Una scena del film Buick Riviera
È uno dei romanzi del noto scrittore Miljenko Jergović, da cui è stato tratto il film omonimo, del regista Goran Rušinović, il vincitore del 14° Film Festival di Sarajevo, svoltosi dal 15 al 23 agosto nella capitale bosniaca
Da un
romanzo del più noto scrittore balcanico delle ultime leve, il sarajevese Miljenko Jergović, il film vincitore del 14° Sarajevo Film Festival. È “Buick Riviera” del croato Goran Rušinović, che prende il nome dal modello d’auto che per il protagonista rappresenta la realizzazione del sogno americano.
La giuria ha visto giusto premiando il più bel lavoro tra i dieci in gara, che avrebbe meritato di concorrere anche in festival ancor più prestigiosi. Si tratta di un trip psichedelico venato di umorismo macabro tra i Coen (non a caso le distese innevate fanno subito pensare a “Fargo”) e Jim Jarmusch, pessimista, asciutto, cinico e visionario, ambientato d’inverno in North Dakota.
Il film si apre con i tergicristalli della Buick che spazzano la neve e si chiude un’inquadratura identica, ma sul vetro c’è da rimuovere del sangue. Un gioco al massacro dopo una gara tra gatto e topo, dove entrambi sono topi ma si sentono gatti. Una metafora del conflitto passato, che ha lasciato troppe ferite aperte e non fa essere ottimisti.
Un uomo silenzioso (Slavko Stimac, attore di Kusturica da “Ti ricordi di Dolly Bell?” a “La vita è un miracolo”) esce di strada con la Buick, acquistata usata per pochi dollari, e resta bloccato nella neve. Il guidatore di un Suv di passaggio (Leon Lučev) si ferma e si offre di aiutarlo e accompagnarlo a casa. Scopriranno presto di venire entrambi dall’ex – Jugo. Il primo è bosniaco ed è partito prima della guerra, vive con una donna d’origine tedesca e non ha ancora il passaporto americano, ha solo la green card per soggiornare negli States. L’altro, estroverso e impiccione, è un businessman serbo che si è procurato la cittadinanza a stellestriscie per matrimonio. Il secondo cerca di entrare nella vita dell’altro, fino installarsi a casa sua e innescare un gioco al rialzo con in palio l’auto che porterà al tragico epilogo. Un film tanto ben interpretato che Štimac e Lučev si sono presi il premio come migliori attori.
Come interprete femminile è stata premiata la turca Ayca Damgaci per “My Marlon and Brando” di Huseyin Karabey, un bel road movie tra Turchia, Kurdistan e Iran. Una storia ambientata nel marzo 2003 (quando Bush attaccò l’Iraq) che poggia tutto sull’impavida protagonista, un’attrice bruttina, che insegue l’uomo che ama (un attore kurdo iracheno molto più vecchio di lei conosciuto su un set) sbattendosene di etnie e confini. Nella confusione generale c’è chiara la volontà della donna di amare per la prima volta in vita sua. E il fastidio con cui è guardata dai colleghi e dai negozianti di Istanbul quando dice di voler andare in Kurdistan e di volere un dizionario di kurdo.
Da sottolineare la notevole partecipazione turca al festival, esemplare di una cinematografia molto interessante e che contrasta con il quasi nulla che arriva in Italia.
Altri due i film in gara, l’opera prima “Sonbahar – Autunno” di Ozcan Alper e “Nokta – Punto” di Dervis Zaim. Il secondo, opera terza del regista nato a Cipro, è una storia di colpa e redenzione su più livelli temporali e l’unità di luogo di un lago salato. Tutto ruota attorno a un antico Corano e alla ricerca della perfetta calligrafia: per rendere cinematograficamente il bello stile della scrittura, il film perde di forza e fa prevalere il virtuosismo tecnico.
Nell’arena all’aperto c’era “Le tre scimmie” (in uscita italiana questo fine settimana) di Nuri Bilge Ceylan, già premiato a Cannes 2008 per la regia e presidente della giuria a Sarajevo. Il raffinato e fascinoso cineasta è uno dei beniamini emergenti dei cinefili europei e sembra capace di avvicinare alla sua poetica rigorosa e austera una platea più larga grazie a un carisma raro.
Tornando ai premi, quello speciale della critica è andato a “März” dell’austriaco Hädl Klaus. Un film che piace alle giurie (anche Pardo per l’opera prima al Festival di Locarno) e risulta ostico al pubblico: mostra la (non) reazione di un villaggio alpino al suicidio di tre amici. Una storia che subito irrita e poi avvolge a poco a poco e rende molto bene il contesto di vuoto, solitudine e abbandono nel quale la scelta dei ragazzi è maturata.
Kevin Spacey
Il premio del pubblico, nella sempre affollatissima arena nel centro città, è andato a una vecchia conoscenza, “I soliti sospetti” di Brian Singer del 1995. Al tempo a Sarajevo c’era ancora la guerra. Kevin Spacey, che vinse l’Oscar per quell’interpretazione, è arrivato in Bosnia per presentarlo e confermare l’appeal che il festival ha sui cineasti anglo-americani (c’erano anche Todd Haynes, Charlie Kaufmann e Mike Leigh, amico di lunga data del festival). “Arrivare dall’aeroporto al centro città è ancora un’esperienza surreale, mi ha fatto tornare in mente tutto ciò che avevo letto sull’assedio”, ha dichiarato Spacey.
Fuori dai premi "Kino Lika" di Dalibor Matanić, opera quinta di un regista interessante che non ha ancora fatto il salto di qualità. In un paesino di campagna della Lika che aspetta la pioggia come una salvezza ci sono una donna grassa che non trova un uomo (finirà con l’offrirsi a un maiale), un ottimo calciatore con problemi psichici che non vuole andare in una grande squadra (né in Germania né all’Hajduk) e un padre che preferisce dare l’acqua acquistata alle vacche anziché al figlio malato. Alla fine per qualcuno c’è una redenzione, ma non basta ad alleggerire il quadro di una società chiusa in se stessa.
Molto interessante il serbo “Četvrti čovek - The Fourth Man” di Dejan Zečević, un horror-thriller fantapolitico. Un maggiore dei reparti speciali (Nikola Kojo) si risveglia dopo due mesi di coma con un’amnesia totale. Un misterioso colonnello lo va a trovare spacciandosi per il suo migliore amico e rivelandogli brandelli di verità per condurlo a identificare chi lo aveva ridotto in quello stato. Il maggiore si ritrova a compiere vendette per conto terzi ed eliminare personaggi pericolosi per chi si era macchiato di crimini in Kosovo.
Trattandosi di un film di genere (il regista aveva già firmato l’horror “TT Syndrom”), il meccanismo a incastri prevale sul contenuto politico, però è già interessante che se ne parli in un prodotto che avrà un largo pubblico (come richiamo anche la presenza nel cast di Marija Karan, una delle giovani attrici serbe più popolari).
Infine l’ungherese “Delta” di Kornel Mundruczo, che aveva vinto il premio Fipresci della critica internazionale a Cannes. Una storia di pregiudizio per fratello e sorella che vivono insieme in un luogo estremo, un film dalla regia molto forte con piani sequenza insistiti, visivamente affascinante ma un po’ prevedibile nello sviluppo: tutto è troppo dichiarato già dall’inizio.