, abbia insistito sul fatto che lo status non è una decisione ma un processo. Si pensava che Vienna, il Gruppo di contatto, infine le Nazioni Unite, decidessero se il Kosovo dovesse essere indipendente o riattaccato in qualche modo alla Serbia, oppure altra cosa ancora. No, invece. Come Kai Eide aveva scritto nel suo rapporto finale, “entrare nel processo dello status futuro non significa entrare nella fase finale, ma nella successiva fase della presenza internazionale”.

La transizione senza decisioni definitive sullo status continuerebbe. Come continuerebbe ad attuarsi la politica d’implementazione degli standard finora perseguita dall’UNMIK. Né serbi né albanesi credono granché negli standard. Pensano che il Kosovo non sia né Svizzera né Scandinavia. Invece la comunità internazionale pensa che la citoyanneté debba arrivare a essere più onorata dell’appartenenza etnica, mediante la costruzione di uno Stato di diritto. Ciò che è giusto. Ma quando ci si arriverà? In quante generazioni? Si pensi solo ai disordini del marzo 2004 in Kosovo, le cui cause sono controverse, ma comunque hanno visto protagonisti dei giovanissimi che non avevano combattuto nel 1999 ed erano frustrati dal non aver goduto come i fratelli maggiori di una bella guerra contro il nemico storico.

Roberto Morozzo Della Rocca, Università di Roma Tre, Comunità di Sant'Egidio
Ancora una volta i Balcani ci insegnano cosa sono le antinomie, ossia la logica del vivere gli opposti. Il Kosovo diventerebbe di fatto indipendente (ce lo dirà definitivamente a fine gennaio Ahtisaari, il quale è sempre stato contrario al ritorno del Kosovo alla Serbia e dunque ha lavorato sull’idea dell’indipendenza). Ma contestualmente all’indipendenza continuerebbero il protettorato, nella forma del monitoraggio e della supervisione internazionale nelle materie più scottanti. Indipendenza e protettorato insieme, insomma. Del resto una dozzina d’anni fa è stata inventata una Bosnia una e trina, che come antinomia è un precedente niente male.

A parte la Russia e alcuni paesi fuori del Gruppo di Contatto (Spagna, Grecia, Bulgaria, Romania…), l’orientamento internazionale è per l’indipendenza. Non è un passo facile, non solo per l’interpretazione da dare alle condizioni dell’indipendenza. Agli albanesi dispiace che l’indipendenza sia condizionata, ridotta, ma l’importante, per loro, è che ci sia. Pensano che una volta padroni del territorio, gli ultimi serbi se ne andranno e le condizioni poste dalla comunità internazionale, assai presto, si svuoteranno di significato da sole. Nel frattempo la loro demografia continua a mantenersi galoppante. E’ una demografia funzionale all’occupazione del territorio. Il fatto di essere oltre il 90% della popolazione del Kosovo non li fa desistere da una natalità strabocchevole, unica in Europa. (In questo c’è una significativa differenza dagli albanesi d’Albania, che stanno avvicinandosi alle medie demografiche europee, ma in Albania non c’è lo slavo, e la preoccupazione primaria va al benessere, non al confronto numerico con il nemico etnico).

Perché il Kosovo sia indipendente occorre il consenso di tutto il Gruppo di Contatto, compresa la Russia che altrimenti potrebbe opporsi all’indipendenza in Consiglio di Sicurezza. La diplomazia russa propone parallelismi fra Kosovo e regioni dell’ex Urss. Non sono proposte geopoliticamente immaginifiche. Sullo sfondo non ci sono solo Transnistria e Abkhazia, ma anche Crimea e Ucraina dell’Est e del Sud.

Ma lo scoglio più preoccupante in vista dell’indipendenza del Kosovo è di diversa natura. La decisione dovrebbe essere presa con il consenso serbo. Va detto per gli albanesi stessi, che rischiano ritorni offensivi futuri del loro nemico, in situazioni di crisi internazionale che lo permettano. Se l’11 settembre ci fosse stato prima del marzo ’99, nessuno avrebbe fatto la guerra per gli albanesi del Kosovo. Gli Stati Uniti, che principalmente la vollero sette anni fa, faticano oggi a reperire uomini e mezzi per Irak e Afghanistan, due scenari bellici che bastano a mettere a nudo la loro debolezza.

Come avere un consenso serbo? Dopo le ultime vicende costituzionali e referendarie, poi? A Belgrado molti sono coscienti del costo di mantenere il Kosovo dentro la Serbia. Come sostenere economicamente il peso di due milioni di albanesi? Come gestire questa massa di popolazione giovane? Come integrarla nella Serbia? E’ ben chiaro all’intelligentsia serba, ma anche a settori della Chiesa ortodossa, che non tutto il Kosovo può essere serbo. I serbi che non vivono di miti sanno che gli albanesi non avevano, in cuor loro, mai accettato la Jugoslavia – le donne albanesi non sposavano slavi, l’endogamia matrimoniale era quasi del 100% - così come mai hanno accettato di essere Serbia. Tuttavia difficilmente si troverà un uomo politico serbo che rinunci al Kosovo. Passerebbe alla storia come traditore, come l’infame che ha ceduto la culla della nazione serba. Se l’élite dell’intelligentsia ragiona sull’impossibilità di convivere con gli albanesi kosovari in uno stesso Stato, la massa della gente comune ragiona tuttavia come sempre, fin da bambini, s’è ragionato, col sacro mito del Vidovdan e del 1389. Che è del resto festa nazionale. La classe politica serba ha margini di manovra scarsi o nulli.

