A Bosanski Petrovac, nord-ovest del Paese, uno degli ultimi centri collettivi della Bosnia Erzegovina. Più di 400 persone obbligate a migrare dai vari conflitti che hanno colpito l’ex Jugoslavia. Per loro il futuro è ancora del tutto incerto.
Due rifugiati in Bosnia Erzegovina
Da Bihac scrive Jacopo Giorgi*
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
La strada che da Bihac porta a Sarajevo, immediatamente dopo Ripac, si inerpica per qualche chilometro sulle colline antistanti la città prima di sfociare su di un altopiano dalla vegetazione scarsa e per questo assai peculiare in una zona tanto ricca d’acqua quale il cantone Una Sana.
Ci troviamo nell’estremo nord-ovest della Bosnia Erzegovina, ai confini con una Croazia di prossima accessione all’Unione Europea. E’ una regione che ha conosciuto un passato cruento, fatto di mille e cangianti fronti e che oggi, quasi dimentica delle pur recenti traversie, si rivela in una bellezza naturale che forse non ha termini di paragone nel Paese. La piana ci conduce fino a Bosanski Petrovac, nella parte più meridionale del suddetto cantone, una municipalità a prevalenza serba e che ha vissuto un flusso di ritorno stabile sin dall’immediato dopoguerra, nonostante le difficoltà di allora e la reale e visibile mancanza di opportunità economiche di ora.
Ma a riportarci indietro nel tempo, improvvisamente, nelle immediate vicinanze di Petrovac è la visione, forse da alcuni ritenuta scomoda e per questo confinata lungi dai nuclei urbani maggiori nel Paese, di uno di quegli innegabili simboli legati della tragedia umana vissuta nei Balcani negli ultimi dieci anni.
A Petrovac rimane, infatti, uno dei pochi campi profughi ancora esistenti in Bosnia; a seguito della chiusura avvenuta ad inizio anno del campo di Breza ne rimangono altri due, nelle vicinanze di Mostar e di Sarajevo, rispettivamente a Salakovac e Rakovica. Alla divisione che nasce dal trionfo della logica nazionalistica dominante negli anni ‘90 e alla partizione territoriale che viene sanzionata in trattati internazionali, hanno sempre fatto il pari ingenti movimenti di popolazione, forzosi o spontanei - sempre che di spontaneità si possa parlare a fronte di eventi bellici che entrano nel vissuto quotidiano. Il fenomeno dello sfollamento, infatti, ha tardato, almeno in alcune situazioni, a riassorbirsi e continua tuttora a riproporsi nella sua urgenza.
Non si tratta dei cosiddetti campi di transito che avevano fornito ospitalità temporanea a sfollati interni di cittadinanza bosniaca. In realtà a Petrovac si sono raccolti, in momenti differenti, persone provenienti dalle varie zone martoriate da conflitti - più o meno ufficializzati - dell’intera ex-Jugoslavia: Kossovari di differente etnia, Albanesi del Presevo, Slavi Musulmani del Sangiaccato. Soggetti che, dunque, avendo attraversato il confine del proprio paese di origine in fuga da minacce imminenti o potenziali, finiscono per ricadere sotto il tradizionale mandato dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR).
Il campo di Bosanski Petrovac che, al picco della crisi in Kossovo, era arrivato ad ospitare circa 800 profughi, appare ora con i suoi 400 residenti sostanzialmente ridimensionato. Il campo, ad oggi sotto l’amministrazione del Ministero per i Diritti Umani e i Rifugiati, è interamente finanziato da ACNUR: varie forme di assistenza, dal vitto giornaliero, all’accesso a strutture e servizi sanitari, passando per l’istruzione primaria e secondaria presso strutture scolastiche locali per i minori, vengono garantite sotto l’accordo firmato da ACNUR e la controparte ministeriale.
L’agenzia ha inoltre ritenuto, fino ad oggi, la competenza sulla determinazione dello status di rifugiato dei richiedenti asilo nel Paese. Il passaggio di consegne su tale funzione è maturato in questi giorni e si è completato il 30 giugno, momento a partire dal quale la ricezione di nuove domande di asilo e la stessa determinazione dello status sono divenute materie di competenza del Ministero per la Sicurezza. Le autorità bosniache vengono così a svolgere un’ulteriore funzione tra quelle richieste per l’ottenimento di quel patentino di ‘riabilitazione’ che Zagabria sembra invece essersi già guadagnata.
