Sarajevo, la forza della tradizione e la sperimentazione di nuovi linguaggi lontano dalle semplificazioni del mercato occidentale: incontro con Damir Imamović, leader del Trio più famoso della nuova scena musicale bosniaca
Di Francesca Rolandi, Monika Piekarz e Andrea (Paco) Mariani
Come è iniziata la carriera artistica del Damir Imamović Trio?
Nel 2005 ho iniziato a fare musica in maniera professionale e a tenere concerti come solista, suonando alla vecchia maniera, solo voce e chitarra. Poi nel 2006 io, Edvin Hadžić (contrabbassista) e Vanja Radoja (violinista) abbiamo formato un trio di musica da camera con il quale abbiamo cercato di allargare il concetto di musica tradizionale bosniaca e di spingerlo in nuove direzioni. Nello stesso anno abbiamo registrato il primo cd, “Damir Imamović Trio plays standards”. Il nome richiama un concetto proveniente dal jazz, in cui si parla di standard a proposito di temi musicali che vengono assunti come classici. Nel nostro caso possiamo dire di suonare standard di sevdah. Abbiamo tenuto molti concerti in Bosnia, ma anche all'estero. Il progetto è cresciuto con il tempo e devo dire di essere soddisfatto di quello che abbiamo raggiunto in soli due anni e mezzo. Nel maggio 2008 è uscito un secondo cd, chiamato “Abrašević live”. L'abbiamo realizzato a Mostar, presso il centro culturale giovanile Abrašević, dove abbiamo registrato nuovi pezzi durante un concerto.
Come descriveresti la musica che suonate?
In generale ho qualche problema a spiegare di cosa si tratta esattamente. Prima devo spiegare che esiste questo particolare tipo di musica bosniaca, la sevdah – musica malinconica, da camera – molto differente da come la gente immagina la musica balcanica. Successivamente, che noi prendiamo quello che riteniamo il meglio da questa musica e cerchiamo ulteriori sperimentazioni: usiamo molto l'improvvisazione, immettiamo influenze provenienti da altri generi. Sono stato molto influenzato da alcuni artisti, come il cantante tunisino Anouar Brahem, che hanno rielaborato la musica tradizionale in una direzione diversa. E questo è esattamente quello che io cerco di fare. Nella nostra musica c'è del jazz – in particolare l'estetica del jazz, la volontà di ridisegnare alcune melodie, armonie e ritmi – della musica classica indiana e turca. Nel mio tentativo di ridisegnare la sevdah sto utilizzando elementi diversi.
Perché hai scelto di suonare sevdah?
Non sono sicuro del motivo. Forse dopo la guerra, dopo tutte le distruzioni e le ingiustizie, ho sentito la sevdah come una delle ultime grandi cose che la Bosnia ancora aveva. E volevo suonare questa musica per mostrare che cosa era rimasto dell'identità bosniaca, intendendo questo concetto in senso positivo. La sevdah è il nostro particolare mix tra l'antica cultura orientale, che arrivò in Bosnia attraverso i turchi, e l'antica cultura europea che ci arrivò tramite l'Impero austro-ungarico.
Qual è il vostro pubblico?
In Bosnia siamo spesso accomunati ad altre band della scena attuale, come Letu Štuke, Skroz, Zoster, Dubioza Kolektiv, ma ai nostri concerti vengono anche persone più anziane che vogliono ascoltare vecchie canzoni tradizionali. Quindi posso dire che copriamo veramente tutte le generazioni. Quando andiamo in Europa occidentale, invece, il pubblico è generalmente composto da veri appassionati di musica, che cercano in essa delle nuove direzioni.
Qual è il rapporto tra musica tradizionale e il genere di musica che tu suoni?
Il concetto di musica tradizionale è di tipo conservatore, generalmente si fa riferimento a chi è venuto prima e si argomenta che è necessario continuare per la stessa via. Mentre io credo che la tradizione abbia ancora un senso se le giovani generazioni possono imparare da quelle che la hanno precedute, ma successivamente vi innestano qualcosa di loro. Io sono cresciuto con Mtv, ho ascoltato i classici del rock.... Compravo cd, guardavo la tv, come ogni altro ragazzino europeo. La sevdah era solo un altro mattone in questo grande muro.
All'estero esistono equivoci sulla musica balcanica?
Damir Imamović
Nell'Europa occidentale prevale un'immagine dei Balcani come un unico grande blocco. Quello che in Occidente è conosciuto come “musica balcanica” è solo la musica dei matrimoni, Bregović e la musica gipsy, ma questi non sono gli unici generi musicali che i Balcani hanno. Quando suoniamo in Europa, specialmente nei festival, le persone apprezzano la nostra musica, ma allo stesso tempo molti sono sorpresi perché si sarebbero aspettati rakija e 13 persone a correre su e giù per il palco: questo è quello che i Balcani rappresentano per loro. Ed è molto distante da quello che facciamo noi. Perciò non suoniamo molto spesso in festival di musica etnica o tradizionale, quanto piuttosto in festival jazz o di improvvisazione.
Ci sono messaggi politici nella tua musica?
Non diretti. Non credo nell'artista come qualcuno che dovrebbe sostenere un partito o avversarne un altro. Ma credo che l'arte possa cambiare la società e i suoi schemi mentali: in questo senso ciò può avere un'influenza politica. Nei Balcani grandi problemi riguardanti l'identità o l'etnia vengono e sono venuti dal campo culturale, per poi irrompere nella scena politica. Molti musicisti che suonano musica popolare sostengono il nazionalismo perché si presentano come artisti “vicini alla gente comune”. Io credo invece che sia importante che le persone giovani che fanno questo tipo di musica mostrino che essa può essere approcciata da un differente punto di vista. Per esempio, molti musicisti di sevdah evitano di menzionare il fatto che alcune delle grandi canzoni e delle grandi liriche furono opera di autori serbi o croati e cercano di presentare questo tipo di musica come interamente musulmana, bosgnacca. Quindi, anche presentare delle canzoni che contengono dei nomi non musulmani può essere un messaggio forte e più chiaro di uno slogan.