In ogni caso, per fare ingoiare ai serbi l’indipendenza del Kosovo, e trovare magari nell’arena politica serba un Cireneo che, per sublime quanto incompreso amor di patria, porti la croce del tradimento nazionale, occorrono compensazioni consistenti. Si pensa al Nord del Kosovo, da Mitrovitza in su. Ad uno status speciale per i maggiori monasteri serbi, da porre sotto protezione internazionale che non sia solo il blasone dell’Unesco ma un presidio militare internazionale. Un distacco territoriale del Nord del Kosovo, in cambio dell’indipendenza, era stato già proposto da Rugova nel 1993 (con l’aggiunta che i territori a maggioranza albanese nella Serbia del Sud andavano scorporati dalla Serbia e annessi al Kosovo, ciò che potrebbe in avvenire risolvere qualche problema agli stessi serbi, date le prevedibili parabole demografiche). Certo, nel 1993 gli albanesi erano deboli, oggi vogliono tutto il Kosovo.

Comunque occorre individuare delle compensazioni per i serbi. L’avvicinamento all’Europa, per la mentalità serba, non sembra una compensazione che Belgrado possa considerare sullo stesso piano. Occorre una compensazione di tipo territoriale. Il do ut des si fa con la stessa moneta o la stessa merce. Mi azzardo appena a citare la Republika Srpska. Certo, la Bosnia non si tocca – dopo Dayton è un assioma. Però nella storia dei Balcani i dogmi hanno vita breve, e tanti confini amministrativi sono diventati confini statuali solo nel ‘91-‘92.

Dare compensazioni territoriali ai serbi in Kosovo pone sul versante albanese lo stesso problema che pone l’indipendenza del Kosovo sul versante serbo. Quale politico albanese kosovaro accetterebbe un Kosovo indipendente ma mutilo di una sua parte? La presenza serba in Kosovo è considerata dagli albanesi una presenza a termine, dopo di che tutto il Kosovo sarà albanese. Non ha senso allora cederne una parte per avere il resto. Il problema dei decisori politici albanesi investe soprattutto gli americani, gli unici che possono imporre qualcosa agli albanesi. Gli europei possono fare poco in questo senso. “Liberatori” sono solo gli americani. E certamente a Washington non vi è ora una presidenza disposta ad occuparsi intensamente e creativamente di Kosovo.

Sullo sfondo di tutto questo c’è infine una questione cruciale che i politici albanesi kosovari eludono, quella dell’economia e dell’occupazione. Malgrado l’enormità degli aiuti piovuti sul Kosovo dopo il 1999, non c’è economia produttiva di mercato, la disoccupazione è altissima con una popolazione dall’età media di 27 anni, la presenza internazionale ha garantito redditi alti nei centri abitati maggiori favorendo una squilibrata urbanizzazione ma è una presenza destinata a diminuire. Oltre il 60% dei prodotti di consumo quotidiano in Kosovo proviene dalla Serbia, cioè dal nemico. Quasi tutto è importato, quasi nulla è esportato. Gli albanesi kosovari, specie i giovani, emigrano, vanificando in certa misura l’arma demografica con cui i serbi sono stati messi spalle al muro.

Si prospetta per il Kosovo lo stesso destino della vicina Albania: essere un paese che vive di rimesse dell’emigrazione e non di produzione propria. Così l’Albania ha trovato una sua originale stabilità, accettando e metabolizzando questo destino con la flessibilità mentale della gente del Sud. Un Kosovo indipendente imiterà probabilmente l’Albania, ma con maggiori inquietudini. In Albania c’è un’altra mentalità, non s’è vissuto in stato d’assedio per vent’anni, ci sono più sbocchi esterni, c’è il mare, c’è più stabilità demografica, più territorio. L’Albania è meno enclavata, ha vicini ricchi e tutto sommato amichevoli come l’Italia.

Da anni i politici albanesi kosovari dicono che l’indipendenza risolverà i problemi economici. Se ne può dubitare, anche se uno Stato sovrano sarebbe un punto fermo per eventuali investitori esteri. Quando nella Jugoslavia socialista il Kosovo era giunto a ricevere finanche il 50% della quota di aiuti federali allo sviluppo, questo flusso finanziario era sperperato in progetti inutili, o nell’inconcludenza dell’amministrazione locale. A Pristina si favoleggia sulle ricchezze minerarie del Kosovo. Qualcosa c’è. Ma non è questo che crea un’economia prospera e sostenibile. Occorre una borghesia, una mentalità, una fuoriuscita dalla cultura clanica. Gli albanesi kosovari sono individualmente straordinari per iniziativa e laboriosità ma non altrettanto lo sono sotto il profilo sistemico collettivo. E poi occorre avere amici alle frontiere. Con gli slavi esiste oggi traffico commerciale, si fanno affari, ma nel quadro di un demi-monde ai confini della legalità. L’unica frontiera amica del Kosovo indipendente sarebbe con l’Albania. Anche per questo sarebbe auspicabile arrivare presto ad una decisione chiara sullo status del Kosovo, che però non sia una imposizione unilaterale fatta ai serbi ma un compromesso accettato da entrambe le parti. Agli albanesi conviene avere rapporti amichevoli anche col mondo slavo. Lo richiedono la geopolitica e l’economia. E tali rapporti sarebbero favoriti da una separazione etnica consensuale, che in avvenire potrebbe portare a quel rispetto reciproco che la storia finora non ha registrato.

* Docente ordinario di storia contemporanea presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma III. Numerose le sue pubblicazioni tra le quali Kosovo. La guerra in Europa. Origini e realtà di un conflitto etnico, 1999 e Albania. Le radici della crisi, 1997, entrambe per Guerini e Associati.

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