Testimoni di Srebrenica
11.07.2008
Donne di Srebrenica a Tuzla (foto Gughi Fassino)
Esattamente 13 anni fa si consumava, sotto gli occhi della comunità internazionale, il più grande crimine avvenuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, il massacro di Srebrenica. Riportiamo una testimonianza, inedita in Italia, di quei drammatici giorni in cui persero la vita circa 8000 persone
“Le Nazioni Unite al palo della vergogna di Srebrenica”. 104 testimonianze sul ruolo dell’ONU nel genocidio contro la popolazione della “zona protetta di Srebrenica”. È il titolo del libro di testimonianze pubblicato a Tuzla nel 2007 in inglese e bosniaco, a cura dell’Associazione “Zene Srebrenice” (Donne di Srebrenica). Nel giorno dell’anniversario della caduta della città di Srebrenica e dell’inizio del massacro contro la popolazione locale, definito genocidio dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, pubblichiamo una delle 104 testimonianze raccolte nel libro, ancora inedito in Italia.
Dichiarazione raccolta il 27 ottobre 2001 da Hidajet Kardasevic
Dichiarazione di Fadila Jahic
Traduzione a cura della redazione di Osservatorio sui Balcani
Dopo che siamo fuggiti da Slapovic, con la mia famiglia sono andata a Kazani e lì abbiamo trascorso alcuni giorni. Quando abbiamo saputo che l’11 luglio Srebrenica era caduta in mano ai cetnici, insieme alla mia famiglia sono partita in direzione della pompa di benzina e verso Vezionica, perché avevamo saputo che un grande numero di civili si era lì riunito già il 10 luglio.
Mio marito Hamed mi aveva detto che avrebbe accompagnato me e i bambini fino a Vezionica e che dopo avrebbe cercato di fuggire attraverso i boschi insieme con gli altri uomini. Sulla strada per Vezionica siamo stati attaccati da una serie di granate, una granata era caduta vicino a noi ed io sono rimasta gravemente ferita alla coscia destra. In quel momento avevo con me mio figlio di soli cinque mesi e mi è caduto dalle mani. Siccome eravamo nei pressi dell’ospedale mio marito mi ci ha portato in braccio, e i bambini sono venuti con noi. Ricordo che quando siamo arrivati al ponte di Kazani avevo visto un trasporto olandese parcheggiato.
Mio marito era andato incontro ai soldati olandesi per chiedergli se mi potevano portare fino all’ospedale… Dopo alcuni minuti per cercare di convincere i soldati olandesi, mio marito mi ha detto che non se ne faceva niente e che loro non avevano intenzione di portarmi all’ospedale… Dal ponte mio marito mi ha portato fino alla posto di blocco dei soldati olandesi di Vizionica e in qualche modo mi ha portato all’interno. Lì mi è stato prestato il primo soccorso, dopodiché gli olandesi con il loro camion mi hanno portato fino alla base di Potocari… All’arrivo nella base gli olandesi mi hanno detto che sarei rimasta lì fino all’evacuazione… Il tempo passava e la fabbrica continuava a riempirsi di civili, fra di loro c’era un certo numero di uomini. Ad un certo punto ho guardato mio marito con il bimbo in braccio. Quando è venuto verso di me mi ha detto, tu prendi il bambino mentre io cercherò di uscire dal campo e unirmi agli altri uomini che sono partiti per i boschi.
Lì ci siamo salutati e lui è andato via. Tuttavia, poco dopo è tornato da me. Mi ha detto che i soldati olandesi non lo avevano lasciato uscire dal campo e con forza lo avevano riportato nella fabbrica… Poco dopo, hanno portato nella fabbrica i feriti provenienti dall’ospedale di Srebrenica. Con loro c’erano alcune infermiere. Non mi ricordo se gli olandesi, quella notte, abbiano prestato aiuto medico a qualcuno o se le persone che sono venute dall’ospedale di Srebrenica abbiano aiutato i feriti. E oltre al fatto che ero gravemente ferita, dovevo pure allattare il mio piccolo di cinque mesi, e gli olandesi quella notte non ci avevano dato nulla da mangiare.
