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Il secolo di Bogdanovic (I)

11.05.2007    scrivono Nicole Corritore e Andrea Rossini

Bogdan Bogdanovic (foto M. Fontasch)
Incontro con “l'architetto maledetto”, autore di alcuni tra i più importanti monumenti della storia jugoslava. Il percorso umano, politico e artistico. In questa prima parte il racconto della genesi del fiore di Jasenovac, edificato sul luogo dell'ex campo di sterminio ustascia
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Bogdan Bogdanovic, architetto, urbanista, sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986, è una delle figure più eminenti della cultura jugoslava del '900. Nato a Belgrado nel 1922, dopo aver partecipato alla lotta di liberazione nazionale progetta e dirige la costruzione di 20 memoriali sulla seconda guerra mondiale. Negli anni '80 rinuncia al proprio posto nell'Accademia delle Scienze della Serbia e scrive una lettera aperta a Milosevic (1987) di carattere antinazionalista e antimilitarista. La campagna di diffamazione conseguentemente avviata contro di lui lo costringe infine all'esilio a Vienna, città dove risiede ancor oggi.
Ha scritto tra l'altro “La città e la morte”, “Architettura della memoria”, “La città e il futuro”, “La felicità nelle città”, “Il costruttore maledetto”. Nessuna delle sue opere è stata tradotta in italiano.
Domani a Treviso Bogdan Bogdanovic riceverà il prestigioso premio Carlo Scarpa, assegnato dalla Fondazione Benetton Studi e Ricerche, che quest'anno viene dedicato al complesso memoriale di Jasenovac.
Questo articolo è il primo di una serie di cinque. L'intervista è stata realizzata a Vienna il 16 e 17 marzo scorsi.


Qual'era la rappresentazione ufficiale della storia nella Jugoslavia del secondo dopoguerra?

Ogni repubblica aveva uno o più musei dedicati alla rivoluzione, credo che ce ne fossero una ventina. In ognuno di questi musei vi erano le stesse foto, ovunque. Una serie di foto di guerra, di foto di vittime, che si ripetevano, ripetevano, ripetevano. La morte era glorificata, anche solo per il fatto di parlarne così tanto. Eravamo tutti saturi, tutti conoscevamo quelle immagini delle persone senza testa… Personalmente credo che la propaganda ufficiale e pubblica di allora abbia solo fomentato ulteriore violenza.

Fin da piccoli i giovani venivano portati in questi musei perché vedessero tutto, le cose più terribili. Per cui quando è cominciata la dissoluzione, questa ultima dissoluzione jugoslava, molti portavano in sé già il ricordo di immagini molto cupe. Si è trattato di un’aggressione da parte della morte.

Ho avuto un’esperienza di questo tipo recentemente, proprio a Jasenovac, quando è cominciata la ricostruzione… Durante la guerra [l'ultima, ndr] il monumento è stato abbastanza danneggiato e c’era bisogno di una ristrutturazione. Quando sono cominciati i lavori ho visto un’insegnante che accompagnava tre ragazzine. Teneva una lezione su quello che era successo, e insisteva che disegnassero persone senza testa, per far loro capire le violenze dell’occupante. Le bambine, che non avevano mai visto un uomo senza testa, erano scioccate dalla richiesta. Era terribile. La “martirologia” comunista in Jugoslavia era esattamente così. Tito… No, non era Tito, erano i quadri di partito, quelli che poi in seguito, se consideriamo la parte serba, sono passati da questo comunismo duro e puro al farsi crescere le barbe e a diventare dei cetnici.

Jasenovac è il luogo simbolo dell'orrore della seconda guerra mondiale in ex Jugoslavia. Perché un Memoriale fu costruito solo così tardi, più di 20 anni dopo la fine del conflitto? Come si arrivò al suo progetto?

