Bogdan Bogdanovic, architetto, urbanista, sindaco di Belgrado dal 1982 al 1986, è una delle figure più eminenti della cultura jugoslava del '900. Nato a Belgrado nel 1922, dopo aver partecipato alla lotta di liberazione nazionale progetta e dirige la costruzione di oltre 20 memoriali sulla seconda guerra mondiale. Negli anni '80 rinuncia al proprio posto nell'Accademia delle Scienze della Serbia e scrive una lettera aperta a Milosevic (1987) di carattere antinazionalista e antimilitarista. La campagna di diffamazione conseguentemente avviata contro di lui lo costringe infine all'esilio a Vienna, città dove risiede ancor oggi.
Ha scritto tra l'altro “La città e la morte”, “Architettura della memoria”, “La città e il futuro”, “La felicità nelle città”, “L'architetto maledetto”. Nessuna delle sue opere è stata tradotta in italiano.
Questa è la seconda parte dell'intervista realizzata a Vienna il 16 e 17 marzo scorsi.
In quale fase del suo percorso creativo nasce l'interesse per i monumenti?
In gioventù non avevo mai pensato che sarei arrivato a fare dei monumenti. Mi ero iscritto ad architettura ai tempi della vecchia Jugoslavia [il Regno di, ndr], sto parlando del 1940. Belgrado aveva una vocazione culturale cosmopolita, pro-europea, anti-nazionalista, e un forte gruppo di artisti surrealisti. Era un ambiente di sinistra, di cui anch'io facevo parte, con questa vaga idea che sarei diventato un architetto surrealista.
Quali erano le persone che più la influenzavano in quel periodo?
Il mio amico e “capo” surrealista, che allora viveva a Belgrado, Marko Ristic. Disegnavamo insieme e avevamo progettato la sua casetta. Era tutta piena di strane situazioni... Corde sulle quali ci si poteva arrampicare come scimmie, tubi verticali... Scherzavamo, giocavamo. Eh, io pensavo che avrei giocato così tutta la vita e che questo sarebbe stato il mio lavoro architettonico. Che insieme ai surrealisti e a tutti i tipi più strani avrei costruito case stravaganti… Poi è iniziata l'occupazione tedesca e per quattro anni l’università non ha funzionato. Quando ho ripreso gli studi, di colpo l'architettura era diventata qualcosa di molto diverso.
In che senso?
La nostra prima architettura, nel periodo della Jugoslavia di Tito, era povera, misera, l’intero paese aveva a disposizione solo due tipi di finestre. Mi sentivo sconfitto. Gli studi andavano bene, prendevo ottimi voti, ma ero profondamente depresso e non sapevo che cosa avrei fatto. Costruire quelle casone social-realiste non mi passava nemmeno per la testa. Allora ho deciso di passare all'urbanistica, perché è una disciplina speculativa. Ma allo stesso tempo è cominciata in maniera completamente casuale la mia ossessione per i monumenti.
Come esattamente?
Uno dei miei colleghi, già riconosciuto nel settore, mi ha segnalato un concorso ristretto per la costruzione di un monumento alle vittime ebraiche del fascismo. Ho deciso di accettare, ero anche senza soldi ed era prevista una paga. Ho cominciato, a modo mio, a ricercare nella simbologia ebraica, e nel giro di pochissimo tempo sono entrato in un altro mondo. Nella cabala, nelle speculazioni religiose, mi si è aperto un intero mondo di metafore e ho capito che avrei trovato per la mia architettura, in questo mondo di simboli esoterici, qualcosa che non avevo ancora preso in considerazione.
Alla fine ho vinto il concorso e credo che questo monumento, molto semplice, sia ancora oggi attuale. Dopo questo, quando ho capito che cosa si poteva raccontare con il mondo dei simboli, ho completamente perso interesse nell’architettura civile. Pensavo che nei Memoriali avrei potuto ricavare per me stesso la libertà di fantasticare. Ma la vera iniziazione è avvenuta quando ho vinto il concorso per la realizzazione di un monumento per il cimitero di Mitrovica.
Quando è successo?
Nel momento in cui avevamo preso le distanze dai russi, quando il canone russo era decaduto e non più obbligatorio. I vertici politici della Jugoslavia avevano visto che potevamo fare qualcosa che non fosse in linea con quello stile, fatto di combattenti, pugni levati, zappe e sciabole. Dopo Mitrovica è cominciata per me una lunga serie di commissioni, ho cominciato a passare da un monumento all’altro. Ma nessuno di questi miei monumenti lo è nel senso classico del termine. Neanche uno richiama la battaglia, la vendetta, tutti hanno un’essenza catartica. Io mi ero portato dentro la sensazione che nella Jugoslavia di allora, dopo così tante guerre, la cosa più importante fosse la catarsi, la pacificazione… Che tutti noi ci calmassimo, conciliassimo.
Pensa che questo messaggio sia stato recepito?
