Un giorno a Trieste
05.12.2008
Da Trieste,
scrive Melita Richter Malabotta
Melita Richter
La presentazione a Trieste di "Sotto la bandiera dell'ONU", di Hasan Nuhanović, dettagliata ricostruzione del luglio '95 a Srebrenica, e la reazione di una parte della comunità serba locale. Crimini e patriottismo, un commento
Traduzione per Osservatorio Balcani: Maria Elena Franco
Nell'ambito della serie di manifestazioni culturali “Spaesati”, che ha raggiunto già la IX edizione, l'11 novembre, al teatro Miela di Trieste, si è tenuto l'incontro con Hasan Nuhanović, autore del libro “Sotto la bandiera dell'ONU, la comunità internazionale e il crimine di Srebrenica”, pubblicato da BZK “Risorgimento”, Sarajevo 2005 (il libro è stato tradotto anche in inglese). Nuhanović è molto più di un semplice autore che ha scritto un libro che, con rigore dei fatti, presenta la cronologia degli avvenimenti sulla caduta di Srebrenica e i crimini di Potočari; egli, infatti, è uno dei sopravvissuti di questa immensa vergogna che è la guerra di fine millennio scorso.
Hasan Nuhanović è stato uno dei pochi profughi di Srebrenica che ha trovato un impiego presso la missione ONU, dove ha lavorato come interprete di lingua inglese. Si è trovato a vivere nella condizione “privilegiata” di osservatore impotente dei più sanguinosi giorni di luglio che la Bosnia ricordi, e di cui l'Europa si rammenta malvolentieri, principalmente in occasione dell'anniversario dei crimini e prima di partire per le vacanze. Giorni impregnati del sangue di 8.000 giovani vittime innocenti. Ma nemmeno questo numero è sicuro, molti della lista degli scomparsi non sono stati ancora ritrovati, di molti resti di scheletri riesumati non è ancora stata accertata l'identità.
Il piccolo cartellino di riconoscimento che portava al petto in qualità di impiegato ONU ha salvato la vita a Nuhanović, ma non è bastato a salvare anche quella dei suoi familiari, padre, madre e il fratello più giovane. Sono stati cancellati dall'atroce follia della pulizia etnica come molti altri giovani e ragazzi bosniaco-musulmani che fuggendo dalle forze serbe hanno cercato la salvezza nella base militare del battaglione olandese ONU a Potočari.
Il corso degli eventi ci è noto, come pure l'atrocità degli esecutori di Mladić. Le fosse comuni con i resti dei corpi, la riesumazione collettiva, il seppellimento e l'indicibile dolore delle donne sopravvissute e inconsolabili, sono state trasmesse voyeuristicamente al mondo da numerose telecamere. Il mondo intero è diventato testimone attonito della tragedia di un lontano popolo balcanico.
Nel suo testo, Nuhanović non parla di nulla di tutto questo. Solo pura cronologia, documenti, cartografia, immagini. Tra queste anche quella dall'aereo spia U2 il 13 luglio alle ore 14, che riprende i soldati serbi che guidano due autobus pieni di giovani e ragazzi che di lì a qualche minuto avrebbero massacrato insieme ad altre circa 1.000 persone uccise quello stesso giorno nella località di Kravica. Le immagini parlano chiaro: nessuno potrà più dire: non lo sapevano. Lo sapevano. E noi continuiamo a non sapere quante riprese simili delle zone di Srebrenica, Bratunac, Zvornik e Vlasenica sono state fatte dagli aerei spia e dal satellite.
Personaggio serio, ascetico, con un appena percettibile tic al volto, Nuhanović ha riportato i crudi e terribili fatti, gli stessi fatti che hanno segnato per sempre la sua vita ma che hanno anche lasciato una macchia indelebile nell'immagine della missione internazionale. Il dibattito tenutosi a Trieste voleva sottolineare la riflessione sul ruolo della comunità internazionale e della missione militare sotto la bandiera dell'ONU, che insieme a quella del Regno olandese sventolava sull'edificio più alto della base di Potočari anche quando i soldati olandesi hanno separato i 5.000-6.000 profughi e li hanno consegnati direttamente nelle mani dei carnefici. In molte parti del mondo la bandiera dell'ONU rappresenta per la popolazione locale una garanzia di tutela e rispetto dei diritti umani e di promozione del processo democratico. Ma non in Bosnia, quanto meno non a Srebrenica, in questa tragica “zona protetta”.