Bogdan Bogdanovic (foto M. Fontasch)
E’ stato rimandato veramente a lungo. Tanto è vero che erano già cominciate manifestazioni di protesta. Era stato rimandato in gran parte a causa di grandi e lunghi dibattiti sul numero delle vittime. Ad alti livelli litigavano… Io in questo non mi sono immischiato. Il numero variava moltissimo. In un primo momento un accademico serbo aveva avuto la geniale idea di appellarsi al più alto numero possibile di vittime, con l’obiettivo di richiedere un più alto risarcimento dei danni… E' apparsa così una cifra fantomatica vicina al milione o poco meno. Una cifra che era assurda, ma che era però passata nel popolo, ed era molto difficile riuscire a spiegare che quel numero era impossibile. Poi sono iniziate le vecchie e note liti serbo-croate…

Non erano d’accordo nemmeno su come dovesse apparire questo monumento. C’erano tre progetti, due di famosi scultori croati e il mio, architettonico. Gli scultori, in quanto scultori, non potevano fare a meno di usare figure umane coi pugni innalzati, corpi che cadevano, teste tagliate e così via… Il mio invece era un progetto architettonico matematico, astratto, e credo che abbia vinto per questo. E' stato Tito a decidere. Credo che lui abbia compreso che il mio progetto avrebbe cercato di disinnescare l’atmosfera di tensione creata dalla violenza, dal sangue versato. Era un fiore, che parlava di altro.

Poi credo ci sia stata anche un’altra ragione. Tito, sebbene non fosse un grande esteta o persona di grandi conoscenze artistiche, aveva un istinto animale che gli faceva capire che cosa era bene fare e cosa no, che cosa meglio rispondeva alla sua politica. Aveva capito che questo monumento si sarebbe distinto dai monumenti russi, da tutto ciò che era pugni, violenza, sangue e che faceva parte del realismo socialista. Ecco cosa ha prevalso. Era finalmente arrivato il tempo di far emergere una formula nostra, “jugoslava”, e quindi il mio fiore ha raccolto l’assenso necessario. Così sono stato scelto io per il lavoro. Ma nel frattempo era iniziato un nuovo dramma. La promessa fatta al Comitato centrale era che avrei fatto un monumento dalla forma di un fiore. Io ero ancora abbastanza giovane e un po’ avventato. Nei fatti il progetto si è rivelato molto più difficile di quello che avevo immaginato! Quindi il lavoro è durato, durato… E’ durata tanto, erano tutti nervosi. Tito si è infuriato… La prima volta che sono stato convocato perché presentassi i miei disegni, ho detto che mi serviva ancora tempo. Quando ho cominciato a raccontare che cosa stavo facendo si è messo a gridare: “Questo lo abbiamo già letto nella sua prima relazione!”. E io mi sono reso conto che avevo solo ripetuto quello che avevo già detto…

Poi c'era un'altra cosa che mi metteva pressione, una pressione terrificante: la storia di questo luogo, le storie delle vittime… Volente o nolente ero obbligato ad ascoltare, a vedere il materiale storico. Ho cercato di vederne il meno possibile, le fotografie degli orrori, perché mi deconcentravano. I dettagli “tecnici” erano per me spaventosi, mi disturbavano sul lavoro. Mi disturbavano sul serio, sto disegnando un fiore e devo guardare questi orrori, uomini al patibolo, uccisioni e così via. Così mi sono ritrovato in una situazione pesante, sul piano dei nervi. Più volte mi sono chiesto chi me l’aveva fatto fare… E' stata una condizione psicologica che mi ha tenuto sotto pressione per anni e anni. Forse è per questo che alla fine, quando avevo finito tutto, sono svenuto.

Cioé?

Sono svenuto. Quando era tutto finito ero un po’ in disparte, vicino al fiume, guardavo il paesaggio vicino al monumento… Una scena spettrale e terribile: migliaia di donne vestite in nero hanno cominciato a correre verso il fiore. Dall’entrata del complesso, dove c’è anche il museo, ci sono circa 2 km fino al monumento… Le donne, quasi tutte in nero, correvano lungo questo spazio. In un attimo ho capito che tutte correvano verso le costruzioni laterali e ho pensato che quelle non erano progettate calcolando l’arrivo di una tale massa di gente. Ho cominciato a temere che sarebbe crollato. Per fortuna non è successo, come potete vedere [indica una fotografia che ritrae la folla intorno al Fiore, sul muro del suo appartamento, ndr]. Sarebbe stata una catastrofe…

La seconda volta che sono svenuto è successo due o tre anni fa, quando era ancora in corso la ristrutturazione del monumento. Ero accanto a Ivica Racan [ex premier della Croazia, ndr] e anche questa volta ha cominciato a girarmi la testa e sono svenuto. Mi hanno caricato subito su di un’ambulanza, mi hanno portato ad un pronto soccorso, mi hanno fatto tutti i controlli del caso ed è venuto fuori che tutto era a posto. Avevo solo perso i sensi.