Sulla base di una raccomandazione precedentemente inoltrata da ACNUR, il Ministero ha ulteriormente concesso un’estensione del permesso temporaneo di residenza – indipendente da una definizione individuale dello status - a soggetti membri di minoranze etniche e religiose provenienti dal Kossovo. Il dibattito sul rinnovo del suddetto permesso è rimasto lungamente aperto: la richiesta formulata dalla rappresentanza ACNUR a Sarajevo ha infatti ottenuto esito positivo solo di recente. Le motivazioni espresse a supporto di tale richiesta vertevano largamente sull’impossibilità, per motivi di sicurezza della persona, per membri dei suddetti gruppi (prevalentemente Rom, Egizi, Ashkalia e Slavi Musulmani) di ritornare nei propri luoghi di origine nella provincia, ad oggi più formalmente che fattivamente, parte della Serbia.
La decisione riguarda gran parte dei residenti dei suddetti campi, i quali vedono a questo punto il proprio permesso esteso per un ulteriore anno. Nel frattempo si riproporrà la questione relativa alla ricerca di quelle che in gergo si definiscono ‘soluzioni durevoli al problema dei rifugiati.’
I recenti eventi in Kossovo non facilitano certo la possibilità di ritorno delle comunità rifugiate; un miglioramento delle condizioni di sicurezza minime non è d’altra parte prospettabile nell’immediato futuro, soprattutto se disgiunto da un disegno politico chiaro e concertato – e, cosa certo non facile - unanimemente accettato dalle varie parti coinvolte. La richiesta da parte dell’amministrazione del protettorato di un miglioramento degli standard di rispetto dei diritti fondamentali preventivo alla definizione dello status del Kossovo si è dimostrata politica miope e sicuramente infruttifera.
Ulteriore opzione – valida per un numero esiguo di beneficiari - rimane quella del reinsendiamento presso Paesi terzi. La disponibilità non e’ mai parsa eccessiva, sebbene leggermente accresciuta in questo ultimo periodo per via di una rinnovata apertura di quote immigratorie da parte di alcune amministrazioni d’oltreoceano. Il reinsediamento rimane, infatti, un’eventualità proponibile esclusivamente per casi di dimostrata estrema vulnerabilità per i quali un’integrazione sul territorio appaia difficile se non da escludersi.
La possibilità d’integrazione dipenderà invece da un’eventuale apertura dei canali di regolarizzazione da parte del Ministero della Sicurezza. Tale opzione, in particolar modo, passerebbe attraverso la concessione ai rifugiati di un permesso di residenza permanente che fino ad ora le autorità bosniache non erano sembrate disposte a concedere. Un’eventuale apertura in tal senso titolerebbe invece i beneficiari ad aspirare ad un riconoscimento della permanenza maturata sul territorio bosniaco ai fini dell’acquisizione – nel lungo periodo - della cittadinanza bosniaca.
Difficile dire cosa pensi di ciò la popolazione di Bosanski Petrovac. Il disinteresse è palese, ben altri sono i problemi che la riguardano e in maniera sicuramente più diretta.
In paese del campo quasi non si parla, e quasi pare costituire un’entità astratta con cui l’interazione può essere più immaginaria che reale. La comunità, di per sé già divisa – la distinzione tra aree e perfino locali pubblici serbi e musulmani, qui come altrove, è fortemente presente – non vuole certo conoscere nuovi motivi di attrito. Ciò che più conta, l’accesso alle poche risorse disponibili, è infatti materia di esclusione più che di discussione.
Per cui meglio continuare a fingere che il campo non esista.
* Jacopo Giorgi lavora per la missione UNHCR in Bosnia Erzegovina
Vai al nostro dossier:
Rifugiati e sfollati, troppo facile dimenticarli
Vedi anche:
A Srebrenica non torno
Una strada chiamata Ritorno
Centri collettivi in BiH: la situazione in Republika Srpska