Qualcuno a Trieste non ha potuto digerire in alcun modo la testimonianza documentata di Nuhanović e in generale il discorso su Srebrenica. Si tratta di un caso isolato di un rappresentante e forse di un gruppo minore di serbi che vivono in città. Questo “qualcuno” era forte del fatto che solo qualche mese fa, a settembre dello scorso anno, è riuscito a impedire la presentazione del libro del generale Jovan Divjak “Sarajevo mon amour”. Divjak - nato a Belgrado ma per sua scelta e per suo sentire bosniaco (non bosgnacco), che si batte per una Bosnia cittadina e secolare e che all'inizio della guerra è passato dalla JNA all'esercito di Bosnia Erzegovina restando a difendere la sua Sarajevo - è una pagliuzza negli occhi dei serbi nazionalisti. Non gli importa, Divjak è rimasto fedele a se stesso e a Sarajevo, di cui ha condiviso il destino insieme agli altri abitanti della città negli oltre 1.000 giorni di assedio. Quelli “delle montagne” l'hanno chiamato traditore; questi a Trieste sono riusciti a impedire la presentazione del suo libro tradotto in italiano a cui avrebbe dovuto partecipare anche uno dei più noti giornalisti italiani, scrittore e ottimo conoscitore dei Balcani, Paolo Rumiz.
Dunque, al suddetto signore di giovane età che si presenta autonomamente come rappresentante a pieno diritto della “secolare comunità serba di Trieste”, pensando fosse possibile impedire anche l'incontro dei triestini con Nuhanović al teatro Miela, è sfuggito di mente che si tratta di un luogo permanente di scambio di libero pensiero e creatività, della sede di dibattiti democratici e di indagine della società interculturale, dei diritti dell'uomo e del cittadino. Si tratta di un teatro, un palcoscenico simbolico della libertà di pensiero e di confluenza della massa critica intellettuale triestina.
Dal momento che le pressioni telefoniche sugli organizzatori prima dell'incontro al teatro non hanno portato alcun frutto, il signore in questione ha scritto una e-mail rivolgendosi ai suoi connazionali non solo a Trieste, ma anche quelli sparsi in diaspora nel vasto mondo fornendo loro delle informazioni dal titolo “Contro le menzogne su Srebrenica”, confezionate insieme ad un testo in italiano, con cui li si invitava a presentarsi “inorriditi” con la richiesta che l'incontro sul tema “il mendace genocidio di Srebrenica” non si tenesse. Con i suoi messaggi elettronici ha invaso la posta e asfissiato le istituzioni triestine, il sindaco (!) e gli organizzatori dell'evento, soprattutto del teatro Miela e del Teatro popolare sloveno di Trieste. Quest'ultimo, “colpevole” di aver co-organizzato l'incontro, al contempo è stato connotato in chiave etnica per il fatto che la presentazione introduttiva dell'autore e del suo libro era stata affidata alla professoressa dell'Università di Lubiana Marta Verginella, a Marko Gabrielčič, dell'Istituto di Lubiana Atol, che nell'ambito del progetto “Documenta” è impegnato da molti anni nella raccolta di dati sul massacro di Srebrenica del 1995.
La lettera, che non possiamo definire una “perla” linguistica in nessuno degli idiomi con cui si rivolge ai destinatari, inizia così:
“Sloveni e italiani preparano un nuovo bagno di insulti a noi serbi sotto forma di una serata di discussione a Trieste il giorno 11 novembre 2008 alle 20.15 al teatro Miela”.
Proseguendo, si fa appello ai serbi di Trieste affinché impediscano numerosi lo svolgersi dell'incontro e si utilizza la nota teoria sul complotto straniero e sulle “concessioni” serbe:
“Chiediamo a tutti coloro che sono interessati di venire di persona per fischiare e impedire quest'ignobile manipolazione e un nuovo tentativo di mostrare i serbi come popolo genocida. Sarebbe importante che a questa protesta si unisse il maggior numero di persone perché ‘il comune serbo di Trieste’ ha ricevuto l'incarico dalle autorità della Serbia di tacere e di non reagire alla tribuna sul ‘genocidio’ di Srebrenica che sloveni e italiani ci stanno preparando al teatro Miela. Non si devono rovinare i rapporti con Slovenia e Italia perché dobbiamo entrare in Ue anche come popolo genocida”.
L'autore non ha firmato personalmente il suo capolavoro, ma si nasconde dietro all'identità collettiva della redazione di “Politica serba”. Avendo capito che nessuno degli organizzatori era intenzionato a dar peso alla sua minaccia, con un po' di persone che la pensano come lui è giunto nella sala dove si teneva l'incontro, ha ascoltato in silenzio la testimonianza ed è stato il primo a prendere la parola per affermare che si trattava “solo della versione musulmana dei fatti”, che – dal suo punto di vista – ovviamente dev'essere corretta. Anche se non ha potuto ripetere il sillogismo “menzogne su Srebrenica” di cui parla nella lettera, ha sviluppato la tesi sulle “vittime cristiane” serbe e sulle fosse comuni serbe nei dintorni di Srebrenica, sui criminali di guerra musulmani e sul fatto che non si può parlare in alcun modo di genocidio di Srebrenica.