Perché ha scelto proprio un fiore per Jasenovac?

Bogdan Bogdanovic (foto M. Fontasch)
Il fiore era, come posso dire, portatore di pace. Tutto il resto erano scene di guerra… Eravamo tutti sovrastati da racconti e scene di guerra e quando all’improvviso si è presentata una costruzione lirica, Tito ha considerato che gli andava bene, oltre al fatto che si distanziava completamente dalla linea russa. Noi, soprattutto il mondo artistico, eravamo ancora in una condizione di incosciente dipendenza dalle forme russe. Poi ho lavorato molto sull'inserimento del fiore nel paesaggio. Il paesaggio… guarda qui [mostra la mappa del parco, ndr].

Le metafore si trasformavano una nell’altra, ma la difficoltà era insita nel fatto che tutte le metafore (il fiore, il labirinto ecc.) erano verbali. Farò un monumento dalla forma di un fiore, suona bene… E tutti ti dicono: “Ah, chiaro”. Ma poi bisogno fare i conti con ciò che puoi fare affinché sia effettivamente un fiore, cioè non un fiore ma il simbolo del fiore trasferito in una costruzione.

Infine il simbolo doveva essere tale da non offendere nessuno, senza far prevaricare alcuna confessione sull’altra, essere universale. Il fiore poteva trovare spazio nel cristianesimo, nell’islam, anche nell’ebraismo… Perché nell’intera vicenda, più o meno, hanno perso la vita tutti. Per cui era molto complicato trovare qualcosa che accomunasse, la nostra tragedia non era a senso unico…

I vertici dello Stato erano tutti d'accordo con l'idea del fiore?

No. La Jugoslavia era uscita da una guerra e da divisioni terribili. Si era instaurato di nuovo uno Stato comune ma ogni valutazione degli avvenimenti passati era accompagnata da grandi diatribe. C'erano state tante vittime… I morti di Jasenovac non erano stati così tanti come qualcuno voleva che si attestasse, ma quello era stato in ogni caso uno dei più grandi campi di sterminio in Europa.

C’erano anche parecchie altre idee per questo monumento, ma erano cose terribili: uomini senza testa, bambini massacrati, fontane… Uno aveva proposto una enorme fontana che avrebbe sputato costantemente un liquido dal colore rosso. Tutti si erano ingegnati a ripetere di nuovo degli orrori, mentre il mio era diverso, pensava alla catarsi, il contrario del terrore, e credo sia questo che ha vinto. Così è arrivato il signor Bogdan Bogdanlovic, allora il giovanissimo Bogdanovic, che si è trovato però nella situazione di doverlo realizzare...

Quali sono state le reazioni al fiore, sul piano politico?

La Croazia aveva preso negativamente a priori il progetto del fiore, non per il fiore in sé ma per il fatto che non potevano accettare che fosse un serbo a fare questo monumento. Pian piano però hanno cominciato a capire che il fiore aveva un influsso catartico, che non era qualcosa che avrebbe offeso qualcuno, che non avrebbe risvegliato ulteriore odio… La cosa più importante era fermare l’odio, evitare che se ne creasse ancora. In Serbia, all’inizio, non sono sicuro che fosse piaciuta la metafora del fiore, ma piaceva il fatto che fosse un serbo a costruirlo. Appena però in Croazia l’opinione pubblica aveva cominciato ad accettare la metafora del fiore, sono stati i serbi a cominciare ad essere scontenti. Come mai un fiore, perché un fiore... Gli uni erano duri ortodossi e gli altri duri cattolici, e ciascuno tirava verso il proprio mulino. Io sono passato indenne attraverso le stupidaggini serbo-croate, ma avrei potuto uscirne danneggiato, anche psichicamente, ci sono stati momenti pesanti. Io sono nato da jugoslavo e mi sentivo appartenere agli uni e agli altri. Alla fine non mi sono mai diviso… (1 – continua)

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Dossier: I memoriali della II Guerra Mondiale nella ex Jugoslavia realizzato con il supporto dell'Unione Europea