Una scena del film di Y. Lanthimos
Si è concluso domenica scorsa il Festival di Cannes. Quest'anno il premio "Un certain regard" va alla Grecia con “Kynodonthas - Canini”, di Yorgos Lanthimos. Al romeno Corneliu Porumboiu il premio della giuria. Molto forte il debutto del serbo Vladimir Perišić con “Ordinary People”
La Romania convince, la Serbia sorprende, ma è la Grecia per una volta a vincere. “Kynodonthas - Canini” di Yorgos Lanthimos ha ricevuto il premio della sezione "Un certain regard", mentre il romeno “Poliziotto, aggettivo” di Corneliu Porumboiu (“A est di Bucarest”) si è dovuto accontentare del premio della giuria. Quest’ultimo film, una storia su cosa sia la giustizia e sulla responsabilità individuale, avrebbe meritato il concorso. Ha però avuto il premio Fipresci per la stessa sezione, molto interessante, parallela alla competizione principale (dove non c’erano pellicole dell’area balcanica).
La giuria presieduta da Paolo Sorrentino ha emesso un verdetto pletorico con ben quattro premi, considerando quelli speciali ex equo all’ottimo iraniano “Nobody knows about Persian Cats” di Bahman Ghobadi, sul mondo della musica underground a Teheran, e alla rivelazione francese Mia Hansen-Love per “Le pere de mes enfants”. E' cascata tuttavia nella trappola di un film, il greco, furbo, vecchio e tutta superficie. Una famiglia, padre imprenditore, madre debole, due figlie e un figlio adolescenti, vive chiusa dentro una villa con giardino lontana da tutto. L’unico a uscire è il capofamiglia. I figli sono trattati come se fossero molto più piccoli dell’età anagrafica e “protetti” in un mondo dove a tutte le parole “pericolose” che riguardano il sesso, la politica e non solo è stato dato un significato diverso da quello reale: per esempio gli zombie sarebbero “piccoli fiori gialli”. Il meccanismo non è altro che una dittatura (anche se i genitori sembrano vittime del regime del colonnelli) dal quale si può uscire solo morti. Lanthimos, al secondo film, si compiace troppo di uno stile che non adotta una narrazione lineare ma procede per situazioni, per brevi sketch grotteschi o crudeli cercando la provocazione. Un modello frequente nei festival che altri registi – l’austriaco Ulrich Seidl o il messicano Carlos Reygadas – sanno usare con più forza e consapevolezza, mentre in “Kynodonthas” tutto si riduce a una metafora troppo chiara.
Corneliu Porumboiu ha invece confermato il proprio valore con una pellicola forte, universale, che conferma lo stile del film precedente (piani sequenza lunghi, dialoghi sottilmente ironici) ma con temi diversi. Ora è la confusione morale, della Romania ma anche del mondo intero, l’oggetto d’osservazione del regista. Cristi (Dragos Bucur) è un giovane poliziotto che ha l’ordine di arrestare un ragazzino di famiglia borghese che ha “offerto” hashish a due compagni di scuola. Il suo capo (Vlad Ivanov) vuole che lo becchi in flagranza di reato. Cristi osserva i ragazzi, indaga, cerca prove per risalire ai trafficanti e non vuole intervenire colpendo chi consuma droga. “Le leggi stanno cambiando come è già successo nel resto d’Europa, e io non voglio avere sulla coscienza la colpa di aver rovinato la vita a dei ragazzi”, ragiona. L’ufficiale vuole che sia rispettata la legge in vigore (“Uno stato di polizia? Ah ah, tutti gli stati sono stati di polizia” lo deride) e in un lungo faccia a faccia sembra convincerlo con il suo cinismo spietato. Il fatto è che tra i due manca un linguaggio comune, danno alle parole significati diversi: il discorso del poliziotto è più vicino al pensiero dello spettatore comprensivo e dalla mentalità aperta, quello del maggiore in grado più rispondente alle definizioni del vocabolario. Il risultato è spiazzante. E il linguaggio cinematografico scelto da Porumboiu è il valore aggiunto del film.
Cristian Mungiu, l’altro regista romeno incluso nel "Certain regard", ha confermato grande intelligenza, oltre alle capacità registiche e di scrittura. Dopo l’exploit di “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” ha evitato di sottoporsi a un esame vero, portando a Cannes un film a episodi diretti con altri quattro registi (solo Costantin Popescu era noto all’estero per il corto “Smiling Yellow Face”). “Tales from the Golden Age” è un insieme di barzellette ambientate negli ultimi anni dell’era Ceausescu con famiglie che cercano di arrangiarsi come possono. Fa ridere ma non graffia abbastanza, è un po’ nostalgico ma non troppo, sembra più un museo delle cere che una riflessione su un’epoca.
Molto forte invece il debutto del serbo Vladimir Perišić con “Ordinary People”, inserito nella "Semaine de la critique". Siamo in un luogo non specificato dell’ex Jugoslavia all’inizio della guerra. E’ mattina presto, un bus trasporta un gruppo di sette soldati di un reparto speciale verso una destinazione sconosciuta. Tra loro la ventenne recluta Dzoni, che dopo il servizio militare è rimasto nell’esercito per non restare disoccupato. Fa caldo, i soldati aspettano tra edifici abbandonati e prati assolati senza riuscire a capire quale sia la missione. Dopo una lunga attesa, arriva un altro bus, carico di giovani da uccidere a sangue freddo, come un plotone d’esecuzione. A fatica tutti fanno il loro “dovere”, anche l’impaurito Dzoni. Quando arriva il secondo turno la scena si ripete. Più avanti il giovane dovrà superare la prova “di maturità” uccidendo un ragazzino che prova a ribellarsi. Sono persone comuni che hanno perso all’improvviso l’innocenza e sono diventate strumenti del male. La sera il bus carica di nuovo i soldati, ma un’interruzione della strada li blocca in un villaggio. Dzoni e poi gli altri rifiutano di aiutare un altro reparto nell’eliminare i nemici adducendo la stanchezza. La speranza di una catarsi, che i giovani recuperino la loro umanità dopo essersi piegati alla follia assassina. Perišić lo rende con pochi dialoghi, scene scarse, spiegazioni essenziali e una violenza mostrata e raccapricciante ma senza alcun compiacimento.