Il più grande riconoscimento che ho ricevuto è stato qui a Vienna. Durante un incontro in cui c’erano parecchi ex-jugoslavi una donna non proprio giovane, bosniaco-erzegovese, è venuta da me e mi ha detto:
- Sa, io sono di Mostar, devo dirle una cosa, è un po’ strana…
- Mi dica
- Mia mamma e mio papà mi hanno concepita sul suo monumento
Eh, questo è stato il più alto riconoscimento che ho mai ricevuto! Ma la dice lunga sul fatto che i miei monumenti non assomigliano a dei monumenti e nessuno li ha mai vissuti come tali, nel senso patetico del significato. Risvegliavano la fantasia. Sono stati adottati dai bambini, per i loro giochi, perché erano un po’ strani ma interessanti. Erano sempre frequentati, pieni di gente. Ho ascoltato diversi contadini che spiegavano che cosa significassero i miei monumenti. Cosa riuscivano a inventarsi! Ciascuno li vedeva a modo suo, e questo tipo di simbolismo aperto penso sia stato il loro aspetto più importante. Mi è successo di ascoltare interi romanzi. Per esempio, queste sono teste che escono dalla terra, è poi arrivato il fascista, ha tagliato le teste ed esse sono ricresciute. Erano favole fantastiche, che per me rappresentavano una grande soddisfazione. E’ ovvio che io, in quanto ex-surrealista, li prendevo come grandi complimenti. Non ho mai amato rispondere alla domanda: “Che cosa significa questo vostro monumento?” Se mai dicevo: “Vi chiedo io che cosa
non significa…”
Qual era il suo rapporto con la politica in quegli anni?
A molti di coloro che erano dei “veri” comunisti nella vecchia Jugoslavia io risultavo sospetto. Ero un tipo decadente e strano, e loro erano la forte intellighenzia. La cosa divertente è che adesso tutti, più o meno, si sono fatti crescere la barba e sono dei grandi cristiani… Io mi sono sempre considerato in qualche maniera uno di sinistra. Ad esempio quando sono arrivato a Vienna gli amici austriaci, di sinistra, nostri, mi hanno accolto e questa cosa mi ha riempito di gioia.
Se dovesse fare dei monumenti oggi, per ricordare le guerre degli anni '90, come li progetterebbe?
Non lo farei, non potrei. Io ho lavorato in un contesto che era quello della Jugoslavia, un intero conglomerato di civiltà, culture, amavo questa polimorfosi. Ciò che mi era più caro in questa Jugoslavia era l’incontro tra le diversità: partivo dalla Dalmazia, che è Mediterraneo, e in mezz’ora ero già sulle montagne della Bosnia, dove c’era l’islam, altre persone. Tutti portavano in sé dei messaggi… Amavo la multinazionalità della Jugoslavia. Oggi davvero non so, nel momento in cui ho perso la mia terra non ho più pensato al dopo, perché non l’ho mai accettato. Ho capito però che il valore più importante dei miei monumenti sta nel fatto che non si possono inserire in un racconto esplicito, di questo o quel fatto, questa o quella battaglia…
Tra i suoi monumenti, qual è quello che parla in maniera più esplicita all'Europa di oggi?
Penso sia quello che ho fatto a Cacak, il Mausoleo di Cacak, con quelle stranezze...
Perché?
Quel monumento ha una lunga storia. Per molto tempo mi sono scervellato pensando a cosa fare, ma sapevo che doveva avere una forma di Mausoleo. Di anno in anno rimandavo, gli investitori si mostravano nervosi… Io qui avevo grandi possibilità anche nella fase della progettazione, i monumenti non subivano il controllo delle commissioni di revisione.
Più libertà?
Sì, già solo per il fatto che agli investitori non consegnavo mai i progetti definitivi. Avevo promesso loro un Mausoleo, ma lo volevo fare in qualche modo percorribile, cioè che ci si potesse passare attraverso. Poi ho fatto i piloni con degli ornamenti massicci, non sono mai stato nemico degli ornamenti… Lavoravo con una équipe di artigiani della Serbia orientale, vicino al confine con la Bulgaria, di Crna Trava… No, non di Crna Trava ma di Pirot. Questo era uno dei miei ultimi monumenti, il penultimo. L’ultimo però non aveva più ornamenti. Gli artigiani mi pregavano: “Non faccia in fretta, perché non abbiamo più lavoro…”
Ksenja Bogdanovic (foto M. Fontasch)
Io allo stesso tempo avevo visto che ci tenevano a fare un bel monumento. Allora ho cominciato a disegnare per loro tutta una serie di figure strane. Ksenija [moglie di Bogdanovic, ndr] sa con esattezza quante erano, devo chiederglielo, 400 o 600. Teste mostruose che dalla pietra emergono da tutte le parti. Panico tra gli investitori, e anche nel Comitato del Partito: “Che cos’è questo?” E io - per me è stata una pura profezia: “Questo è il fascismo che avanza e che deve essere dominato”.
Vedete, è quello che poi è accaduto veramente, il fascismo è ritornato. E c'erano tutte queste figure strane, queste teste bestiali, tutte realizzate con disegni particolari. Ho fatto un disegno per ciascuna di esse, e gli artigiani li hanno riportati sulla pietra. Anche Ksenija ne ha fatte alcune. Una rivista slovena di architettura aveva dedicato la prima pagina a questo mio monumento, scrivendo: “Bogdanovic sta realizzando un monumento sul fascismo in arrivo”... Alla fine è arrivato veramente.