Il giorno dopo, 12 luglio, sono venuti i soldati del battaglione olandese e hanno detto di censire tutti gli uomini presenti nella fabbrica. In seguito hanno detto che la lista di nomi sarebbe servita per sapere con precisione quanti uomini si trovano nella fabbrica per poterli poi cercare in caso gli succedesse qualcosa. La maggior parte degli uomini si era rallegrata di questa cosa, mentre un piccolo numero era spaventato e si era nascosto, così da evitare il censimento… Ricordo bene quando è iniziata l’evacuazione. I feriti che potevano camminare da soli sono usciti dalla fabbrica e si sono diretti verso i camion che erano parcheggiati sulla strada.
Invece i feriti gravi sono rimasti, perché gli olandesi non avevano intenzione di aiutarli nell’evacuazione. Mio marito Hamed mi ha portata fino ad uno dei camion e mi ha lasciata lì. Io ho pregato i soldati olandesi di lasciare che mio figlio di cinque mesi venisse con me, perché dovevo allattarlo. Loro me lo hanno permesso e mio marito è di nuovo andato verso la fabbrica e mi ha portato il bambino. Non hanno permesso che mio marito venisse con me. Io non so cosa sia accaduto in quel momento, ho visto solo che mio marito veniva verso il camion. Probabilmente voleva ancora una volta salutarmi. Nello stesso momento sono accorsi due soldati olandesi, lo hanno preso per mano e lo hanno gettato giù dal camion. Ho visto come mio marito cadeva a terra e batteva la testa sull’asfalto. Dopodiché gli stessi soldati sono andati verso di lui, gli hanno urlato qualcosa e gli hanno indicato con la mano la fabbrica, dove eravamo prima. In qualche modo lui si è rialzato ed è andato verso la fabbrica. Quella è stata l’ultima volta che ho visto mio marito.
I camion dove caricavano i feriti sono rimasti più a lungo a Potocari, perché non c’era nessuno che potesse caricare i feriti, e non c’era nessuno di loro che li potesse aiutare. Più tardi ho visto una persona del servizio sanitario che prendeva i feriti e li caricava sul camion…
Varie volte i serbi ci hanno fermati e maltrattati, mentre gli olandesi che ci facevano da scorta si atteggiavano passivamente come se ciò fosse del tutto normale, non si sono mai opposti ai cetnici.
Quando abbiamo raggiunto Tisak era notte. Lì ci siamo fermati e ci è stato ordinato di scendere dai camion, cosa che era impossibile, a maggior ragione per i feriti che avevano bisogno di aiuto… un certo numero di feriti è sceso e abbiamo sentito i cetnici che li maltrattavano, picchiavano, insultavano e tutto davanti agli occhi dei soldati del battaglione olandese che osservavano in silenzio.
Io non riuscivo a scendere dal camion per via delle gravi ferite, ma anche per via del bimbo che dovevo continuamente tenere in braccio. Quella notte è stata lunga come l’eternità ed andava bene solo a quei criminali serbi che avevano portato via delle ragazze per violentarle ripetutamente.
Il giorno dopo, 13 luglio, ci hanno fatto tornare indietro, ossia verso Bratunac e ci hanno scaricati davanti all’ambulatorio. Lì ci aspettava un nutrito gruppo di civili serbi che ci hanno picchiato, sputato addosso e altro ancora. Un ragazzino mi ha colpito con un’asta di metallo proprio sulla ferita. A Bratunac siamo rimasti alcuni giorni, poi ci hanno portati nel campo di concentramento di Batkovici. Lì ho passato la notte, e poi mi hanno portata a Tuzla, probabilmente per via del bimbo di cinque mesi.