Qual è la tua casa discografica?
La prima etichetta con cui ho lavorato è stata la Buybook. È una casa editrice, che ha anche un piccolo settore di qualità per la produzione di cd, con un forte messaggio culturale. L'etichetta presso la quale è uscito il secondo album, chiamata “Ekipa”, è completamente nuova, è molto impegnata e totalmente underground.
Si tratta di una sorta di resistenza culturale?
Sì. I cd che pubblichiamo ci servono soprattutto come biglietto da visita, perché si sa in partenza che è molto difficile venderli. Io, come la maggior parte dei musicisti qui, vivo di concerti. Da questo punto di vista sono fortunato perché i nostri concerti raccolgono un buon successo.
Come ti sembra l'attuale scena musicale in Bosnia?
Credo che al momento in Bosnia ci sia un grande numero di persone di talento che fanno un ottimo lavoro. Il problema è che non hanno niente a cui appoggiarsi. L'industria musicale è molto debole. La Bosnia è un paese piccolo, che non ha ancora ricostruito la propria industria musicale. Non c'è un sistema in grado di sostenere i talenti e di promuovere materiale di un buon livello qualitativo. Se guardiamo alla scena non commerciale ci sono davvero poche persone che riescono a vivere di musica. Molti non riescono ad arrivare ad alti livelli professionali perché non esiste un sistema che li sostenga. Alle volte non hanno buone attrezzature, oppure non hanno tempo di provare perché fanno un altro lavoro. A ciò si aggiunge un problema organizzativo: l'artista deve autoprodurre il proprio lavoro, trovare il denaro, trovare un grafico per la copertina del cd, un fotografo....
Sarajevo, già capitale culturale della ex Jugoslavia, influenza ancora il presente della regione?
Ci sono delle cose molto importanti che avvengono ancora a Sarajevo in termini di cinema, musica e arti, ma il problema è che in qualche modo con la guerra – ma non solo a causa di questa – molte di queste buone tradizioni non sono state preservate. A mio parere, esiste una forte tendenza anti-intellettuale tra gli artisti dei Balcani. Spesso pensano che essere artista sia un qualcosa di intrinseco e dunque anti-intellettuale. Si trovano autori di testi, che magari guadagnano migliaia di euro a pezzo, che non hanno mai letto una poesia in vita loro e scrivono pezzi ridicoli e incolti, ma capaci di catturare l'attenzione. Per fortuna però ci sono anche molti giovani artisti che sono entrati recentemente nel campo musicale e vi hanno portato qualcosa di più della musica, un'estetica, un atteggiamento più culturale.
Esiste una sorta di frustrazione culturale in Bosnia Erzegovina oggi?
Decisamente. Prima della guerra fare musica o girare film a Sarajevo significava davvero qualcosa, almeno nella ex Jugoslavia. Ora puoi incidere un cd a Sarajevo e fare un tour di successo per tutta la Bosnia, ma quando esci dal paese e vai ad esempio in Serbia o Croazia devi ricominciare tutto da capo. Le case discografiche bosniache non riescono a coprire i mercati delle repubbliche confinanti perché sono troppo piccole e non hanno alcun sostegno. Quindi c'è una frustrazione culturale nel senso che qualsiasi cosa si faccia è molto difficile ottenere una qualche ricompensa. E quando qualcuno raggiunge un livello di successo che non è “sostenibile” in Bosnia, allora lascia il paese. Per esempio la Croazia ha un discreto mercato discografico, organizzato meglio di quello bosniaco, in cui anche i diritti d'autore sono protetti meglio. E molti musicisti bosniaci lavorano ora a Zagabria, perché lì possono vivere di musica e hanno accettato un altro spirito e un'altra estetica musicale (diversa da quella bosniaca) in cambio di una maggiore sicurezza economica e di un background commerciale più solido.
A Sarajevo si parla spesso della grande frattura esistente tra città e campagna e del primitivismo, ignoranza e violenza di cui la seconda sarebbe portatrice. L'arrivo di una grande quantità di persone provenienti dalla campagna dopo la guerra, in particolare, viene spesso indicata come una delle cause che hanno mutato la vita culturale della città. Sei d'accordo?
La città, la vita urbana, è portatrice di una cultura che nessun villaggio può dare, non importa quanto romantico e ridente esso sia. La città fornisce lo spazio in cui si possono esprimere diversi talenti. Sarajevo era più grande prima della guerra e, nel contesto ex jugoslavo, era sempre in una sorta di competizione positiva con altri centri, aveva avuto 50 anni di pace, sviluppo e miglioramento delle condizioni di vita, era stata sede delle Olimpiadi invernali nel 1984.... Dopo la guerra, è vero, si è molto provincializzata. Io però non sono molto d'accordo con chi sostiene che le persone arrivate a Sarajevo dalle città piccole o dalla campagna abbiano rovinato lo spirito che la città precedentemente possedeva. E' la città che dovrebbe creare i suoi abitanti, non il contrario. E dunque credo che sia colpa di Sarajevo e del suo ambiente culturale il fatto di non aver saputo spingere per progetti più ambiziosi. Allo stesso tempo, vedo che ogni volta che dei grandi progetti vengono sostenuti, come il Sarajevo Film Festival o il Sarajevo Jazz Festival, ne nasce qualcosa di molto interessante e apprezzato nell'intera regione. Alla fine credo che Sarajevo abbia ancora il suo spirito positivo...