Alcuni giorni fa abbiamo visitato il suo monumento a Dudik, Vukovar. Non siamo potuti entrare perché un contadino ci ha detto che il campo era minato, abbiamo potuto fare delle riprese solo dall'esterno. Perché questo accanimento su Vukovar?
Riprese a Dudik (foto L. Zanoni)
Vukovar è il migliore, forse, tra i miei monumenti. Quei coni erano stati studiati a fondo affinché uscissero dal “male” in un altro ambiente, di bellezza, e quando è cominciata la guerra ho vissuto una terribile… Ho capito che il monumento sarebbe stato danneggiato, e così è stato.
Come è avvenuto?
E’ stato colpito dall’Esercito popolare jugoslavo. Quando è iniziata la guerra, io avevo già cominciato ad avere dei duri scontri con Milosevic. Ero un nemico del popolo, e cosa potevano fare di diverso delle stupide teste di ufficiali se non sparare e bombardare il monumento? Prima, e non solo una volta, avevano celebrato il monumento nel giorno della vittoria, creando un intero assurdo rituale attorno ad esso e poi, quando è cominciata la guerra, l’hanno bombardato. Penso, purtroppo, che sia stata proprio una vendetta nei miei confronti, personale. Forse dello stesso Milosevic.
Un avvertimento?
Dudik (foto L. Zanoni)
Sì. Ma li irritava anche l’idea universale che il monumento esprimeva. Dopo infatti hanno preso il sopravvento altri monumenti, sono di nuovo comparsi i generali in uniforme della prima guerra mondiale, oggi in giro per la Serbia trovate non so quanti di questi monumenti idioti… E prima cercavano di modificare i monumenti esistenti, inserendo insegne nazionali.
Come considera l'utilizzo di simboli politici o nazionali nei monumenti?
Ad esempio, io non ho mai usato la stella a cinque punte… Mi sembrava stupido, e quando allora i “veri comunisti” - che oggi sono diventati grandi nazionalisti - mi chiedevano: “Dov’è la stella?”, io gli rispondevo: “Ma sugli aerei americani, figliolo” - e gli facevo vedere una foto. E loro: “Ma è vero, per Dio!…” Scherzavo, ma loro hanno cominciato a battere il chiodo sulla stella a cinque punte, di legno, incollata sulla pietra, poi quando questo è passato di moda hanno cominciato a recuperare vecchi stemmi serbi, stemmi reali e così via.
In quale stato sono oggi le sue opere?
Alcuni monumenti sono stati danneggiati durante la guerra. Il primo a vedersela proprio male è stato il complesso di Mostar… Improvvisamente si è trovato nella parte della città sotto l'influenza di Tudjman, e così sono iniziati i danneggiamenti. Non era possibile distruggerlo perché è incastonato nella montagna, ma è stato preso di mira, riempito di scritte, sporcato… Ad un certo punto, quando la parte est e ovest si sono un po’ pacificate e hanno cominciato a lavorare di nuovo un po’ insieme, sembrava che volessero ristrutturarlo. Ma è difficile, occorrono molti soldi, è un monumento grande, costoso. Altri invece, in Bosnia, sono rimasti molto ben conservati. Ad esempio il monumento di Travnik non è stato toccato.
E Jasenovac?
Esatto. Jasenovac per un certo periodo si è trovato sotto il controllo di una parte [la cosiddetta Repubblica serba di Krajna, ndr]. Quei nazionalisti serbi in Croazia non accettavano Jasenovac. Per loro era una costruzione di Tito o qualcosa del genere. Non l’hanno distrutto ma sono rimasti i segni dei proiettili. Se poi si lascia il monumento forato per due o tre inverni ecco che comincia a sfasciarsi. Lui è parecchio vulnerabile, è fragile. Ha delle parti di cemento molto sottili, che non era difficile danneggiare con dei mortai… Era quindi in uno stato pessimo. Quando poi è entrato a Jasenovac l'esercito croato mi ha chiamato Edo Murtic [artista croato, maestro dell'astrazione europea, ndr] da Zagabria, dicendo che c'erano già delle protezioni al monumento: “Non ti preoccupare, ci sono ora le protezioni e nessuno distruggerà nulla”.
Tudjman, dal canto suo, fece una dichiarazione che cito spesso e con molto piacere, perché enormemente imbecille. Ha detto che sì, gli dava fastidio che l'autore fosse un serbo ma ecco, il monumento era comunque di valore e quindi intendeva trasformarlo in un pantheon croato. Qui avrebbero dovuto trovare posto i “grandi croati”, dai più datati - Stjepan Radic, ecc. - fino verosimilmente allo stesso Tudjman. Era previsto un posto anche per Tito, si erano ricordati che anche lui era croato. Solo dopo ho scoperto che non aveva fatto nulla perché era intervenuta Madeleine Albright [ex segretario di Stato Usa, ndr] dicendogli di non azzardarsi a toccare il monumento. Così è rimasto com'era.
(2 – continua)