Sotto l'insistenza del pubblico affinché si presentasse, si è alzato malvolentieri dal suo posto in fondo alla sala, ha dichiarato la sua appartenenza alla “secolare comunità serba” (di cui, come afferma, era vice presidente, ma non si sa in quale mandato) e ha pronunciato il suo nome: Srđan Novaković. Così abbiamo ottenuto l'autore.
Facciamo subito presente che la comunità serba di Trieste non sostiene in alcun modo le affermazioni e le iniziative di Novaković. I fondatori di questa rispettata comunità, tempo addietro, quando qualcuno dei serbi o montenegrini neo-arrivati in città commetteva qualche azione vergognosa o qualche seccatura, prendevano le distanze dal responsabile e lo rispedivano a sue spese da dove era venuto. Tutto affinché non venisse danneggiato il nome della Comunità, che ha contribuito molto allo sviluppo della città e al suo prestigio commerciale e culturale. Ma erano altri tempi.
Vorrei solo ricordare agli attuali portavoce delle diverse etnie, che il vero patriota (se si parla di questo), qualsiasi sia la sua appartenenza, si riconosce per quanto prende le distanze dai crimini commessi, come si suol dire, in suo nome, nel nome del popolo a cui appartiene. E se potesse farlo, prima di tutto dovrebbe riconoscere il crimine, dovrebbe puntare il dito sul crimine e su coloro che l'hanno commesso, dovrebbe ridare dignità alle vittime, dovrebbe confrontarsi con il concetto di responsabilità. Pertanto non pensiamo in alcun modo che si tratti di responsabilità collettiva dell'intera nazione o gruppo etnico.
La situazione sarebbe meno soggetta ad incomprensioni se i popoli prendessero le distanze dai crimini commessi e rigettassero così nel modo più efficace il concetto di colpa collettiva.
Il più facile mimetismo dei regimi nazionalistici e dei loro portavoce è la completa indifferenza nei confronti del destino delle persone che in suo nome vengono uccise e di quelle che sono sopravvissute, costrette ad un'eterna afflizione. Le loro vite vengono disumanizzate e le vittime private di qualsiasi importanza, perché rappresentano quell'“altro“ indesiderato nella nazione.
La successiva conseguenza, se non passa la versione negazionista, è la relativizzazione del crimine. Questa trova sempre dei sostenitori, perché in qualche modo “alleggerisce” il peso del crimine incontestabile, commesso “nel nome del popolo”. Si tratta del “noi abbiamo fatto questo, ma loro ci hanno fatto questo e anche questo...” Siamo allora in qualche modo tutti uguali, redenti dal male, uguali, perché “così è la guerra”.
A Trieste questo non è accaduto. Il confronto ha mostrato la maturità e la conoscenza di parte dei partecipanti che non hanno permesso che venissero accettate tesi relativiste né tanto meno la balcanizzazione della scena pubblica. Ciò significherebbe esportare il conflitto dal Paese all’estero, in un altro stato. E per chiarire se si è trattato di genocidio oppure no, è stato sufficiente produrre l’atto d’accusa con cui il TPI – Tribunale Internazionale dell’Aja - ha accusato dei criminali di guerra serbo-bosniaci, tra cui Radoslav Krstić e cinque altri ufficiali, per “genocidio e crimini contro l’umanità”.
Confrontarsi con la responsabilità del crimine commesso nel nome della propria etnia e nel nome di un sogno (leggi: deliri nazionalistici) sui “puri” e grandi stati nazionali resta uno dei compiti più difficili nel cammino di qualsiasi progetto di catarsi e di riconciliazione.
E infine, ricordiamo la risposta che sul tema del genocidio in Bosnia ha dato Latinka Perović al settimanale di Sarajevo “Dani” ancora nel lontano 2002 (v.Dani, n.277):
“Non c’è dubbio che si tratti di genocidio e di pulizia etnica. Entrambi sono legati al programma di realizzazione di veri e propri stati nazionali su base etnica e di distruzione di tutto ciò che si incontra sul cammino. Non si può spiegare in altro modo, per questo si tace. Il crimine non viene considerato tale, ma strumento di una politica, che è stata sconfitta solo nei fatti, ma non a livello mentale”.